La crisi greca si inserisce in un processo rilevante di redistribuzione del reddito fra Paesi centrali e Paesi periferici dello sviluppo capitalistico e, all’interno di questi ultimi, di ulteriore polarizzazione dei redditi. La resa del Governo Tsipras alle Istituzione europee evidenzia l’impossibilità di attuare politiche redistributive nell’attuale assetto istituzionale dell’Ue.
La gran parte delle analisi sulla crisi greca, soprattutto nei media italiani, si è concentrata sull’andamento delle trattative fra il Governo greco e le istituzioni europee, e – schematicamente – il dibattito è sostanzialmente ruotato intorno alla domanda se l’intransigenza tedesca sia opportuna o meno, ovvero se i greci debbano o meno continuare a fare “riforme”. L’accordo recentemente raggiunto configura di fatto una resa incondizionata del Governo Tsipras, sui cui sviluppi è impossibile esprimersi, anche considerando che molte delle ‘raccomandazioni’ contenute nel documento approvato sono assolutamente inattuabili. Ed è un accordo probabilmente non conclusivo della vicenda.
La crisi greca può essere forse meglio compresa se inquadrata innanzitutto all’interno di una cornice più ampia, che parta dalla constatazione che l’attuale configurazione delle economie capitalistiche è essenzialmente caratterizzata da forti e crescenti diseguaglianze della distribuzione dei redditi[1].
Con la massima schematizzazione, si può rilevare che ciò che qualche anno fa era definita crisi globale è oggi essenzialmente crisi europea ed è tale proprio nell’area nella quale trovano la loro massima legittimazione le politiche ‘neoliberiste’, in una condizione di continuo aumento dei debiti pubblici dei Paesi aderenti (e, nel caso greco, di sostanziale insolvenza).
Una recente ricerca del Max Plank Institute mostra che dal 1970 al 2011 il rapporto debito pubblico/Pil è aumentato in modo esponenziale in tutti i Paesi OCSE[2]. La motivazione tradizionale[3] che spiegherebbe questo fenomeno fa riferimento alla presunta tendenza degli Stati democratici a “vivere al di sopra delle loro possibilità”, soprattutto a ragione della spesa crescente per servizi di Welfare imputabile all’aumento della partecipazione democratica.
A ben vedere, si tratta di una tesi oggi palesemente falsa, che, al più, poteva valere nella fase della c.d. crisi fiscale dello Stato, quando il potere politico gestiva la doppia funzione di agevolare l’accumulazione capitalistica e di legittimarla[4]. Oggi, è semmai il deficit di democrazia e la notevole riduzione del potere contrattuale della classe operaia a generare l’esplosione del debito: vi è ampia evidenza, infatti, a sostegno della tesi stando alla quale il peggioramento della distribuzione del reddito ha effetti di segno negativo sul tasso di crescita, generando continui aumenti del rapporto debito pubblico/Pil[5]. Il peggioramento della distribuzione del reddito, infatti, associata a bassa crescita obbliga gli Stati a emettere titoli del debito pubblico con tassi di interesse crescenti, in una spirale perversa per la quale il crescente indebitamento, in una condizione nella quale è fatto divieto di ‘monetizzarlo’, richiede crescente imposizione fiscale soprattutto a danno del lavoro, amplificando ulteriormente le diseguaglianze distributive.
Letta in quest’ottica, la crisi dell’Eurozona può essere fatta dipendere dal fatto che è l’area nella quale, negli ultimi decenni, la distribuzione del reddito è maggiormente peggiorata e nella quale sono state attuate, con la massima intensità, politiche di smantellamento del welfare state e di precarizzazione del lavoro. Come si può osservare in figura 1, su fonte Eurostat (ultima rilevazione), le diseguaglianze distributive, misurate con l’indice di Gini, sono maggiori nei Paesi periferici dell’Eurozona, e, quantomeno nel caso esaminato, nei Paesi europei nei quali le diseguaglianze distributive sono maggiori risulta più basso il tasso di crescita.
Figura 1: distribuzione del reddito e crescita nell’Eurozona (Fonte: Eurostat)
La crisi greca non è dunque un caso eccezionale, derivando fondamentalmente dal combinato della crescita dei divari regionali all’interno dell’Eurozona[6] e dal peggioramento della distribuzione del reddito all’interno del Paese (accentuato dalle misure di austerità), a partire da una condizione iniziale (pre-euro) di estrema fragilità della struttura produttiva. Al di là di come evolverà la vicenda, sembra che la fondamentale lezione appresa da quanto fin qui accaduto possa essere così posta: per come è oggi costruita l’Unione Monetaria Europea è impossibile l’attuazione di misure di redistribuzione del reddito e, come corollario politico, è sostanzialmente impossibile, dentro questa Unione Monetaria Europea, la realizzazione di programmi politici di partiti di sinistra, nell’accezione tradizionale del termine [7].
