1.
Lo scontro tra il governo di Tsipras e i creditori internazionali della
Grecia si svolge sul terreno economico ma, in effetti, è tutto
politico; e se oggetto dei negoziati è la politica economica e sociale
della Grecia, in prospettiva ad essere in gioco è l'intero sistema delle
politiche e delle istituzioni europee o, meglio, il limite a cui esse
possono spingersi nel confronto col governo di uno Stato membro la cui
prospettiva è diversa da quella sedicente liberista. Infatti, non esiste
alcuna presunta legge o necessità economica per imporre alla Grecia la
feroce austerità che ha dovuto sopportare e a cui pare destinata ancora
per anni, stando alla volontà della troika dei creditori, ribattezzata
«le istituzioni»; anzi, sono proprio l'austerità e la conseguente
depressione dell'economia che impediscono di ridurre il rapporto tra
debito pubblico e prodotto interno. A fronte dell'iniquità della
politica neoliberista della troika, la vittoria elettorale di Syriza e
la formazione del governo Tsipras sono eventi di enorme importanza per
la sinistra europea:
«Per
la prima volta dalla formazione dell'area dell'euro, nel negoziato tra
il governo Tsipras e la troika (Banca centrale europea, Commissione
europea, Fondo monetario internazionale) si sono opposte in modo chiaro
due linee realmente alternative, sul piano istituzionale e del confronto fra governi»1.
La mia personale valutazione è che il governo Tsipras abbia operato
nel migliore dei modi, per quanto umanamente possibile e date le
circostanze. Ha mostrato saldezza di nervi, dignità e determinazione,
caratteristiche non frequenti, per essere gentili, nella politica
europea, in particolar modo in Italia.
Tuttavia, è veramente miope confondere il sostegno a chi lotta, come
può, contro la postdemocrazia con l'adesione alla sua strategia
politica. Al contrario, non solo replicare il successo di Syriza altrove
in Europa è difficile, ma tutta la più recente vicenda greca dimostra, a
parere di chi scrive, i limiti di una prospettiva elettorale di riforma
delle istituzioni e della politica della postdemocrazia europea.
Se non si vuole chiudere gli occhi o indulgere nel propagandismo,
peraltro contraddicendo quanto affermano gli stessi Tsipras e
Varoufakis, si deve prendere atto che il governo Tsipras è costretto a
contrattare non la fine, ma i modi e il peso e la distribuzione
dell'austerità. Anche la convocazione del referendum è una carta
giocata, abilmente ma non senza rischi, per forzare, per quanto
possibile, la rete in cui il governo è avvinto. La vittoria del no al
referendum allarga le maglie della rete e sposta nel tempo le
contraddizioni, non le risolve.
Il problema di fondo non è neanche se uscire o meno dall'area
dell'euro: chi sostiene la prima posizione vede un aspetto della
situazione ma ipotizza una scorciatoia che, in effetti, ignora la
questione fondamentale. Non si tratta solo degli effetti socioeconomici
dell'abbandono dell'eurosistema, ma dei rapporti di forza tra le classi
in Grecia.
Su questo occorre riflettere attentamente, non solo per comprendere
il corso futuro della Grecia, ma anche perché mette in discussione la
strategia che punta a emulare il successo elettorale di Syriza.
2. La posizione in cui si è trovato il governo
Tsipras è paragonabile a quella del governo di uno Stato che sia stato
sconfitto in guerra e al quale i vincitori intendano far pagare delle
riparazioni punitive. La caduta del prodotto interno della Grecia dal
2008 (un quarto; picco del 27% del tasso medio di disoccupazione, tasso
di disoccupazione giovanile ben oltre il 50%) è la più grave tra tutti i
paesi europei «occidentali» dopo la Seconda guerra mondiale, circa tre
volte maggiore dei crolli in Finlandia nel 1990-93 e in Irlanda nel
2007-09. Politicamente e moralmente il disastro è tanto più grave perché
guerra non c'è stata, né una rivoluzione né una transizione come nelle
repubbliche dell'ex Unione sovietica: il disastro non è imputabile a
straordinari eventi storici, ma a deliberate decisioni politiche in
tempo di pace. Ciò che si vuole venga «riparato», a spese dei cittadini
greci, in origine non era altro che il salvataggio delle banche private
francesi e tedesche; e queste pseudo-riparazioni sono strumentali a una
serie di «riforme» il cui effetto depressivo sull'attività economica è
tale per cui il debito non potrà mai essere rimborsato, ammesso che esso
sia rimborsabile anche nel migliore dei casi, fatto assai dubbio.
Inoltre, la responsabilità dell'inefficienza, del clientelismo e della
corruzione dell'apparato statale greco, nonché della «finanza pubblica
creativa» e menzognera, non è certo di Syriza, ma dei partiti che hanno
governato la Grecia dalla caduta della dittatura e che, per la troika e i
mass media, sarebbero i veri e responsabili «europeisti».
Fatti - questi - notati non solo da intellettuali marxisti, ma da
economisti che radicali non sono per nulla, quali Krugman, Stiglitz e
Jeffrey Sachs; in ultimo, pochi giorni fa, alla conclusione che il
debito greco è insostenibile è giunto anche, nientedimeno, il Fondo
monetario internazionale, ma nei termini che esamino oltre.
