Un
esempio di manifesta ipocrisia politica. E’ un giudizio duro, posso
ammetterlo tranquillamente, ma come definire altrimenti le eredità che
la presidenza di Giorgio Napolitano ci lascia nella descrizione fatta,
peraltro molto poco circostanziata, del suo ultrasettennato?
Dopo la caduta di Berlusconi voluta dai mercati internazionali, Giorgio Napolitano è stato il principale artefice e regista di una “gioiosa macchina da guerra” tutta italiana che fosse funzionale alle direttive della famosa lettera della Banca Centrale Europea. Il rigore dei conti, l’austerità, la ricerca di una pace sociale mai veramente attuata e incontrata nel cammino dei governi più o meno “tecnici”, sono tutto un prodotto del decisionismo del Colle.
Senza Napolitano come guida proconsolare dell’ “imperium” europeo (o meglio di Draghi e Junker), gli ultimi anni della vita sociale e politica italiana sarebbero probabilmente stati meno legati al trascinamento economico germanico, all’assecondamento delle necessità d’Oltralpe, di una mitteleuropa tutta protesa ad utilizzare i paesi più deboli e sfortunati dell’Unione (il caso greco è lì a dimostrare tutto questo) per rafforzare il parterre dei profitti e del proprio prodotto interno lordo.
La funzione, quindi, del Capo dello Stato si è rivelata decisiva in questo agone di incontri, di scontri e di pretese dei luoghi sacri del capitalismo continentale per stabilire anche in Italia un vicereame della BCE, uno Stivale tutto al servizio palese di sua maestà la Germania, di sua graziosa altezza l’Unione Europea delle banche e dei poteri forti.
La creazione del governo Monti fu il primo di una serie di atti politici che sono andati oltre le mansioni e i poteri attribuiti dalla Costituzione al Presidente della Repubblica: con il favorire le larghe intese e con l’affidare il Paese ad un uomo del Gruppo Bilderberg, Giorgio Napolitano ha dato il via libera alla costruzione della politica dell’austerità: la riforma messa in campo da Elsa Fornero in merito al mercato del lavoro è il punto di partenza di una nuova stagione di destrutturazione dei diritti dei lavoratori, completata abilmente dall’ex sindaco di Firenze asceso così velocemente nelle stanze del potere, autore con Poletti, Del Rio e con il favore di molti economisti liberisti, del tanto celeberrimo “Jobs act”.
Gli indicatori economici, intanto, dopo Monti, Letti e con Renzi, parlano senza infingimenti di una crisi economica da cui non siamo usciti nemmeno con un dito solo di un singolo piede. Siamo ancora tutti immersi in un tunnel di incertezze dove la disoccupazione giovanile è cresciuta esponenzialmente, dove al sud raggiunge livelli mai visti (praticamente un giovane su due è senza lavoro da lungo tempo) e in tutta Italia non arrivava a punte così elevate come il 12,7% dal lontano 1977.
I bei discorsi di Napolitano e di Renzi sono aria fritta davanti alla tragedia sociale del Paese. Gli 80 euro e le riforme costituzionali sono specchietti per le allodole, finzioni, maschere di cartone messe sui visi di chi preferisce credere che non vi sia altra soluzione se non affidarsi al benevolo giudizio dei mercati per avere una credibilità internazionale che non significa mai stima di altri popoli verso il nostro; diversamente, significa stima di altri capitalisti per i sacrifici imposti alle classi più umili, ai lavoratori e alle lavoratrici, nell’ambito di una ristrutturazione delle regole che normavano i diritti sociali più banali e che oggi sono stati superati.
L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quel tanto vituperato e spaventevole diritto che, ci spiegano, dovebbe essere trascurabile e che invece è molto, molto importante sia per i lavoratori sia per i padroni (che giustamente lo temono, in quanto limitazione di esercizio del loro “libero” arbitrio di licenziamento per motivi tutt’altro che fondati su una “giusta causa”), è stato per settimane al centro di un dibattito anche simbolico, ma che ci ha ben fatto vedere chi ha difeso le rosicate garanzie di tutela del lavoro e chi le ha volute cancellare in nome della flessibilità e della deregolamentazione che agevolerebbe l’accesso all’impiego in fabbrica…
E si torna all’ipocrisia iniziale, a quella che è echeggiata abbondantemente nel discorso di fine anno del Capo dello Stato. Un presidente che ha persino accettato di superare la norma costituzionale scritta del settennato.
