venerdì 1 maggio 2015

LA NON SFIDUCIA DELLA NON SINISTRA di Norberto Fragiacomo

La sfiducia a Renzi, ieri o oggi, avrebbe trasformato il corteo del Primo Maggio in una festa di popolo: sollievo, canti di gioia e bandiere al vento.
Invece, com’era agevole prevedere, non è successo nulla, e domani sfileremo per le vie delle nostre città con più rassegnazione che baldanza, consapevoli in fondo che non basta essere Popolo una volta all’anno (o, ben che vada, una al mese – e lo dico anzitutto a me stesso).

La notizia che Matteo Renzi ha vinto è una non-notizia: già i latini sapevano che “erat facile vincere non repugnantes” (Cicerone). Che i mini-dem calassero le brache era scontato: in cinquanta lo hanno fatto platealmente, in pubblico, altri 38 hanno avuto il buon gusto di appartarsi in bagno. Attentato alla democrazia, imposizione al Parlamento… dopo tanto abbaiare, manco un cane se l’è sentita di dare un morsettino al twittatore toscano. Votare contro? Non sia mai: al massimo ci si assenta, si scala l’Aventino di Montecitorio fino al bancone del bar. Il “pugnace” D’Attorre, intervistato domenica da Il Piccolo, era stato ambiguamente chiaro: non voterò la fiducia, per quanto riguarda il testo finale si vedrà. Si vedrà, appunto, e sarà la solita pantomina.

Eppure, se - come sostiene Bersani - porre la fiducia su una legge di stretta competenza parlamentare è evidente forzatura, un no di bandiera sarebbe stato politicamente giustificabile, e facile da difendere nell’arena dei talkshow: non occorreva il coraggio di un Matteotti per pronunciarlo. Niente da fare: con il non-voto di ieri la “sinistra dem” ci offre l’ennesima testimonianza della sua natura esclusivamente mediatica, cioè della sua inesistenza. Qual è la differenza tra il disciplinato Damiano ed Ettore Rosato, entusiasta propagandista renziano? Che il secondo – proveniente dalla Margherita e spalla politica di professione – è meno colpevole del primo, perché non è mai stato “comunista” né ha ricoperto incarichi in CGIL.

Dispiace che Stefano Fassina – che su molti temi aveva dato prova di ravvedimento operoso – si sia mestamente accodato alla minoranza assente, mentre il decimillesimo preannuncio di addio al PD da parte di Civati strappa un sorriso: quando sbatterà la porta (se mai si deciderà), la notiziola cadrà nel vuoto. “Ma come, non era già uscito?” – si chiederà qualche telespettatore, sbadigliando davanti allo schermo presidiato da Lilli Gruber.

Renzi ce lo teniamo, dunque. Ne è passato di tempo dall’ultima volta che ho scritto su di lui, ma non sento l’esigenza di aggiornare il ritratto. L’uomo è quello che era e sempre sarà: prepotente, fanfarone, grossolano e compiaciuto di sé, capace di passare in un attimo dalla blandizie alla violenza verbale (e alla sottile minaccia) come un qualunque venditore di polizze. Potrei aggiungere che ormai parla in playback: sempre le stesse frasi, le stesse esortazioni, le stesse formule, le stesse battute. Che sia di destra, di destrissima, lo asseverano i fatti: con il Jobs act ha cancellato il diritto del lavoro, con la “Buona Scuola” metterà in riga gli insegnanti (e forse manderà gli studenti ai lavori forzati estivi, come auspica Poletti); la riforma della Pubblica Amministrazione strizza l’occhio al modello americano, la privatizzazione di aziende strategiche e servizi pubblici si porta dietro, attraverso l’accorpamento degli enti, lo svuotamento della democrazia locale, la recisione dell’ultimo tenue legame tra amministratori e amministrati.

E’ un fascista? No, perché – da opportunista doc - è refrattario agli ideali, alti o ignobili che siano: neoliberista poiché gli conviene, ha concesso i propri servigi a finanzieri e lobby sovranazionali, che per ora contraccambiano le sue attenzioni.

E’ detestabile, cinico, tracotante e bugiardo – ma non è un demone insinuatosi a tradimento in un organismo sano: del PD il fiorentino incarna l’anima più autentica. C’erano una volta i comunisti, più amministratori che rivoluzionari: la tesi, durata decenni. La caduta del muro provocò una conversione in massa al neoliberismo: primum vivere, deinde philosophari. Antitesi, con trasformazione strutturale e quieta conservazione degli antichi riti. Renzi non ha fatto altro che prendersi la struttura e “rottamare” la sovrastruttura, avendo compreso che, oramai, lessico e bandiere son passati di moda.

Non c’è contrapposizione ideale con il vecchio gruppo dirigente: le frizioni nascono da collisioni fra interessi personali, al più da rivalità e antipatie. Renzi ha voluto il Jobs act, ma la “sinistra interna”, con poche eccezioni, gliel’ha votato, così come ha votato e voterà tutti i provvedimenti reazionari pretesi dalla UE. D’altra parte, il Jobs act è figlio del Pacchetto Treu, della precarizzazione imposta dal primo centrosinistra negli anni ’90; la privatizzazione dei servizi locali inizia con decreti che portano i nomi di Letta, Burlando ecc. L’elenco potrebbe continuare all’infinito, ma ve lo risparmio. Mi piacerebbe, invece, ricordare a D’Alema il suo ruolo politico nell’aggressione NATO alla Jugoslavia, a Bersani il giro delle sette chiese, a primavera 2013, per rassicurare i mercati che, in caso di successo elettorale, le riforme (neoliberiste) sarebbero proseguite e i Trattati UE non sarebbero stati messi in discussione; al PD tutto la posizione assunta sulla vicenda libica – attentato alla Costituzione addolcito da melassa sugli immancabili “diritti umani”. Al “rivoluzionario” Civati, infine, rammenterei che l’aver affidato la stesura del proprio manifesto economico a un Taddei (subito passato ad un balbettante renzismo) non è cosa di cui andar fieri: in genere, chi si somiglia si piglia.

Il Partito democratico, in fondo, è fatto della stessa sostanza di cui è fatto Matteo Renzi: è neoliberista, fiancheggiatore dei mercati, devoto alla NATO statunitense (v. da ultimo le folli sanzioni alla Russia), spacciatore di diritti civili a buon mercato, paladino di quella UE che, come uno sciame di locuste, sta spolpando la Grecia. Se consideriamo solo l’impostazione economica – dissi quattro anni fa, a Verona – i dem sono a destra di Forza Nuova. Allora Renzi era un puntolino all’orizzonte, e gli odierni oppositori stavano saldamente aggrappati ai loro scranni.

Erano il partito, ma non erano più sinistra da un pezzo. Inverosimile che lo siano diventati per ripicca; assurdo aspettarsi da loro (con l’eccezione forse di Stefano Fassina, che pare aver maturato concezioni diverse) un’opposizione che non sia motivata da grette esigenze concrete o – per prendere a prestito il linguaggio vendoliano – “politiciste”.

No, Renzi su questa fiducia non poteva naufragare – e una sua eventuale uscita di scena, per quanto auspicabilissima, non sarebbe rebus sic stantibus risolutiva. Anche cancellando la primissima fila il quadro d’insieme resterebbe una crosta: urgono un pittore, tecniche e colori nuovi.

In ogni caso, buona Festa dei Lavoratori (e dei pensionati, degli studenti, dei precari, dei concorsisti a vita)!

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