In realtà, la crisi del debito sovrano della Grecia non nasce in
Grecia, ma nel funzionamento dell'economia europea e mondiale: dal nesso
tra espansione creditizia, bolle speculative, polarizzazione della
domanda e dell'offerta mondiali (con gli Stati Uniti a un estremo,
Germania, Giappone e Cina all'altro), e dalla riproduzione di questo
meccanismo all'interno dell'area monetaria dell'euro, aggravato dal
fatto che alla moneta unica si affiancano regole restrittive sulla
finanza pubblica. Allo stesso modo, la risoluzione della crisi greca non
potrà mai darsi in una dimensione nazionale.
Per apprezzare l'atteggiamento del governo Tsipras nei negoziati, può
essere utile richiamare un'altra importante vicenda, che all'epoca
suscitò grandi aspettative tanto che, per Fausto Bertinotti e
Rifondazione comunista, continuò ad essere un esempio ben dentro il
nuovo secolo (e probabilmente è, nostalgicamente, ancora tale): quella
dell'Union de la gauche in Francia, diretta da Mitterand, di
cui faceva parte anche il Partito comunista francese. Ebbene, il
programma con cui Syriza ha vinto le elezioni è ben più moderato del
«programma comune» con cui l'Union de la gauche vinse le
elezioni politiche e presidenziali nel 1981. Tuttavia, alla prima
difficoltà Mitterand e i socialisti francesi operarono una completa
inversione di rotta, nonostante la Francia fosse uno dei «grandi», una
potenza nucleare, avesse una posizione economica e finanziaria
infinitamente più forte della Grecia e la sovranità monetaria e fosse
libera dai vincoli determinati dai trattati del decennio successivo.
Anzi, furono proprio i socialisti francesi a farsi convinti e allegri
propagatori del neoliberismo in versione «sociale» in Europa, nonché
promotori dell'unificazione monetaria, nei termini poi dettati dalla
recalcitrante Bundesbank al cancelliere tedesco. In un contesto di
depressione profonda, elevatissima disoccupazione e povertà dilagante,
privato della possibilità di condurre una politica economica e sociale
indipendente e con rilievo diplomatico e strategico ben diverso da
quello della Francia mitterandiana, il governo Tsipras si è trovato di
fronte alla negazione di qualsiasi piano di rilancio dell'economia.
Questo ha significato che, già all'inizio dei negoziati di febbraio, il
governo greco è stato costretto a rinunciare alla realizzazione del
programma con cui aveva appena vinto le elezioni. Di esso, anche al di
là delle singole misure, è stata subito liquidata la logica espansiva,
che aveva importanti implicazioni anche per il resto d'Europa.
È dunque chiaro che lo scontro politico non ha per oggetto la
realizzazione del programma con cui Syriza ha vinto le elezioni; né,
ovviamente, è in questione la fine del cosiddetto neoliberismo la cui
vigenza, al contrario, viene ribadita con la massima energia dai governi
e dalle istituzioni europee, insieme al Fmi.
Di fatto l'unico spazio, temporaneamente concesso a febbraio,
riguardava la contrattazione sul quanto e sul come continuare
l'austerità che ha causato la più grave depressione del dopoguerra in un
paese europeo.
La mia valutazione è che il governo Tsipras, in una situazione
infinitamente più difficile di quella francese nei primi anni Ottanta,
ha fatto quel che poteva fare, dati i rapporti di forza sul piano
istituzionale e diplomatico: contrattare fino all'ultimo
l'alleggerimento dell'austerità e la distribuzione del suo peso verso
gli strati più ricchi della società greca, mantenendo la prospettiva di
misure che legassero il pagamento del debito all'evolversi della
crescita economica. Il governo Tsipras non ha «venduto» l'austerità ai
suoi elettori per qualcosa di diverso, né ha nascosto la differenza di
vedute rispetto alla troika, pur illudendosi di poter raggiungere un
compromesso ragionevole e concordato. I greci hanno contrattato
seriamente con alcuni dei governi e delle istituzioni più potenti del
pianeta, utilizzando gli strumenti, assai deboli, di cui dispongono: la
legittimazione del voto popolare, che per gli avversari è solo un
fastidio che non intimorisce, e dell'alta burocrazia di uno Stato
corrotto, inefficiente, ostile, organico al capitalismo greco.
L'arroganza delle caste politiche europee, che ha una sua
razionalità, è stata però tale da puntare ad imporre, più che un
compromesso sfavorevole, una capitolazione politica totale e definitiva.
Si ricorderà il trionfalismo dei «realisti» della stampa padronale dopo
l'accordo, temporaneo, di febbraio: era quello di gente che, da troppo
tempo, ha fatto l'abitudine a veder chinare le schiene e a cooptare
nella casta politica, in posizione subordinata e finché è utile, i
partitini rossi e verdi. Politici, eurocrati e pennivendoli sono però
rimasti spiazzati dall'azione di un soggetto che si sforza di tenere la
testa alta. Lo scontro in atto tra la troika dei creditori
internazionali e il governo greco è quindi, innanzitutto, lo scontro tra
la volontà popolare, espressa in libere elezioni e rappresentata da
Syriza, e le istituzioni non elette ma che rappresentano il potere
capitalistico in Europa. È uno scontro tra interessi sociali
contrapposti, ma anche fra la più elementare forma di democrazia e le
istituzioni della postdemocrazia.
