La battaglia sul lavoro è la battaglia
della sinistra. Non è vero che quest’ultima nasca sui diritti,
sull’ambiente, sulle libertà politiche, sulla tutela dei disagiati e dei
poveri in generale. No, vive certo di queste cose, le assume
inevitabilmente nei propri programmi, ma nasce in verità su una cosa
solo, sul lavoro, la sua tutela, la sua difesa, il suo rafforzamento, la
sua crescita, il suo miglioramento. Certo. Il lavoro negli anni si è
trasformato, sono mutate le condizioni del lavoratori, era lavoro di
massa, si è in parte parcellizzato, ha accumulato o perduto potere, ma
esso resta un punto di riferimento culturale, politico, morale per una
sinistra che voglia dirsi tale, pur se profondamente rinnovata nelle sue
caratteristiche. La sinistra non può non pendere sempre sullo stesso
lato della contraddizione fondamentale (tale è, anche se ne sorgono di
nuove), pena la necessità di cambiare nome e mestiere. Quando cesserà
l’esigenza di lavorare, quando la trasformazione del mondo si affiderà
ad altro, quando non sarà più il lavoro a garantire l’esistenza di
un’economia, allora la sinistra finirà quasi istantaneamente di vivere,
mancandole la ragione storica fondante. Cesserà di esistere per mancanza
di presupposti essenziali.
Non è sbagliato dire, allora, che sul
lavoro la sinistra si gioca la strada di casa. Sulla qualità del lavoro,
sul suo potere, sul ruolo che occupa nella società. Parlo del lavoro
che modifica il mondo, non necessariamente di quello manifatturiero. Mi
riferisco a tutto ciò che impegna l’umanità in un’opera, penso
soprattutto ai milioni di donne e uomini che ogni giorno vanno in
fabbrica, ufficio, ospedale, scuola, negozio e si mettono al servizio di
un compito essenziale: farci sentire una grande organizzazione umana,
dove si fa economia, si fa cultura, si fa socialità, e dove ogni giorno
beni e servizi vengono prodotti (si spera) per il bene comune, non solo
per l’infinita ingordigia di taluni. Senza questa lavoro, questa massa
di donne e uomini, la sinistra sarebbe nulla. Perché i diritti hanno
gambe e braccia, così pure l’ambiente. E anche le libertà che senso
avrebbero se i lavoratori fossero degli schiavi? Per non dire dei
poveri, la cui speranza è un gesto di solidarietà efficace, a partire
dagli altri disagiati e dalle istituzioni pubbliche o private dove altri
uomini lavorano e si impegnano ogni giorno.
Ora la battaglia è al culmine. Nel mondo
le grandi imprese producono lucrando profitti su popolazioni affamate
di lavoro, sottopagate e poverissime di tutele. In Italia quelle poche
tutele stanno per saltare, gettandoci tutti (TUTTI) a partire dai più
giovani (i neoassunti – ma neoassunto può essere chiunque, a qualunque
età esca dal ciclo lavorativo) in un vortice sfrenato di mini jobs e
lavoretti, oppure in impieghi di maggior peso, ma dove sei licenziabile
senza motivo 24 hours. Certo ci sono le politiche attive, che fanno
subito (subito?) da sponda e ti rioccupano altrove non appena licenziato
(sempre che trovino le decine di miliardi che servirebbero alla scopo),
producendo però carriere lavorative da schifo. E allora è qui, sempre
qui, è questo il “campo” della sinistra (di cui tutti discettano e pochi
a proposito). Se c’è uno spazio dove giocarsela, dove decidere il
proprio destino e il proprio senso, per la sinistra questo è il campo
del lavoro. E più cresce la spinta a comprimere diritti, demansionare,
dequalificare, mobilitare, restringere le libertà, più la sinistra
diventa indispensabile, tragicamente necessaria, nel PD e fuori dal PD.
Di qui non si sfugge.
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