Sul piano più propriamente tecnico, appare convincente la posizione di Paul Krugman[8], secondo la quale vi sono fondate ragioni per ritenere che il ritorno alla dracma possa avviare un percorso di crescita che le irrazionali misure di austerità imposte al Paese inibiscono del tutto. Si può cioè ragionevolmente ritenere, infatti, che l’attuale situazione nella quale versa l’economia ellenica sia la peggiore possibile per tutti gli scenari immaginabili, e che il ritorno alla dracma, se non altro per la sua svalutazione e il conseguente aumento delle esportazioni (evento ragionevolmente prevedibile, pur a fronte dell’imprevedibilità della sua entità), potrebbe portare quella economia fuori dalla recessione, almeno in un orizzonte temporale medio-lungo. In una condizione di disinflazione, non dovrebbero esserci ragioni per prevedere che la svalutazione della dracma produca iperinflazione, come, per contro, sostenuto da Larry Summers, ex segretario USA al Tesoro.
Insomma, lo scenario visto da Krugman appare, date le informazioni di cui si dispone, quello più sensato. Esso è rafforzato da una recente ricerca condotta dal Levy Institute, dalla quale si prevede che il ritorno alla dracma, con l’attuazione di politiche fiscali espansive, porterebbe il Paese a una significativa ripresa della crescita[9]. D’altra parte, l’accordo del 13 luglio è non solo il peggior accordo possibile per la Grecia, ma è anche sostanzialmente irrealizzabile.
Va tuttavia tenuto conto del fatto che il problema greco è innanzitutto politico e che solo in seconda battuta le tesi degli economisti possono aiutare a comprenderlo. Il nucleo del problema consiste, infatti, nel fatto che Syriza ha proposto nei mesi scorsi una visione della politica economica europea radicalmente contrapposta a quella dominante, che fa riferimento alle politiche di austerità, alla moderazione salariale e alle c.d. riforme strutturali.
Questa visione si è scontrata con l’intransigenza in primis del Governo tedesco: un’intransigenza apparentemente miope e irrazionale, per almeno due ragioni. In primo luogo, il Grexit può dar adito a effetti contagio in altri Paesi periferici dell’eurozona, mettendo seriamente a rischio la tenuta dell’Unione Monetaria Europea, verosimilmente a danno della stessa Germania. In secondo luogo, il Grexit può ridefinire gli assetti geo-politici, soprattutto mediante l’avvicinamento della Grecia alla Russia, anche in questo caso con effetti certamente non desiderabili per la stessa Germania e per l’intera Eurozona.
Occorre chiedersi se vi siano ragioni di convenienza economica e politica che motivino la posizione tedesca.
a) Una prima ragione, suggerita da alcuni analisti, potrebbe riguardare la possibilità che sia la Germania a far deflagrare il progetto di unificazione europeo. Si può considerare, a riguardo, che la Germania, la cui crescita dipende dalle esportazioni, sta diversificando i mercati di sbocco dei suoi prodotti dall’Unione Europea (dove la domanda è calata proprio a causa della crisi dei paesi del Sud) ai paesi dell’Est Europa ed alla Cina.
b) Una seconda ragione attiene a una strategia di disciplina, per la quale il Grexit, se dovesse portare la Grecia a una situazione peggiore di quella attuale, rafforzerebbe la posizione tedesca e indurrebbe i Paesi periferici dell’eurozona a una totale subalternità rispetto alle decisioni tedesche, con prevedibile accentuazione delle misure di austerità.
In questo scenario, è davvero imbarazzante la posizione del Governo italiano e la gestione della crisi greca contribuisce in modo significativo a chiarirne la reale natura. A fronte delle molteplici dichiarazioni del Presidente Renzi a favore di una radicale revisione delle politiche economiche europee, il mancato sostegno di Syriza non può che essere interpretato come totale subordinazione rispetto alle misure imposte da BCE, Commissione Europea e FMI.