Di fronte all'ostinata determinazione dei creditori, il governo
Tsipras non ha voluto diventarne il burattino, rifiutando di
sottoscrivere un accordo capestro che, in effetti, avrebbe fatto entrare
Syriza, o una sua parte, nella grande famiglia dei partiti della
postdemocrazia europea, come già accaduto con il Pasok, alla nascita il
più a sinistra tra i partiti socialdemocratici europei (ad es., era
contrario alla Nato).
Sottoponendo a referendum i termini di un eventuale accordo con la
troika, il governo greco ha confermato di continuare a muoversi nella
linea del rispetto della volontà popolare e della democrazia.
3. La contrattazione tra il governo greco e la
troika dei creditori ha poco a che fare con presunte leggi economiche e
tutto a che fare con la conferma di una determinata linea di politica
economica e della concentrazione del potere politico in istituzioni,
nazionali e internazionali, sottratte alla pressione del voto popolare.
Teoricamente, il debito di uno Stato può ridursi variando i seguenti
parametri o una loro combinazione:
a) ammontare e persistenza
dell'avanzo primario (al netto degli interessi);
b) la riduzione del
tasso di interesse reale pagato sul debito; c) la crescita reale del
prodotto interno superiore al tasso d'interesse;
d) la ristrutturazione
del debito stesso, del suo ammontare e delle sue scadenze.
Nel caso della Grecia, l'alta professionalità delle istituzioni
internazionali che hanno imposto i famigerati Memorandum si è
manifestata con il sistematico e grave discostarsi delle previsioni
dalla realtà e con l'errata valutazione degli effetti negativi del
cosiddetto aggiustamento fiscale. Su questo ultimo punto si deve
riconoscere al Fmi di aver fatto formalmente autocritica, ma a disastro
compiuto2 .
La politica fino ad ora imposta dalla troika e fatta propria dalla
casta politica greca ha ottenuto effetti opposti a quelli intesi: non
solo l'economia ha dato pochi segni vitali ed è rimasta in depressione,
con il prodotto interno ancora inferiore di almeno il 25% al livello
pre-crisi e un tasso di disoccupazione medio negli ultimi anni almeno al
25%, ma il rapporto del debito in percentuale del prodotto interno è
aumentato.
Nel 2012 il debito pubblico greco venne ristrutturato, con il
risultato di ridurre il valore della quota detenuta dai privati al 13%
di quello che era nell'aprile 2010, quando la Grecia perse l'accesso al
mercato internazionale dei capitali. Si trattò di un record mondiale per
entità della ristrutturazione e delle perdite dei creditori, e la prima
in Europa occidentale dopo le operazioni del dopoguerra3 .
Il debito pubblico greco è quindi ora quasi completamente nelle mani
di creditori istituzionali europei, più la quota del Fmi. Questo è un
fatto della massima importanza politica. Il debito pubblico greco non è
un debito internazionale, cioè tra diversi Stati sovrani - ciascuno con
una propria moneta. Sia per la parte detenuta dalla Banca centrale
europea che per quella detenuta dai governi che fanno parte dell'area
dell'euro, è un debito interno a un'unica area monetaria. Non
esiste alcuna astratta e impersonale «legge economica» che prescriva che
questo debito debba essere trattato come un debito internazionale.
Tanto è vero che su di esso, e sull'andamento dei mercati, grava il
pericolo di ridenominazione del debito: ovvero dell'uscita della Grecia
dall'eurosistema.
Esistono invece delle regole politicamente stabilite e una precisa
volontà politica di trattare il debito greco e il governo Tsipras in un
certo modo. Tuttavia, se nel 2012 è stato possibile ristrutturare il
debito pubblico greco detenuto da privati, un'operazione niente affatto
indolore per i creditori ma che non ha suscitato una tempesta
finanziaria, non si comprende, per così dire, perché non sia ora
possibile ristrutturare il debito detenuto da soggetti politici o
non-privati come la Bce e il Fmi, riducendolo, allungandone
ulteriormente le scadenze e abbassando ancora i tassi di interesse, e
perché non sia possibile ancorare il rimborso del debito alla più
importante delle variabili prima indicate: la crescita dell'economia
greca. È ragionevole pensare, se si vuol davvero essere europeisti, che
se uno Stato membro dell'Unione europea e dell'eurosistema versa in
difficoltà tanto drammatiche, e se il suo debito pubblico (prescindendo
dalle responsabilità precedenti e delle ragioni dello stesso) è detenuto
dalla Bce e dagli altri Stati membri, sia allora possibile una
soluzione politica. Nella recente letteratura internazionale sono stati
già formulati diversi progetti in questo senso e questo era anche il
disegno originario del programma di Syriza. Qui non interessano i
dettagli, ma il principio è che non esistono motivi «tecnici» che
impediscano tale soluzione. Ciò che i governanti europei di destra e di
sinistra e i mass media allineati vogliono far passare
nell'opinione pubblica è che il debito greco sia responsabilità del
popolo greco e che esso debba giustamente pagarlo. Così facendo, i
governanti postdemocratici fanno un gioco curioso quanto ipocrita: si
valgono dell'opinione che essi stessi contribuiscono con tutti i mezzi a
diffondere per legittimare «democraticamente», con l'argomento della
responsabilità a fronte della cittadinanza, il potere di istituti
postdemocratici.
