lunedì 5 gennaio 2015

La lotta di classe dei ricchi di Mario Pierro

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Il paese della ric­chezza pri­vata e della povertà pub­blica. È il ritratto dell’Italia che emerge dal Rap­porto sui diritti glo­bali giunto alla dodi­ce­sima edi­zione e pre­sen­tato ieri a Roma nella sede nazio­nale della Cgil. Il rap­porto «Dopo la crisi, la crisi» (Ediesse), curato da Ser­gio Segio, con pre­fa­zioni di Susanna Camusso e don Luigi Ciotti, e stato pro­mosso dalla Cgil insieme a un car­tello di asso­cia­zioni com­po­sto da Anti­gone, Arci, Cnca, Gruppo Abele, Legam­biente e Fon­da­zione Basso.
Dove sono finiti i soldi?
«Non si parla mai della ric­chezza esi­stente, ma della povertà pro­dotta dalla crisi – ha detto Danilo Barbi della segre­te­ria Cgil – In Ita­lia esi­ste una gigan­te­sca con­cen­tra­zione di ric­chezza non tas­sata in maniera pro­gres­siva come ad esem­pio in Spa­gna».
Dove sono finiti que­sti soldi e come ven­gono distri­buiti? Que­sta è la domanda che attra­versa i cin­que capi­toli del rap­porto (Eco­no­mia e lavoro, Wel­fare e terzo set­tore, diritti umani, ambienti e beni comuni, poli­tica inter­na­zio­nale) offrendo una pro­spet­tiva sulla crisi dal punto di vista di chi l’ha subita.
L’occultamento di que­ste ric­chezze emerge dall’analisi delle dise­gua­glianze sociali. Secondo Ban­ki­ta­lia, nel 2012 il 10% della popo­la­zione più ricca pos­se­deva quasi la metà della ric­chezza nazio­nale (il 46,6%), men­tre il 10% delle fami­glie più povere per­ce­pi­sce solo il 2,4% del totale dei red­diti.
In Ita­lia dieci per­sone pos­sie­dono 75 miliardi di euro, pari al red­dito di 500 mila fami­glie ope­raie. Solo due­mila per­sone pos­sie­dono un patri­mo­nio supe­riore a 169 miliardi di euro, pro­prietà immo­bi­liari a parte.
I soldi dun­que esi­stono, ma sono stati dirot­tati verso l’alto della pira­mide sociale, men­tre in basso dilaga la povertà, la depri­va­zione anche ali­men­tare, la pre­ca­rietà del lavoro che sfuma verso la zona gri­gia del lavoro povero e dell’inoccupazione. Giunti al sesto anno della crisi, aggra­vata dalle poli­ti­che dell’austerità ispi­rate al rigore fiscale, ai tagli alla spesa pub­blica e all’aumento delle tasse adot­tate anche dai governi ita­liani, sono cre­sciute le dise­gua­glianze sociali, men­tre i salari ven­gono com­pressi. Nel 2013, sono cre­sciuti in Ita­lia solo del 3,69%, negli Stati Uniti sono invece aumen­tati del 36,34%, in Fran­cia del 32,85%, in Ger­ma­nia del 28,53%.
Si lavora come sem­pre tanto, ma si viene pagati sem­pre di meno, e non si rispar­mia nulla. In que­sta cor­nice è esplosa la povertà. Tra il 2007 e il 2012 coloro che vivono in povertà asso­luta sono pas­sati da 2 milioni e 400 mila a 4 milioni e 800 mila, pari all’8% della popo­la­zione. Secondo i dati Istat, ana­liz­zati nel rap­porto, i poveri rela­tivi sono il 15,8% della popo­la­zione: 9 milioni 563 mila per­sone. La disoc­cu­pa­zione gene­rale è, al momento, al 12,6%; quella gio­va­nile (15–24 anni) è al 43%. Dall’inizio della grande reces­sione, oltre 980 mila per­sone hanno perso il loro posto di lavoro. Solo tra il 2012 e il 2013 sono eva­po­rati 424 mila posti di lavoro. Peg­gio dell’Italia, ci sono solo Gre­cia, Croa­zia e Spagna.
