Dobbiamo ringraziare la pessima Debora Serracchiani, per una volta: "Nel testo attuale, il contratto a tutele crescenti non contiene la previsione della reintegra (ovvero il mantenimento dell'art. 18, ndr), ma questo non vuol dire che non possa contenerla nelle prossime versioni".
Parlando stamattina ad Agorà Estate, su Rai Tre, la vicesegretaria
del Pd nonché governatore del Friuli (ma quante cavolo di poltrone
riescono ad occupare contempotaneamente, questi "giovani rottamatori"
della vecchia classe politica che puntava solo alle poltrone!), è stata
finalmente chiara su uno dei contenui più controversi e "simbolici" del
Jobs Act renziano. "L'emendamento del governo - alla sua stessa delega
sul lavoro - è stato votato all'unanimità dal Partito Democratico in
commissione lavoro. Questo articolo lascia libertà di decidere. Mi
auguro che attraverso i decreti di attuazione si riesca a semplificare
un sistema che oggi ha una rigidità pazzesca. E' arrivato il momento di
adattare lo Statuto dei lavoratori a una realtà che dal '70 è cambiata
radicalmente. La situazione è di emergenza straordinaria, mi auguro ci
sia la maggiore condivisione possibile". Chiacchiericcio ideologico a
parte, la sostanza è chiara: addio art. 18.
Sul
contenuto del jobs act e il suo impatto sulle relazioni industriali e
la costituziona materiale del paese, ci siamo già soffermati
analiticamente ieri. Qui ci tocca prendere le misure al
"dissenso interno" allo stesso Pd, che si dimostra - una delle poche
battute decenti del Benigni ormai inquadrato nei ranghi renziani - anche
"l'unico partito di opposizione". Sel è più impalpabile di sempre, e i
Cinque Stelle - sulle questioni del mercato del lavoro - non sembrano in
grado di distinguere tra il dito e la luna. Hanno abbandonato i lavori
in commissione parlando di "delega in bianco" che il governo pretendeva
per sè, di cancellazione dello Statuto dei lavoratori, ecc (tutte
critiche giuste, per carità...), ma nel programma del movimento - e
nelle proposte di legge - non si ha notizia di un punto di vista
complessivamente alternativo su questi temi.
Martedì Il Jobs act approda al Senato, per iniziare l'esame di aula,
dopo aver ricevuto l'ok dalla commissione Lavoro, dove il Pd era
rappresentato da soli renziani doc. E proprio il balletto sul "totem"
dell'art. 18 (già così svuotato dalla Fornero che si può dire ne sia
rimasta solo l'ologramma) ha fatto uscire gli ex-Pci dal cono d'ombra
assoluto in cui li ha infilati il giovane massone democristiano che
credevano di poter controllare.
E quindi. Il presidente del Pd, l'ex sodale di Fassina, Matteo
Orfini, evidenzia la necessità di "correzioni importanti" al testo: "i
titoli del Jobs act sono condivisibili. Lo svolgimento meno: ne
discuteremo in direzione". L'ex segretario, Pier Luigi Bersani, chiede
che il governo chiarisca le "intenzioni surreali" contenute negli
articoli che ha potuto leggere. Spingendosi addirittura a pretendere: "è
ora di poter discutere con precisione cosa intendiamo quando diciamo
che bisogna superare il dualismo e l'apartheid nel mercato del lavoro".
Massimo D'Alema, l'indimenticabile genio che ha portato l'Italia
nella coalizione anti-Jugoslavia, che aveva concordato sul pacchetto
Treu, regalato Telecom ai "capitani coraggiosi", e altre diecimila
fetenzie, ha ricominciato a riunire dissidenti di vario lignaggio e
orientamento.
Diciamo subito e definitivamente una cosa: nessuno si illuda che sia
una fronda seria. A questi, del mercato del lavoro e dei diritti dei
lavoratori, non gliene frega nulla. Usano uno straccio per ricontrattare
il proprio ruolo (la nuova segreteria Pd è una corte personale, non una
"sintesi democratica"), sia come singoli che come area di provenienza.
Per gli ex-Pci, ex Pds, poi Ds ecc, infatti, l'apartheid e l'esclusione
da qualsiasi carica (tanto più governativa) sembrano decisi ormai per
statuto.
Chiunque abbia cominciato in queste ore a fantasticare di un "più
largo cartello elettorale", possibile "se si rompe il Pd", si può
cercare uno psicologo - ma bravo! - per curarsi dalle allucinazioni.
Quella gente apre conflitti in un partito vincente (sul piano
elettorale, il 25 maggio) soltanto per recuperare spazio. Non ci può
essere nessuna possibilità di "rottura" (al massimo qualche fuoriuscita
obbligata, dopo essere stati rottamati e messi ai margini, come si
favoleggia stia per fare Civati); tantomeno sulla base di un "diverso
approccio alla riforma del mercato del lavoro". La quale, così com'è, è
stata imposta e "benedetta" dall'Unione Europea, dal Fmi
e dalla Bce. Chiunque si muova dentro l'orizzonte dela cosiddetta
"sinistra di governo" sa che i posti a sedere più in alto possono essere
raggiunti solo mantenendosi "fedeli alla linea" multinazionale.
Perciò, meno illusioni, più mobilitazione, please...
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