Apparentemente, la feroce ostinazione dei governi europei e della Bce
nei confronti della Grecia può apparire del tutto irrazionale: è
dimostrato empiricamente che l'austerità fiscale ha effetti depressivi,
in contrasto con il fondamentale principio che, per pagare un debito,
occorre che le entrate siano regolari o crescano. In un contesto di
contrazione del prodotto interno rispetto al livello pre-crisi, di alta
disoccupazione e di capacità produttive non utilizzate, lo Stato greco
dovrebbe spendere più e non meno. La domanda interna è già bassa e pare
proprio ci sia ben poco altro da spremere. In un contesto di questo
genere anche quelle riforme razionalizzatrici, di attacco a privilegi
clientelari, possono risultare di difficile applicazione o perfino
controproducenti.
Tuttavia, questa politica dei creditori è tutt'altro che priva di senso.
Innanzitutto, si tratta di riaffermare il principio neoliberista
della separazione tra Banca centrale e Tesoro, in modo da rendere
dipendente la politica economica complessiva dalla linea della Banca
centrale: in altri termini, si tratta di ribadire il principio che il
luogo della decisione politica debba essere quanto più lontano possibile
dal potere legislativo e, quindi, dall'indiretta influenza del popolo.
Si tratta di impedire la «monetizzazione del debito», ponendo limiti di
fatto all'espansione della spesa pubblica. Tuttavia, tale regola risulta
di fatto soggetta a giudizio politico, o a rapporti di forza politici:
ad esempio, né la Francia né la Germania sono state oggetto di sanzioni
per aver violato il Patto di stabilità nel 2003.
Un altro motivo è questo: il modo in cui gli Stati hanno fronteggiato
la crisi internazionale negli anni 2008-10, che portò alla crescita dei
deficit pubblici, e le politiche dette non-convenzionali delle banche
centrali, inclusa la Bce, hanno dimostrato la fallacia dell'ideologia
neoliberista e riportato obiettivamente l'intervento statale su ampia
scala al centro della gestione dell'economia. Contrariamente a quanti
hanno a lungo sostenuto l'indebolimento dei poteri di intervento statale
nell'economia a fronte dell'imperversare dei «mercati», attraverso il
Fondo europeo di stabilità finanziaria (European Financial Stability Facility, Efsf), poi il Meccanismo europeo di stabilità (European Stability Mechanism, Esm), i programmi di acquisto titoli della Bce, ultimo le Outright Monetary Transactions e le operazioni di rifinanziamento (ultime le Longer-Term Refinancing Operations,
Ltro), in Europa si sono creati, sia pur tardivamente e con gravi
limiti, strumenti di intervento importanti. Tuttavia, proprio perché si è
dimostrata la possibilità e la necessità della gestione politica del
processo economico, è stato indispensabile porre limiti politici a
questi interventi, affinché fosse possibile riprodurre, sia pure in
termini rinnovati, l'impostazione liberista (o neomercantilista). Per
questo la subordinazione degli interventi a condizioni pesanti di
«riforma» interna e al consenso dei governi nazionali. Da qui il fiscal compact
(Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione
economica e monetaria) sottoscritto dai governi dell'Unione nel marzo
2012, che ha rafforzato le stringenti norme fiscali già vigenti
nell'Unione europea introducendo la costituzionalizzazione del pareggio
di bilancio e, per la prima volta in forma vincolante, l'obiettivo di un
deficit strutturale, al netto delle variazioni cicliche, non superiore
allo 0,5% del Pil.
Detto nel modo più breve, «tecnicamente» il contrasto tra il governo
greco e la troika si può ridurre alla definizione del valore dell'avanzo
del bilancio pubblico al netto del pagamento degli interessi (primary surplus)
e alla credibilità, per i creditori, delle misure di politica economica
necessarie per conseguire l'obiettivo. Nel corso del negoziato tra
governo greco e troika le distanze delle posizioni circa l'avanzo
primario si sono ridotte, e questo è stato il maggior successo dei
greci; tuttavia i creditori sono stati inflessibili sul debito e su
misure gravose per i ceti popolari. Davanti alla tenacia dei governanti e
dei padroni, che è solo apparentemente irrazionale, non mi stanco di
citare questo passo di Kalecki, che implicitamente è pure rivolto contro
le illusioni elettorali e i piani a tavolino:
«In
un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di
agire come misura disciplinare. La posizione sociale del "principale"
sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di
classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il
miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione
politica.
È vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello medio sotto il laissez faire.
Persino la crescita dei salari derivante dalla posizione più forte dei
lavoratori verrebbe ad agire piuttosto in direzione di un accrescimento
dei prezzi che di una riduzione di profitti e in tale maniera verrebbe a
colpire soprattutto gli interessi dei redditieri.
Ma
la "disciplina nelle fabbriche" e la "stabilità politica" sono più
importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L'istinto di classe
dice loro che una continua piena occupazione non è "sana" dal loro punto
di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema
capitalistico normale»4 .