E’ vero che la Costituzione non fa cenno al vincolo per un presidente per un solo mandato. Ma è altrettanto vero che era tradizione non scritta, ma sancita dal buon senso e dallo spirito primo di costruzione dell’articolo costituzionale scritto dai Padri della Repubblica nel 1947 – 48, affidare un periodo di tempo di soli sette anni ad un presidente.
La rielezione, a cui si è arrivati con la sciarada della finta volontà da parte del Partito democratico di eleggere Romano Prodi (ancora una volta sacrificato sull’altare delle convenienze del partito di governo, già allora ampiamente renziano… basti pensare ad un numero: 101), creata ad arte per evitare una soluzione di continuità col ruolo di primo garante dei governi tecnico – economici graditi a Bruxelles, ha in definitiva esplicitamente chiarito come le istituzioni repubblicane siano divenute una appendice sempre più dipendente non tanto dagli interessi nazionali di un capitalismo decadente e privo di concorrenzialità col resto del Vecchio Continente, quanto dagli interessi della “locomotiva” d’Europa che impone una divisione del debito non proporzionalmente alle possibilità economiche dei singoli paesi, ma in parti “uguali”. E, diceva Don Milani: “Fare parti uguali tra diseguali è la cosa più ingiusta che vi sia”. Così la Grecia sprofonda nel baratro del collasso e spera in Syriza per autonomizzarsi da Bruxelles e provare a rovesciare le carte sul tavolo di una attualità storica che non dà futuro a milioni e milioni di europei; così la Germania prosegue la sua avanzata trionfante, stabilendo patti di collaborazione fattiva con la Francia in una Unione Europea sempre più disarticolata e disunita, sempre meno popolare, sempre più monetaria.
Napolitano ci lascia in eredità tutto questo. Ci dice di essere convinto di aver lavorato per l’unità del Paese. Ha lavorato invece pervicacemente per l’unità dei mercati, per l’unità dei profitti, contro i lavoratori, contro gli indigenti, contro chiunque vede il suo potere di acquisto scemare di giorno in giorno e la crisi dei bassi salari non accennare a diminuire.
Addio, presidente. Non ci mancherà proprio per niente.
MARCO SFERINIDopo la caduta di Berlusconi voluta dai mercati internazionali, Giorgio Napolitano è stato il principale artefice e regista di una “gioiosa macchina da guerra” tutta italiana che fosse funzionale alle direttive della famosa lettera della Banca Centrale Europea. Il rigore dei conti, l’austerità, la ricerca di una pace sociale mai veramente attuata e incontrata nel cammino dei governi più o meno “tecnici”, sono tutto un prodotto del decisionismo del Colle.
Senza Napolitano come guida proconsolare dell’ “imperium” europeo (o meglio di Draghi e Junker), gli ultimi anni della vita sociale e politica italiana sarebbero probabilmente stati meno legati al trascinamento economico germanico, all’assecondamento delle necessità d’Oltralpe, di una mitteleuropa tutta protesa ad utilizzare i paesi più deboli e sfortunati dell’Unione (il caso greco è lì a dimostrare tutto questo) per rafforzare il parterre dei profitti e del proprio prodotto interno lordo.
La funzione, quindi, del Capo dello Stato si è rivelata decisiva in questo agone di incontri, di scontri e di pretese dei luoghi sacri del capitalismo continentale per stabilire anche in Italia un vicereame della BCE, uno Stivale tutto al servizio palese di sua maestà la Germania, di sua graziosa altezza l’Unione Europea delle banche e dei poteri forti.
La creazione del governo Monti fu il primo di una serie di atti politici che sono andati oltre le mansioni e i poteri attribuiti dalla Costituzione al Presidente della Repubblica: con il favorire le larghe intese e con l’affidare il Paese ad un uomo del Gruppo Bilderberg, Giorgio Napolitano ha dato il via libera alla costruzione della politica dell’austerità: la riforma messa in campo da Elsa Fornero in merito al mercato del lavoro è il punto di partenza di una nuova stagione di destrutturazione dei diritti dei lavoratori, completata abilmente dall’ex sindaco di Firenze asceso così velocemente nelle stanze del potere, autore con Poletti, Del Rio e con il favore di molti economisti liberisti, del tanto celeberrimo “Jobs act”.