Lavoro povero, poveri che lavorano
Quello del lavoro povero, e della disoc­cu­pa­zione, è uno sce­na­rio ricor­rente in Europa dove le per­sone che hanno perso il lavoro sono cre­sciute di 10 milioni, por­tando a 27 milioni il totale dei disoc­cu­pati, men­tre i nuovi poveri sono cre­sciuti di 13 milioni di unità, 124 in totale. A livello glo­bale, sostiene l’Ilo, nel 2013 i disoc­cu­pati erano 202 milioni, i lavo­ra­tori poveri sono 200 milioni e soprav­vi­vono in media con 2 dol­lari al giorno. Sono alcuni dei risul­tati di quella che Luciano Gal­lino ha chia­mato la «lotta di classe dall’alto», agita dalla finanza, favo­rita dalle poli­ti­che dell’«austerità espan­siva» e dalla tra­sfor­ma­zione auto­ri­ta­ria delle demo­cra­zie parlamentari.
Dal tren­ten­nio “glo­rioso” al tren­ten­nio “penoso”
La pola­riz­za­zione tra ric­chi e poveri, e la cre­scita espo­nen­ziale delle dise­gua­glianze sociali, sono il risul­tato di una redi­stri­bu­zione della ric­chezza sociale e pro­dotta dal lavoro “al con­tra­rio”. E’ così emerso un vero e pro­prio sistema sociale che non ha solo tra­sfe­rito la ric­chezza sociale verso i ric­chi, ma ha dis­solto il valore del lavoro e ha pro­dotto la dis­so­lu­zione del ceto medio come rap­pre­sen­ta­zione sociale che ha equi­li­brato lo scon­tro nel corso del cosid­detto “tren­ten­nio glo­rioso”, quel periodo di cre­scita mira­co­losa regi­strata nel secondo dopo­guerra dal 1945 al 1973. Ancora oggi ci tro­viamo a vivere nella coda lunga di quello che è stato chia­mato il “tren­ten­nio penoso”: la contro-rivoluzione che ha dato vita al capi­tale finan­zia­rio e che oggi ha isti­tuito un deter­mi­ni­smo sociale ed eco­no­mico che impone le poli­ti­che dell’austerità e quelle neo-autoritarie.
Una costel­la­zione di fat­tori che ha pro­dotto «una cata­strofe uma­ni­ta­ria, non solo eco­no­mica — si legge nel rap­porto sui diritti glo­bali –ed è il frutto di scelte poli­ti­che pre­cise. La rotta non è stata inver­tita e le poli­ti­che dell’austerità hanno stre­mato i lavo­ra­tori e il ceto medio». La tra­sfor­ma­zione in corso è enorme, ma pochi sem­brano averla com­presa. La ripresa non ci sarà (nel 2014 in Ita­lia sarà forse allo 0,3%), e non avverrà sulla base del vec­chio modello di svi­luppo basato sull’edilizia, le grandi opere e la pre­ca­riz­za­zione. In più non pro­durrà occu­pa­zione fissa, men­tre i senza lavoro reste­ranno a lungo sopra la dop­pia cifra.
La cre­scita “anemica”
Il rap­porto riper­corre il dibat­tito nato nel corso dell’ultimo anno sul libro dell’economista fran­cese Tho­mas Piketty: Le Capi­tal au XXème siè­cle che ha colto una delle prin­ci­pali novità pro­dotta dalla reces­sione glo­bale. Piketty, tra l’altro, sostiene che la cre­scita eco­no­mica oscil­lerà a lungo tra lo 0 e l’1% e tale anda­mento è “ende­mico”. La reces­sione ha infatti por­tato l’economia capi­ta­li­stica occi­den­tale in un regime di deflazione.