Da qui, infine, l'argomento fondamentale: ogni crisi capitalistica è
occasione per rinnovare l'attacco ai diritti socioeconomici dei
lavoratori e della cittadinanza, innalzando in tutti i modi, diretti e
indiretti, il tasso di sfruttamento. È occasione che non può andare
persa e chiunque, come il governo Tsipras, si sforzi - bene o male - di
fronteggiare tale attacco è un avversario da liquidare.
Il padronato e
le caste partitico-statali europee conducono la lotta di classe in modo
lucido, duro, determinato, coordinato su scala continentale. Fanno il
loro lavoro sulla base di una serie di sconfitte storiche, almeno dai
primi anni Ottanta del secolo scorso, dunque di rapporti di forza
costruiti in decenni, cristallizzati nelle istituzioni e nella
convergenza programmatica dei partiti di governo, nell'involuzione dei
rapporti tra potere esecutivo, burocrazia e potere legislativo. Pensare
che tutto questo possa essere cambiato con uno o più successi elettorali
è del tutto irrealistico. Quel che occorre è una lotta di classe
altrettanto lucida, dura, determinata, altrettanto coordinata. I limiti
dell'azione del governo Tsipras sono i limiti della lotta di classe, non
solo in Grecia ma in tutta Europa.
4. Da quel che precede si intende perché ritenga del
tutto infondata l'accusa di tradimento rivolta contro il governo
Tsipras. Si può definire traditore, ammesso che questa qualifica morale
spieghi effettivamente un comportamento politico collettivo, chi
abbandona volontariamente un impegno per propri fini personali o di
gruppo. Tsipras e Syriza sono stati costretti in una camicia di forza,
di cui si sforzano di allentare la presa. Un giorno sarà possibile
ricostruire l'intera vicenda diplomatica e valutare meglio eventuali
errori tattici nella trattativa.
Ma il governo greco ha lottato, sta lottando. Il dramma obiettivo è che le «armi» politiche di cui dispone sono deboli.
Moralismo a parte, la critica più ragionevole che può rivolgersi a
Tsipras e alla maggioranza di Syriza è che abbiano gravemente
sopravvalutato la possibilità di riformare la politica europea. Ma la
risposta a questo, che ritengo corretta, è che la «modesta proposta» di
Varoufakis e lo stesso programma elettorale di Syriza sono veramente
modesti, nel senso di essere perfettamente compatibili con il
capitalismo. Si tratta di proposte concepite per venire incontro alla
controparte e suscettibili di un'interpretazione che le renda congruenti
con le esistenti norme europee. Syriza e Tsipras non solo non si sono
proposti di fare la rivoluzione, ma neanche di trasformare la struttura
istituzionale dell'Unione europea. Certamente non nell'immediato; sono
altri, all'estero, che hanno preso lucciole per lanterne. E allora, la
modestia della proposta presuppone che Tsipras e la maggioranza di
Syriza non abbiano sopravvalutato la capacità negoziale della Grecia:
che siano stati realisti. Hanno, invece, sopravvalutato la possibilità
che, nel momento cruciale, i creditori potessero dividersi, cosa che
fino ad ora non è stata: hanno nutrito illusioni in Hollande e Renzi,
forse nella Merkel e nello stesso Draghi; quest'ultimo, in particolare,
non aveva forse dichiarato che «la Bce è pronta a fare tutto il
necessario a preservare l'euro»? E in effetti, non può la risoluzione
della questione del debito (detto) sovrano della Grecia intendersi come
parte necessaria di una strategia di stabilizzazione dell'area
dell'euro? Al tavolino sì, certamente.
Qui interviene però il «fattore Kalecki», cioè la resistenza che i
capitalisti o i loro rappresentanti oppongono a proposte che, pur
ragionevoli e compatibili, possono tuttavia, sia pur indirettamente e
col passar del tempo, rafforzare la posizione contrattuale dei
lavoratori o dar credito a un soggetto politico considerato poco
affidabile. È in questo senso che la partita tra il governo Tsipras e
«le istituzioni» è essenzialmente politica: e di politica europea, non
solo greca.
Allora, considerando il disegno istituzionale intrinsecamente avverso
alla pressione popolare democratica, il potere strutturale dei governi
degli Stati più importanti dell'area dell'euro, la loro ferma volontà
politica, non è indispensabile uscire dall'area dell'euro e,
eventualmente, dalla stessa Unione?
Solitamente l'obiezione a questa indicazione è di natura economica:
uscire dall'euro potrebbe aggravare ulteriormente, almeno nel breve o
medio periodo, la crisi socioeconomica. Sono d'accordo. Tuttavia, il
dibattito intorno al Grexit da sinistra è molto viziato di economicismo. Altrettanto o più importanti sono le obiezioni politiche.
