Un edificio ignobile, quanto alle motivazioni reali della
sua costruzione, merita di finire nella polvere. Se poi è stato tirato
su senza rispettare un principiio cardine della fisica, è scontato che
prima o poi dovrà crollare.
L'Unione Europea è questo orrore. Comunque vada il voto di oggi in
Grecia, questo crollo va maturando, con dinamiche accelerate. Una
vittoria del "sì" convincerebbe la Troika di poter raggiungere i propri
obiettivi usando maggiore durezza che in passato, preparando così
ribellioni più forti e radicali - anche di destra, purtroppo - di quanto
non sia il gruppo dirigente di Syriza. Una vittoria del "no"
costituirebbe un'indicazione politica immediata per molti altri paesi e
popoli alle prese con gli stessi problemi, in misura lievemente minore.
Per ora.
Essere arrivati a questo punto è già un fallimento del progetto. Gli
analisti più lucidi se ne rendono conto più dei leader della Troika,
tutti immersi in un delirio da "stanza dei bottoni" che solo loro
ritengono di poter controllare, ma in cui a ogni bottone pigiato
corrisponde una reazione uguale e contraria. Tutti sanno che le "cure"
della Troika hanno portato un malato lieve in condizioni terminali. Ma
come accade per i tossicodipendenti, la reazione al malessere consiste
in una maggiore dose della stessa droga. Il tunnel diventa senza fondo.
L'apparente paradosso di questa giornata da scontro epocale è che si
contrappongono due schieramenti che ufficialmente dichiarano di
inseguire lo stesso obiettivo: far sviluppare l'Unione Europea. Lo
dicono i membri della Troika, invocando l'applicazione rigida di certe
"regole" omicide; lo dice il governo greco, niente affatto intenzionato a
rompere deliberatamente la gabbia in cui è rinchiuso.
Eppure si tratta di un passo che va nella direzione opposta. La forza
possente della crisi possiede quelli che si si credono e si presentano
come protagonisti, obbligandoli a fare l'opposto di quel che vorrebbero.
Ancora una volta sono gli uomini come insieme a fare la Storia, e quel che si produce è qualcosa che nessuno ha voluto.
Proponiamo questo agghiacciato editoriale di Adriana Cerretelli, apparso ieri sul quotidiano di Confindustria, IlSole24Ore,
che coglie con precisione l'apertura del baratro sotto le fondamenta
stesse dell'Unione Europea. Tutta la presunzione di superiorità dei
vecchi imperialismi occidentali (Usa ed Europa, faticosamente
"unificata" dopo secoli di "competizione" sanguinosa) si basa infatti
sulla capacità di far funzionare un modello di relazioni sociali
codificato come "democrazia liberale".
Il referendum greco, comunque vada, mette esattamente in
contrapposizione questo modello e la pratica quotidiana dell'Unione
Europea. E non sul piano dei principi astratti, ma davanti agli occhi di
tutti.
*****
Ma qual è il vero tallone d'Achille dell'euro?
di Adriana Cerretelli
E se alla fine si scoprisse che è la sostenibilità democratica e non quella finanziaria il vero tallone d'Achille dell'euro?
In sette anni il paradigma della crisi è riuscito a diventare
totalizzante, straripando a poco a poco dalle banche al debito sovrano,
poi all'economia fino a travolgere anche la politica.
Guardando indietro a mente fredda, appare inverosimile il percorso
che ha portato l'Europa, invece che a contenere, a dilatare in modo
irresistibile impatto e costi di un problema minore come quello greco:
più che decuplicando una fattura iniziale da 30 miliardi e trasformando
il ripescaggio di un Paese, difficile ma con Pil e debito pari al 2% e
al 3% del totale dell'area, nel salvataggio dell'euro stesso, in
condizioni incerte, confuse e anche drammatiche.
Rabbia, astio, disperazione, sfiducia reciproca sono i compagni di
strada del referendum che domenica inviterà i greci a dire se sono o no
disposti a continuare la terapia rigore-riforme imposta dai creditori
internazionali in cambio degli aiuti, dunque se vogliono o no restare
nell'euro. Una forsennata guerra psicologica condotta con l'arma
impropria delle informazioni manipolate oppone il premier Alexis Tsipras
ai suoi partner europei, entrambi ansiosi di convincere il popolo greco
a giocare la loro partita.