NOTE [1] Per un approfondimento, si rinvia a E. Tsakalatos and C. Laskos, Crucible of resistance. Greece, the Eurozone and the World Economic Crisis, PlutoPress, 2013. Si veda anche http://www.altraeuroparoma.it/blog/le-quattro-tesi-economiche-di-euclid-tsakalotos/
[2] V. W. Streek, The politics of public debt. Noeliberalism, Capitalist Development and the Restructuring of the State, “Max Plank Institute for the study of Societies”, working paper 13/7, 2013.
[3] Per la quale si rinvia al pionieristico studio di J. Buchanan, Public principles of public debt del 1958.
[4] Si fa qui riferimento a quanto scriveva J. O’Connor, nel volume La crisi fiscale dello Stato (1973), ovvero che: “Lo stato capitalistico deve espletare due funzioni fondamentali, spesso contraddittorie: l’accumulazione e la legittimazione. Vale a dire, lo stato deve sforzarsi di creare o di conservare condizioni idonee a una redditizia accumulazione di capitale. D’altra parte, lo stato deve sforzarsi di creare o di conservare condizioni idonee all’armonia sociale”.
[5] A fronte dell’ampia letteratura sul tema, si rinvia qui in particolare a J.E. Stiglitz, The Price of Inequality: How Today's Divided Society Endangers Our Future, New York, New York Times Best Sellers, 2013. I principali (ma non unici) argomenti a favore della tesi seconda la quale una distribuzione fortemente diseguale del reddito frena la crescita sono due: in una condizione di bassi salari sono bassi i consumi e, dati gli investimenti privati, è bassa la domanda aggregata, soprattutto a ragione del fatto che la propensione al consumo delle famiglie con più bassi redditi è maggiore della propensione al consumo delle famiglie con redditi elevati; a ciò si aggiunge che bassi salari sono di norma associati a un basso tasso di crescita della produttività del lavoro.
[6] Dal momento che, come scriveva, fra gli altri, Nicholas Kaldor, nel saggio The foundation of free trade theory del 1980, “Il libero scambio porta inevitabilmente alla concentrazione spaziale della produzione industriale – un processo di polarizzazione che inibisce la crescita di queste attività in alcune aree e le concentra in altre”.
[7] Si veda G. Pastrello, L’obiettivo vero: eliminare la sinistra, “Il Manifesto”, 12.7.2015
[8] Si veda P.Krugman, Per Atene Grexit sarebbe meno costosa delle attese, “Il Sole 24 ore”, 25.6.2015.
[9] D.B. Papadimitriou, M.Nikiforos and G.Zezza, Greece: conditions and strategies of economic recovery, Levy Economics Institute, Strategic Analysis, May 2015.
La gran parte delle analisi sulla crisi greca, soprattutto nei media italiani, si è concentrata sull’andamento delle trattative fra il Governo greco e le istituzioni europee, e – schematicamente – il dibattito è sostanzialmente ruotato intorno alla domanda se l’intransigenza tedesca sia opportuna o meno, ovvero se i greci debbano o meno continuare a fare “riforme”. L’accordo recentemente raggiunto configura di fatto una resa incondizionata del Governo Tsipras, sui cui sviluppi è impossibile esprimersi, anche considerando che molte delle ‘raccomandazioni’ contenute nel documento approvato sono assolutamente inattuabili. Ed è un accordo probabilmente non conclusivo della vicenda.
La crisi greca può essere forse meglio compresa se inquadrata innanzitutto all’interno di una cornice più ampia, che parta dalla constatazione che l’attuale configurazione delle economie capitalistiche è essenzialmente caratterizzata da forti e crescenti diseguaglianze della distribuzione dei redditi[1].
Con la massima schematizzazione, si può rilevare che ciò che qualche anno fa era definita crisi globale è oggi essenzialmente crisi europea ed è tale proprio nell’area nella quale trovano la loro massima legittimazione le politiche ‘neoliberiste’, in una condizione di continuo aumento dei debiti pubblici dei Paesi aderenti (e, nel caso greco, di sostanziale insolvenza).
Una recente ricerca del Max Plank Institute mostra che dal 1970 al 2011 il rapporto debito pubblico/Pil è aumentato in modo esponenziale in tutti i Paesi OCSE[2]. La motivazione tradizionale[3] che spiegherebbe questo fenomeno fa riferimento alla presunta tendenza degli Stati democratici a “vivere al di sopra delle loro possibilità”, soprattutto a ragione della spesa crescente per servizi di Welfare imputabile all’aumento della partecipazione democratica.