Ipotizziamo che la situazione politica greca fosse simile a quella
del Portogallo nel 1975, cioè di minaccia reale per il potere
capitalistico. Allora la questione, dentro o fuori l'area dell'euro, con
ogni probabilità si risolverebbe, per così dire, da sé: nel senso che,
nel tentativo di normalizzare la situazione e sostenere un governo
moderato, i governi europei acconsentirebbero a ristrutturare il debito
della Grecia e rinuncerebbero a imporre le misure antipopolari; oppure
cercherebbero di strangolare immediatamente un governo espressione della
rivoluzione incipiente, negando ogni finanziamento alla Banca centrale
greca da parte della Bce, espellendo di fatto la Grecia
dall'eurosistema. Comunque, sarebbe questione subordinata ad altre.
Chi sostiene l'uscita dall'area dell'euro da sinistra vede
chiaramente un importante aspetto della situazione, la natura
capitalistica delle istituzioni europee, ma prende una scorciatoia,
invertendo l'effetto e la causa. Pone come determinante qualcosa che
potrebbe essere il risultato di un processo di mobilitazione massiccia e
di radicalizzazione dei lavoratori e dei comuni cittadini greci,
indispensabile anche per creare le condizioni politiche entro le quali
avrebbe senso decidere se e come rimanere nell'area dell'euro e
fronteggiare le conseguenze di un'eventuale uscita o espulsione
dall'eurosistema. In assenza di un movimento di massa che incida
direttamente sui rapporti di forza tra le classi e che sappia esprimere
nuovi organi di potere, in grado di sostituire o di subordinare gli
apparati statali esistenti e l'alta burocrazia, uscire dall'eurosistema
rischia di essere un suicidio, perché comporterebbe un più, non un meno,
di sofferenza sociale: sacrifici certi e immediati, ma non sostenibili
dalla speranza di costruire una società nuova.
Anche in questo caso, in fondo, si nutre un'illusione
istituzionalista: si punta su una scorciatoia in cui al centro è la
manovra dall'alto, resa possibile da una maggioranza parlamentare. Può
ben accompagnarsi con una retorica movimentista, ma i movimenti non si
decretano. Oggi, in Grecia, i rapporti di forza sociali, purtroppo, non
sono della qualità necessaria.
Infine, l'illusione geopolitica: ovvero che il governo Tsipras possa
essere «salvato» da un intervento economico della Russia e/o della Cina.
Speculazioni in questo senso sono state fatte in occasione
dell'incontro di Tsipras con Putin ad aprile, con la firma di un
trattato commerciale per il valore di 4 miliardi di euro e il rinnovarsi
del discorso sulle forniture energetiche della Russia alla Grecia.
Per porre la questione in prospettiva, si considerino gli ottimi
rapporti tra Putin e Kōstas Karamanlīs, capo del governo di centrodestra
di Nea Dimokratia: tra il 2004 e il 2009 questi incontrò Putin sei
volte; nel 2006, concretizzando un progetto in discussione dal 1994,
venne annunciato l'oleodotto Burgas-Alexandroupolis, con un tracciato
dalla Russia alla Grecia, passando dalla Bulgaria (che poi si ritirò);
nel 2007 Putin offrì alla Grecia di partecipare al progetto di gasdotto
South Stream; sotto lo stesso governo venne aumentata la quota russa di
forniture militari, con l'acquisto di 450 Bmp-3, uno dei più pesanti
mezzi di combattimento per fanteria esistenti, e nel gennaio 2009
vennero svolte esercitazioni aeronautiche congiunte nell'Egeo. Ragion
per cui, nel quadro della tensione intorno all'Ucraina e alle sanzioni,
la visita di Tsipras è certamente distensiva, ma niente affatto
straordinaria: una ripresa dopo il raffreddamento nel periodo del
governo di Papandreou. Inoltre, la Grecia ha uno dei suoi più importanti
deficit commerciali bilaterali proprio con la Russia, oltre
che con la Cina. Una caratteristica della politica estera di Putin nei
suoi due mandati è di aver preteso prezzi di mercato per le forniture
energetiche: la Grecia importa l'80% del gas naturale dalla Russia.
Controllando il passaggio dal Mar Nero al Mediterraneo, la Grecia e
la Turchia sono certamente di fondamentale importanza per il fianco sud
della Nato, ma l'uscita della Grecia dalla Nato è fuori discussione. La
Russia non ha alcun interesse ad alimentare ulteriormente la tensione
con gli Stati europei, che sono gli acquirenti dell'80% delle
esportazioni di petrolio della Russia e del 60% delle esportazioni di
gas. Sia la Russia che la Cina, capitalismi imperiali e oligarchici,
hanno bisogno di un euro forte.
Insomma, l'illusione geopolitica è rivelatrice di un'inguaribile
nostalgia per le dittature burocratiche sedicenti socialiste e di un
congenito statalismo, ma rimane quel che è: un'illusione.
Più importante, semmai, è l'insofferenza degli Stati Uniti nei
confronti dell'austerità fiscale e del neomercantilismo dominanti in
Europa, un ostacolo alla stabilizzazione dell'economia mondiale. Penso
che questa preoccupazione geoeconomica sia inscindibile da quella
geopolitica e, in questo momento, anche più forte di quella
strategico-militare.