Tsipras invita con forza a dire no, a difendere la sua causa e la sua
poltrona contro l'Europa che ha orchestrato il tracollo dell'economia
nazionale: tra il 2008 e il 20014 il Pil è calato del 27%, la spesa
pubblica reale di oltre il 30% con taglio di salari e pensioni e di
quasi un terzo dei dipendenti pubblici. I disoccupati sono arrivati al
27%, i giovani a più del 50%. La Grecia è l'unico Paese Ocse dove il
reddito pro capite è rimasto al palo negli ultimi 8 anni. In compenso il
saldo di bilancio strutturale è migliorato di 20 punti nell'ultimo
quinquennio e la bilancia corrente di 16. Però il debito è schizzato dal
123% al 177 %, complice la lunga recessione.
Gli europei vorrebbero che i greci perseverassero su questa strada e
per convincerli hanno interrotto i negoziati con Tsipras, che chiede la
ristrutturazione del debito in cambio dell'impegno rigorista, e ripetono
che un no all'austerità equivarrebbe a un sì all'uscita dall'euro.
In realtà tutti giocano con le carte truccate: il greco quando invita
il Paese a pronunciarsi su un'offerta di accordo ormai saltata insieme
alla proroga degli aiuti, gli europei quando mestano nelle sacre regole
minacciando Grexit, che non è contemplata dai Trattati Ue. E che, se si
realizzasse, sarebbe un disastro collettivo prima che ellenico. Ovunque,
insomma, il panico muto di questa vigilia è un pessimo consigliere.
Non si spiegherebbero altrimenti le ripetute e assolutamente
irrituali invasioni, da parte dei maggiori leader europei ma soprattutto
della Commissione Ue, nelle dinamiche democratiche di un Paese membro:
con conseguenze immediate incerte – quando Angela Merkel si proclamò
pubblicamente grande elettore di Nicolas Sarkozy, in Francia vinse
François Hollande – e conseguenze future certamente problematiche e
forse anche disastrose.
Nell'unione monetaria, decollata senza l'unione politica che ora
molti vorrebbero accelerare con un salto di qualità integrativo quale
antidoto sicuro a nuove crisi, l'esperienza della Grecia potrebbe
diventare nell'inconscio collettivo una discriminante decisiva, il freno
a nuove cessioni di sovranità: a questo punto democratiche prima ancora
che nazionali.
Tanto più in un'eurozona dove i più forti, che già in passato non
hanno esitato a rimuovere governi non abbastanza compiacenti, ora
intervengono preventivamente promettendo premi o sanzioni a chi si
appresta a votare. Il rischio che, di questo passo, si possa prima o poi
creare un corto circuito tra euro e democrazia non è solo teorico.
La moneta unica non è una scelta ma una necessità obbligata nel mondo
dell'economia globale. Però il rafforzamento più efficace e
intelligente della sua governance, prima che nuove regole, richiederebbe
più equilibrio e senso di responsabilità da parte di tutti. Non solo
della Grecia.
Quando la Germania ostenta i picchi delle sue virtù transustanziati
nel secondo pareggio di bilancio di una serie che durerà fino al 2019 e
lo fa proprio nel giorno in cui Atene rotola nella polvere (dei suoi
errori e di quelli dei suoi fallibili partner). Quando è dimostrato che
le politiche anti-crisi invece di appianare hanno esacerbato divergenze e
ineguaglianze dentro l'eurozona dove la disoccupazione varia dal 4,7%
tedesco al 27 greco. Quando la crescita permane un motore quasi tutto
nazionale e molto poco europeo. Quando nell'eurosud si invoca
solidarietà ma nell'euronord la si teme per paura di una, due, mille
Grecie a venire. Quando i sondaggi segnalano che ormai la maggioranza
dei tedeschi ma anche degli irlandesi auspica Grexit e la selezione
darwiniana dei partner. Quando domani la scelta per i greci sarà solo
tra due mali e una delle grandi colpe di Tsipras la richiesta di
politiche differenti dal pensiero unico dominante, ci si può chiedere
quanto l'euro possa resistere alle divisioni che crea al proprio
interno, dilaniando i popoli e le democrazie che gli appartengono.
I parametri di Maastricht non basteranno, la moneta unica non durerà
senza coesione interna e un vero governo europeo, si ripeteva negli anni
in cui la si costruiva. Il trauma greco avverte che imploderà se non
saprà riconquistarsi quanto prima fiducia e libero consenso della gente,
gli ingredienti base delle democrazie. Se non lo capisce, anche
l'Europa, dopo la Grecia, potrebbe finire in default.
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