A que­sto pro­po­sito si parla di “cre­scita deflat­tiva”, pro­dotta sin dalla fine degli anni Ottanta dalla tra­sfor­ma­zione del sistema di pro­du­zione capi­ta­li­stico verso un’economia pie­na­mente finan­zia­riz­zata. A que­sto pro­po­sito è stata anche for­mu­lata una seconda ipo­tesi, ancora più pes­si­mi­stica. L’ex mini­stro del tesoro Usa Law­rence Sum­mers ha infatti par­lato di una “sta­gna­zione secolare”.
Pre­vi­sioni non del tutto lon­tane da que­sto sce­na­rio le hanno fatte anche le isti­tu­zioni eco­no­mi­che inter­na­zio­nali, dall’Ocse all’Fmi o l’Organizzazione Inter­na­zio­nale del Lavoro (OIL) secondo le quali quella in atto è una cre­scita eco­no­mica che non pro­duce occu­pa­zione sta­bile. Si chiama jobless reco­very, e si mani­fe­sta nelle epo­che di reces­sione: men­tre il Pro­dotto Interno Lordo migliora, il tasso di disoc­cu­pa­zione (quello gene­rale e quello gio­va­nile) resta ele­vato e con­ti­nua ad aumen­tare per un periodo inde­ter­mi­nato. Anche nelle eco­no­mie, come quella degli Stati Uniti, dove si pro­du­cono nuovi posti di lavoro, la disoc­cu­pa­zione effet­tiva (che com­prende cosid­detti Neet, sco­rag­giati, part-time o lavo­ra­tori pre­cari) con­ti­nua ad aumentare.
La pre­ca­rietà si con­fonde con la disoc­cu­pa­zione di lunga durata (si allun­gano cioè i tempi per la ricerca di un nuovo lavoro) e il lavoro in quanto tale è sem­pre più povero, meno pagato, inca­pace di rilan­ciare i con­sumi interni (aumen­tano cioè i wor­king poors).
Il Jobs Act di Renzi e Polenti
La riforma Poletti che ha eli­mi­nato il requi­sito della cau­sa­lità del con­tratto a tempo deter­mi­nato e per­mette al datore di lavoro l’opportunità di non spe­ci­fi­care i motivi tec­nici, orga­niz­za­tivi o pro­dut­tivi con i quali sce­glie di dare un “ter­mine” a un con­tratto di lavoro. E que­sto per 36 mesi, tre anni. Una misura legi­sla­tiva che ha sol­le­vato molte pole­mi­che ed è stata defi­nita da un giu­sla­vo­ri­sta come Pier­gio­vanni Alleva come “la morte del diritto del lavoro, inteso come diritto che tutela la parte debole (…) In que­sto modo il lavo­ra­tore a ter­mine diventa un lavo­ra­tore in con­di­zione di mino­ra­zione di diritti, è una per­sona che non può pro­te­stare, spe­cial­mente se fuori c’è tanta disoccupazione”.
Una riforma che risponde all’idea di “pre­ca­rietà espan­siva” di chi hanno par­lato gli eco­no­mi­sti Ric­cardo Real­fonzo e Emi­liano Bran­cac­cio. Un prov­ve­di­mento, defi­nito da Alleva come un “atto ille­git­timo” per­ché con­tra­sta con la diret­tiva euro­pea 70 del 1999 sui con­tratti a ter­mine, ma fun­zio­nale alla pre­ca­riz­za­zione ulte­riore del lavoro inter­mit­tente che verrà pagato ancor meno di quanto non lo sia già oggi.