La Debt Sustainability Analysis del Fondo monetario
internazionale sulla Grecia rientra in questo contesto. È da notare che
l'insostenibilità del debito greco si basa, per il Fmi, su una
valutazione politica: nel 2012 la Grecia si era avviata sulla buona
strada, ma
«cambiamenti
significativi nelle politiche da quel momento - non ultimo, avanzi
primari più bassi e un debole sforzo di riforma che peserà sulla
crescita e sulla privatizzazione […]»; «ma se il pacchetto di riforme in
esame è ulteriormente indebolito - in particolare, attraverso un
ulteriore abbassamento degli obiettivi dei surplus primari e più deboli
riforme strutturali […]».
5. Riassumendo: considerando gli ultimi 35 anni, da
quando venne lanciata su scala mondiale la controffensiva capitalistica
totale da parte dell'amministrazione Reagan, quello del governo Tsipras è
l'unico, o senza dubbio il più significativo tentativo di riforma del
capitalismo in Europa, che si vuole centrato sulla salvaguardia degli
interessi minimi (e proprio per questo fondamentali) dei lavoratori e
dei cittadini comuni. Rimane, però, un tentativo, i cui
risultati sono ben al di sotto delle aspettative e tali sono destinati a
rimanere, a meno di un drammatico rovesciamento dei rapporti di forza
tra le classi in Grecia.
È un tentativo onesto: nel senso che
Syriza non ha rinunciato a condurre una lotta impari, almeno sul piano
diplomatico; e con il referendum non ha rinunciato a sottoporre al
giudizio popolare la legittimazione della propria condotta. Si può
accusare Tsipras, Varoufakis e i loro compagni di essere degli illusi,
non dei mentitori opportunisti o dei demagoghi. Nella storia dei partiti
della sinistra europea di questo periodo storico è raro riscontrare una
tale onesta disponibilità a battersi e a correre rischi, il nocciolo
dell'alta politica: al contrario, quella è una storia di rese
volontarie, fatte in nome dell'integrazione nel sistema dei partiti,
contrabbandata come «lotta alla destra» o «male minore», non di
sconfitte nella battaglia politica. Di questo i partiti della sinistra
italiana sono il caso esemplare. Ed è questo che fa del negoziato tra
governo Tsipras e «istituzioni» un fatto di grande rilievo politico: il
confronto è fra democrazia e postdemocrazia.
Detto questo, ritengo che dalla Grecia si possano trarre le seguenti lezioni:
1) Si badi bene al fatto che in questi anni la Bce ha effettivamente
innovato sul piano istituzionale e della strumentazione finalizzata alla
stabilità finanziaria, in modi che prima del 2008 erano inconcepibili; e
che fino al 2009-10 anche i governi sono intervenuti pesantemente per
impedire che la grande recessione si trasformasse in grande depressione.
I poteri d'intervento politico nel ciclo economico non sono affatto
obsoleti: non si deve sottovalutare la capacità d'innovazione
istituzionale. Tuttavia, ciò avviene entro i limiti dei rapporti di
forza tra le classi come si sono definiti da almeno un trentennio e nel
quadro della trasformazione postdemocratica dei sistemi politici, di cui
le istituzioni europee sono espressione e fattore di ulteriore
sviluppo. Infine, la crisi è occasione di approfondimento della logica
postdemocratica e di attacco ai diritti socioeconomici. Ebbene, i
negoziati tra governo Tsipras e creditori hanno dimostrato i limiti
delle concessioni che si possono ottenere per via diplomatica e
istituzionale dalle istituzioni e dai governi europei.
2) Questi limiti possono essere spostati da un governo determinato come quello di Tsipras, ma non abbattuti. Vincere
le elezioni non è affatto sufficiente. Anzi, vincere le elezioni in
assenza di una seria minaccia al potere della classe capitalistica può
rivelarsi una trappola, potenzialmente assai pericolosa per lo stesso
governo e Syriza.
Nei primi di marzo 2015 scrissi:
«Quel che manca al governo Tsipras è la pietra dura e pesante della mobilitazione popolare, non quella delle manifestazioni di tripudio e neanche del sostegno risultante dai sondaggi d'opinione (effimeri), ma la mobilitazione capillare, tale da incidere direttamente sui rapporti di potere tra le classi sociali. È in questo senso che tutta Syriza è ora intrappolata: in guerra, ma senza le armi necessarie»5 .
Il punto rimane questo: il successo elettorale di Syriza e il
referendum di domenica non sono che surrogati, niente affatto adeguati,
di quel che manca in Grecia, nonostante l'ottima tenuta, a
fronte di altri paesi, della capacità di protesta in piazza dei
lavoratori e il sano orientamento politico di una parte consistente dei
cittadini greci: una serie di movimenti dal basso in grado di attaccare
in modo capillare i rapporti di forza tra le classi e di creare istituti
popolari alternativi a quelli dello Stato greco. Un movimento sociale
di questo tipo è cosa diversa dalle manifestazioni di protesta o di
sostegno politico.