A ben vedere, si tratta di una tesi oggi palesemente falsa, che, al più, poteva valere nella fase della c.d. crisi fiscale dello Stato, quando il potere politico gestiva la doppia funzione di agevolare l’accumulazione capitalistica e di legittimarla[4]. Oggi, è semmai il deficit di democrazia e la notevole riduzione del potere contrattuale della classe operaia a generare l’esplosione del debito: vi è ampia evidenza, infatti, a sostegno della tesi stando alla quale il peggioramento della distribuzione del reddito ha effetti di segno negativo sul tasso di crescita, generando continui aumenti del rapporto debito pubblico/Pil[5]. Il peggioramento della distribuzione del reddito, infatti, associata a bassa crescita obbliga gli Stati a emettere titoli del debito pubblico con tassi di interesse crescenti, in una spirale perversa per la quale il crescente indebitamento, in una condizione nella quale è fatto divieto di ‘monetizzarlo’, richiede crescente imposizione fiscale soprattutto a danno del lavoro, amplificando ulteriormente le diseguaglianze distributive.
Letta in quest’ottica, la crisi dell’Eurozona può essere fatta dipendere dal fatto che è l’area nella quale, negli ultimi decenni, la distribuzione del reddito è maggiormente peggiorata e nella quale sono state attuate, con la massima intensità, politiche di smantellamento del welfare state e di precarizzazione del lavoro. Come si può osservare in figura 1, su fonte Eurostat (ultima rilevazione), le diseguaglianze distributive, misurate con l’indice di Gini, sono maggiori nei Paesi periferici dell’Eurozona, e, quantomeno nel caso esaminato, nei Paesi europei nei quali le diseguaglianze distributive sono maggiori risulta più basso il tasso di crescita.
Figura 1: distribuzione del reddito e crescita nell’Eurozona (Fonte: Eurostat)
La crisi greca non è dunque un caso eccezionale, derivando fondamentalmente dal combinato della crescita dei divari regionali all’interno dell’Eurozona[6] e dal peggioramento della distribuzione del reddito all’interno del Paese (accentuato dalle misure di austerità), a partire da una condizione iniziale (pre-euro) di estrema fragilità della struttura produttiva. Al di là di come evolverà la vicenda, sembra che la fondamentale lezione appresa da quanto fin qui accaduto possa essere così posta: per come è oggi costruita l’Unione Monetaria Europea è impossibile l’attuazione di misure di redistribuzione del reddito e, come corollario politico, è sostanzialmente impossibile, dentro questa Unione Monetaria Europea, la realizzazione di programmi politici di partiti di sinistra, nell’accezione tradizionale del termine [7].
Sul piano più propriamente tecnico, appare convincente la posizione di Paul Krugman[8], secondo la quale vi sono fondate ragioni per ritenere che il ritorno alla dracma possa avviare un percorso di crescita che le irrazionali misure di austerità imposte al Paese inibiscono del tutto. Si può cioè ragionevolmente ritenere, infatti, che l’attuale situazione nella quale versa l’economia ellenica sia la peggiore possibile per tutti gli scenari immaginabili, e che il ritorno alla dracma, se non altro per la sua svalutazione e il conseguente aumento delle esportazioni (evento ragionevolmente prevedibile, pur a fronte dell’imprevedibilità della sua entità), potrebbe portare quella economia fuori dalla recessione, almeno in un orizzonte temporale medio-lungo. In una condizione di disinflazione, non dovrebbero esserci ragioni per prevedere che la svalutazione della dracma produca iperinflazione, come, per contro, sostenuto da Larry Summers, ex segretario USA al Tesoro.
Insomma, lo scenario visto da Krugman appare, date le informazioni di cui si dispone, quello più sensato. Esso è rafforzato da una recente ricerca condotta dal Levy Institute, dalla quale si prevede che il ritorno alla dracma, con l’attuazione di politiche fiscali espansive, porterebbe il Paese a una significativa ripresa della crescita[9]. D’altra parte, l’accordo del 13 luglio è non solo il peggior accordo possibile per la Grecia, ma è anche sostanzialmente irrealizzabile.
Va tuttavia tenuto conto del fatto che il problema greco è innanzitutto politico e che solo in seconda battuta le tesi degli economisti possono aiutare a comprenderlo. Il nucleo del problema consiste, infatti, nel fatto che Syriza ha proposto nei mesi scorsi una visione della politica economica europea radicalmente contrapposta a quella dominante, che fa riferimento alle politiche di austerità, alla moderazione salariale e alle c.d. riforme strutturali.