Con l’inizio del seme­stre ita­liano alla guida del Con­si­glio Euro­peo il pre­si­dente del Con­si­glio Mat­teo Renzi ha voluto inau­gu­rare una discon­ti­nuità: quella della cosid­detta “fles­si­bi­lità” del patto di sta­bi­lità che ha impo­sto il rigore dell’austerità. Nelle ana­lisi con­te­nute nel rap­porto sui diritti glo­bali, alla luce delle con­si­de­ra­zioni sulla “cre­scita ane­mica”, que­sta discon­ti­nuità viene ridi­men­sio­nata ad una variante delle poli­ti­che eco­no­mi­che austere. Come ha ricor­dato l’economista Real­fonzo, uno dei cor­re­lati dell’”austerità fles­si­bile”, o “mor­bida”, è appunto que­sto allar­ga­mento della pre­ca­rietà del lavoro. Un ele­mento già pre­sente nel pre­ce­dente ciclo economico.
Il “colpo di stato” di ban­che e governi
Nel rap­porto dei diritti glo­bali ricorre spesso il rife­ri­mento al lavoro del socio­logo tori­nese Luciano Gal­lino e al suo ultimo libro “Il colpo di stato di ban­che e governi” (Einaudi).
“Si può par­lare di colpo di Stato quando una parte dello Stato stesso si attri­bui­sce poteri che non gli spet­tano per svuo­tare il pro­cesso demo­cra­tico - afferma Gal­lino in un’intervista inclusa nel rap­porto - Oggi deci­sioni di fon­da­men­tale impor­tanza ven­gono prese da gruppi ristretti: il diret­to­rio com­po­sto dalla Com­mis­sione UE, la BCE, l’FMI. I Par­la­menti sono svuo­tati e hanno dele­gato le deci­sioni ai governi. I governi li hanno pas­sati al diret­to­rio. Se que­sta non è la fine della demo­cra­zia, è cer­ta­mente una ferita grave. Pen­siamo al patto fiscale, un enorme impe­gno eco­no­mico e sociale con una valenza poli­tica rile­van­tis­sima di cui nes­suno pra­ti­ca­mente ha discusso. I Par­la­menti hanno sbat­tuto i tac­chi e hanno votato alla cieca per­ché ce lo chie­deva l’Europa. Non esi­stono alter­na­tive, ci è stato detto. Que­sta espres­sione è un corol­la­rio del colpo di Stato in atto”.
Poli­tica dei diritti
L’unica buona noti­zia in que­sto sce­na­rio fosco, in cui la poli­tica «è impo­tente o igno­bile», è che «nella società sta matu­rando la neces­sità di riven­di­care sia i diritti civili, che quelli eco­no­mici e sociali — ha detto Luigi Man­coni, pre­si­dente della Com­mis­sione Diritti Umani al Senato — La vio­lenza della crisi ha reso esi­gi­bili tutte que­ste cate­go­rie di diritti che la sini­stra ha sepa­rato in una gerar­chia immutabile».
Il rap­porto: “Dopo la crisi, la crisi”
Stru­mento unico di con­sul­ta­zione e docu­men­ta­zione da 12 anni, creato a ridosso degli eventi di Genova 2001, il nuovo «Rap­porto sui diritti glo­bali» è stato pub­bli­cato da Ediesse (15 euro) e quest’anno si pre­senta in ver­sione ridotta a causa del clima di auste­rità. Al volume di 170 pagine è accluso un Dvd con oltre 900 pagine di ana­lisi, cro­no­lo­gie, schede, glos­sari, biblio­gra­fie e una sito­gra­fia. Curato dall’ Asso­cia­zione Società Infor­ma­zione Onlus, pro­mosso da Cgil con Actio­nAid, Anti­gone, Arci, Cnca, Fon­da­zione Basso, Forum Ambien­ta­li­sta, Gruppo Abele, Legam­biente, con­tiene inter­vi­ste tra gli altri a Andrea Bara­nes, Marco Ber­sani, Aldo Bonomi, Ales­san­dro Dal Lago, Mar­cello De Cecco, Ser­gio Finardi, Luciano Gal­lino, Paolo Mad­da­lena, Nicola Nico­losi, Simone Pie­ranni, Chiara Sara­ceno, Danilo Zolo.

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