Gli indicatori economici, intanto, dopo Monti, Letti e con Renzi, parlano senza infingimenti di una crisi economica da cui non siamo usciti nemmeno con un dito solo di un singolo piede. Siamo ancora tutti immersi in un tunnel di incertezze dove la disoccupazione giovanile è cresciuta esponenzialmente, dove al sud raggiunge livelli mai visti (praticamente un giovane su due è senza lavoro da lungo tempo) e in tutta Italia non arrivava a punte così elevate come il 12,7% dal lontano 1977.
I bei discorsi di Napolitano e di Renzi sono aria fritta davanti alla tragedia sociale del Paese. Gli 80 euro e le riforme costituzionali sono specchietti per le allodole, finzioni, maschere di cartone messe sui visi di chi preferisce credere che non vi sia altra soluzione se non affidarsi al benevolo giudizio dei mercati per avere una credibilità internazionale che non significa mai stima di altri popoli verso il nostro; diversamente, significa stima di altri capitalisti per i sacrifici imposti alle classi più umili, ai lavoratori e alle lavoratrici, nell’ambito di una ristrutturazione delle regole che normavano i diritti sociali più banali e che oggi sono stati superati.
L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quel tanto vituperato e spaventevole diritto che, ci spiegano, dovebbe essere trascurabile e che invece è molto, molto importante sia per i lavoratori sia per i padroni (che giustamente lo temono, in quanto limitazione di esercizio del loro “libero” arbitrio di licenziamento per motivi tutt’altro che fondati su una “giusta causa”), è stato per settimane al centro di un dibattito anche simbolico, ma che ci ha ben fatto vedere chi ha difeso le rosicate garanzie di tutela del lavoro e chi le ha volute cancellare in nome della flessibilità e della deregolamentazione che agevolerebbe l’accesso all’impiego in fabbrica…
E si torna all’ipocrisia iniziale, a quella che è echeggiata abbondantemente nel discorso di fine anno del Capo dello Stato. Un presidente che ha persino accettato di superare la norma costituzionale scritta del settennato.
E’ vero che la Costituzione non fa cenno al vincolo per un presidente per un solo mandato. Ma è altrettanto vero che era tradizione non scritta, ma sancita dal buon senso e dallo spirito primo di costruzione dell’articolo costituzionale scritto dai Padri della Repubblica nel 1947 – 48, affidare un periodo di tempo di soli sette anni ad un presidente.
La rielezione, a cui si è arrivati con la sciarada della finta volontà da parte del Partito democratico di eleggere Romano Prodi (ancora una volta sacrificato sull’altare delle convenienze del partito di governo, già allora ampiamente renziano… basti pensare ad un numero: 101), creata ad arte per evitare una soluzione di continuità col ruolo di primo garante dei governi tecnico – economici graditi a Bruxelles, ha in definitiva esplicitamente chiarito come le istituzioni repubblicane siano divenute una appendice sempre più dipendente non tanto dagli interessi nazionali di un capitalismo decadente e privo di concorrenzialità col resto del Vecchio Continente, quanto dagli interessi della “locomotiva” d’Europa che impone una divisione del debito non proporzionalmente alle possibilità economiche dei singoli paesi, ma in parti “uguali”. E, diceva Don Milani: “Fare parti uguali tra diseguali è la cosa più ingiusta che vi sia”. Così la Grecia sprofonda nel baratro del collasso e spera in Syriza per autonomizzarsi da Bruxelles e provare a rovesciare le carte sul tavolo di una attualità storica che non dà futuro a milioni e milioni di europei; così la Germania prosegue la sua avanzata trionfante, stabilendo patti di collaborazione fattiva con la Francia in una Unione Europea sempre più disarticolata e disunita, sempre meno popolare, sempre più monetaria.
Napolitano ci lascia in eredità tutto questo. Ci dice di essere convinto di aver lavorato per l’unità del Paese. Ha lavorato invece pervicacemente per l’unità dei mercati, per l’unità dei profitti, contro i lavoratori, contro gli indigenti, contro chiunque vede il suo potere di acquisto scemare di giorno in giorno e la crisi dei bassi salari non accennare a diminuire.
Addio, presidente. Non ci mancherà proprio per niente.
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