Questa visione si è scontrata con l’intransigenza in primis del Governo tedesco: un’intransigenza apparentemente miope e irrazionale, per almeno due ragioni. In primo luogo, il Grexit può dar adito a effetti contagio in altri Paesi periferici dell’eurozona, mettendo seriamente a rischio la tenuta dell’Unione Monetaria Europea, verosimilmente a danno della stessa Germania. In secondo luogo, il Grexit può ridefinire gli assetti geo-politici, soprattutto mediante l’avvicinamento della Grecia alla Russia, anche in questo caso con effetti certamente non desiderabili per la stessa Germania e per l’intera Eurozona.
Occorre chiedersi se vi siano ragioni di convenienza economica e politica che motivino la posizione tedesca.
a) Una prima ragione, suggerita da alcuni analisti, potrebbe riguardare la possibilità che sia la Germania a far deflagrare il progetto di unificazione europeo. Si può considerare, a riguardo, che la Germania, la cui crescita dipende dalle esportazioni, sta diversificando i mercati di sbocco dei suoi prodotti dall’Unione Europea (dove la domanda è calata proprio a causa della crisi dei paesi del Sud) ai paesi dell’Est Europa ed alla Cina.
b) Una seconda ragione attiene a una strategia di disciplina, per la quale il Grexit, se dovesse portare la Grecia a una situazione peggiore di quella attuale, rafforzerebbe la posizione tedesca e indurrebbe i Paesi periferici dell’eurozona a una totale subalternità rispetto alle decisioni tedesche, con prevedibile accentuazione delle misure di austerità.
In questo scenario, è davvero imbarazzante la posizione del Governo italiano e la gestione della crisi greca contribuisce in modo significativo a chiarirne la reale natura. A fronte delle molteplici dichiarazioni del Presidente Renzi a favore di una radicale revisione delle politiche economiche europee, il mancato sostegno di Syriza non può che essere interpretato come totale subordinazione rispetto alle misure imposte da BCE, Commissione Europea e FMI.
NOTE [1] Per un approfondimento, si rinvia a E. Tsakalatos and C. Laskos, Crucible of resistance. Greece, the Eurozone and the World Economic Crisis, PlutoPress, 2013. Si veda anche http://www.altraeuroparoma.it/blog/le-quattro-tesi-economiche-di-euclid-tsakalotos/
[2] V. W. Streek, The politics of public debt. Noeliberalism, Capitalist Development and the Restructuring of the State, “Max Plank Institute for the study of Societies”, working paper 13/7, 2013.
[3] Per la quale si rinvia al pionieristico studio di J. Buchanan, Public principles of public debt del 1958.
[4] Si fa qui riferimento a quanto scriveva J. O’Connor, nel volume La crisi fiscale dello Stato (1973), ovvero che: “Lo stato capitalistico deve espletare due funzioni fondamentali, spesso contraddittorie: l’accumulazione e la legittimazione. Vale a dire, lo stato deve sforzarsi di creare o di conservare condizioni idonee a una redditizia accumulazione di capitale. D’altra parte, lo stato deve sforzarsi di creare o di conservare condizioni idonee all’armonia sociale”.
[5] A fronte dell’ampia letteratura sul tema, si rinvia qui in particolare a J.E. Stiglitz, The Price of Inequality: How Today's Divided Society Endangers Our Future, New York, New York Times Best Sellers, 2013. I principali (ma non unici) argomenti a favore della tesi seconda la quale una distribuzione fortemente diseguale del reddito frena la crescita sono due: in una condizione di bassi salari sono bassi i consumi e, dati gli investimenti privati, è bassa la domanda aggregata, soprattutto a ragione del fatto che la propensione al consumo delle famiglie con più bassi redditi è maggiore della propensione al consumo delle famiglie con redditi elevati; a ciò si aggiunge che bassi salari sono di norma associati a un basso tasso di crescita della produttività del lavoro.
[6] Dal momento che, come scriveva, fra gli altri, Nicholas Kaldor, nel saggio The foundation of free trade theory del 1980, “Il libero scambio porta inevitabilmente alla concentrazione spaziale della produzione industriale – un processo di polarizzazione che inibisce la crescita di queste attività in alcune aree e le concentra in altre”.
[7] Si veda G. Pastrello, L’obiettivo vero: eliminare la sinistra, “Il Manifesto”, 12.7.2015
[8] Si veda P.Krugman, Per Atene Grexit sarebbe meno costosa delle attese, “Il Sole 24 ore”, 25.6.2015.
[9] D.B. Papadimitriou, M.Nikiforos and G.Zezza, Greece: conditions and strategies of economic recovery, Levy Economics Institute, Strategic Analysis, May 2015.
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