3) Chi oppone al governo greco la propaganda della rivoluzione o
dell'uscita dall'area dell'euro, oltre a non fare una valutazione
realistica dei rapporti di forza in Grecia e delle condizioni politiche
per reggere il ritorno alla dracma, non comprende che lo sviluppo della
coscienza politica in Grecia passa attraverso un processo di
mobilitazione e organizzazione di massa intorno a concreti obiettivi di
lotta. Non è necessario inventare nulla, né è necessario far la gara a
definire l'obiettivo più alto possibile. Nella situazione greca di
oggi un programma suscettibile di avviare un processo di
radicalizzazione politica esiste già: è quello con cui Syriza ha vinto
le elezioni. Si dirà: ma è un programma minimo, moderato, di riforma del capitalismo. Certamente, è la scoperta dell'acqua calda! Ma, qui è il
paradosso: l'attuazione di un programma minimo di difesa sociale
nell'Europa di oggi è destinato a entrare in collisione con l'ordine
esistente. Per realizzare questo programma oggi in Europa occorre
muoversi in modo da minacciare il capitalismo. Quel che importa è
la mobilitazione massiccia e determinata a vincere. Ed è dentro
l'esperienza della lotta di massa che si concretizzano la
radicalizzazione della coscienza politica e degli obiettivi, fino alla
resa dei conti con il potere economico e politico.
4) A questo punto abbiamo un altro paradosso, rivelatore dei limiti
della prospettiva di riforma delle istituzioni europee sulla base della
vittoria elettorale. Da una parte, la mobilitazione e offensiva dei
lavoratori e dei cittadini greci rafforzerebbe la posizione contrattuale
del governo Tsipras a fronte dei creditori ma, nello stesso tempo,
potrebbe essere ragione di acute contraddizioni, che per Syriza
sarebbero una prova ancor più difficile del negoziato con la troika.
È veramente difficile essere «partito di lotta e di governo». Il
criterio con cui ritengo si debba valutare il governo Tsipras e Syriza è
questo: spostano oppure no la dinamica politica in modo da favorire la
mobilitazione e l'auto-organizzazione della società?
5) Il tempo non trascorre senza effetti e, in certe situazioni
critiche, esso scorre più velocemente che in altre. Nello stesso
articolo di marzo prima citato notavo, tra molti altri punti, che non è
affatto sufficiente dire che con l'accordo di febbraio si è guadagnato
tempo (Gabriele Pastrello nel Manifesto del primo marzo) o spazio (Balibar e Mezzadra), e che era
indispensabile che i compagni greci trovassero «il modo per colmare lo
scarto tra la responsabilità di governo e i rapporti di forza tra le
classi». La sinistra di Syriza dà una risposta sbagliata a questo
problema (l'uscita dall'euro), ma ha perfettamente ragione a porlo come
centrale.
6) Ricordo che nelle elezioni di gennaio Syriza ottenne il 22% del
consenso di tutti gli elettori, includendo nel calcolo anche gli
astenuti. Percentuale certamente ottima, ma che pure attesta che, in
quel momento, quasi l'80% dei cittadini elettori non condivideva, per
diverse ragioni, la linea di Syriza.
Mentre scrivo queste righe i risultati ufficiali del referendum non
sono ancora noti, benché il No sembri avviato a vincere con almeno il
60% dei voti validi. La vittoria del No ovviamente costituisce un
sovrappiù di legittimità politica per il governo Tsipras. Una chiusura
da parte dei creditori, specialmente dopo che la Debt Sustainability Analysis sulla Grecia del Fmi è divenuta di pubblico dominio, è assai improbabile.
Viceversa, la vittoria del Sì sarebbe un colpo letale al governo
Tsipras, alla strategia della maggioranza di Syriza e alla via
elettorale per por fine al neoliberismo; e se il governo rimanesse in
carica lo scenario futuro sarebbe letteralmente nero. Perché si
verificherebbe la situazione ideale non solo per la rivincita dei
tradizionali partiti di governo, ND e Pasok, ma per l'avanzata della
destra estrema e fascistoide.
E non conta solo la mera vittoria del No. Conta molto anche la
distanza fra Sì e No, se piccola o grande. E conta molto, e forse anche
più, un dato che sarà sicuramente trascurato dalla maggioranza dei
commentatori: la partecipazione dei cittadini al referendum. A fronte di
una percentuale di astenuti intorno o superiore al 40%, la vittoria del
No permetterebbe di tirare un sospiro di sollievo ma, a parte la
propaganda, il segnale sarebbe veramente molto preoccupante. Una
percentuale di No pari al 60%, ma con una partecipazione elettorale
anche del 60%, equivale al 36% degli elettori. Un risultato di questo
ordine di grandezza è, a mio parere, un ulteriore argomento a favore
della necessità di riorientamento politico di Syriza verso la lotta
sociale, piuttosto che verso la diplomazia. Con la contraddizione che
non è difficile intuire. Se il No vincesse con una percentuale elevata
sia di voti validi che di partecipazione, il governo greco avrebbe il
dovere di giocare al rialzo: nientedimeno che la ristrutturazione del
debito* .
Ritengo che la vicenda di Syriza e del governo Tsipras sia assai
difficilmente emulabile fuori dalla Grecia e che, proprio perché si
tratta del miglior governo con intenti riformatori e popolari in Europa
da molto tempo, la sua esperienza riveli in modo definitivo i limiti
insuperabili di una prospettiva basata sul cambiamento della politica
europea che abbia nel successo elettorale la sua condizione essenziale.
Il governo Tsipras è il primo ma anche l'ultimo fuoco di una prospettiva
elettorale e istituzionale onestamente riformatrice dentro la
postdemocrazia europea.
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