Inchiesta coop. Nelle
intercettazioni il piano di Renzi contro Letta «l’incapace». L’ex
premier: si commenta da solo. Dopo i dati sull’occupazione Palazzo Chigi
canta vittoria. Senza motivo
di Andrea Colombo, Il Manifesto
Prima o poi il popolo di sinistra in coro dovrà chiedere scusa
a Massimo D’Alema. Non che il rottamato leader dal baffo tagliente
non meritasse molte delle critiche che lo hanno trasformato nel
simbolo di come non si dovrebbe fare una politica limpida, però il
rottamatore fa di peggio, e con minore eleganza. Dopo quasi
vent’anni, all’allora segretario dei Ds ancora non perdonano la
manovra di palazzo che abbattè il governo Prodi. All’imberbe
segretario del Pd 2014, viene scontata come se nulla fosse una
manovra ben più rozza, tesa a sgambettare il governo Letta con
l’appoggio aperto di Berlusconi.
L’intercettazione datata 10 gennaio 2014 tra il futuro
presidentissimo e il comdante interegionale della Guardia di
Finanza Michele Adinolfi, un amicone di Galliani, non permette
dubbi. Il Nazareno doveva ancora nascere, Letta doveva «star sereno».
Ma il neosegretario aveva le idee chiare sull’urgenza di sloggarlo
da palazzo Chigi grazie al sodalizio con il capo azzurro. Uomo di
tweet, dunque di poche parole, Renzi non si perdeva in sofisticate
analisi: «Non è capace. Non è cattivo. Non è proprio capace». «Parole
che si commentano da sole», si è limitato a replicare l’«incapace»
in questione, al secolo Enrico Letta.
L’intercettazione, in effetti, non giova all’immagine di un
presidente del consiglio affidabile, ma dato che sul punto
nessuno nutriva illusioni, Renzi non se ne preoccupa. Al contario,
coglie al volo l’occasione d’oro offerta dai dati Istat sulla crescita
della produzione industriale per cantare vittoria su tutti
i fronti: «Possiamo e dobbiamo fare di più, certo, ma grazie alle
riforma qualcosa si muove». Su Facebook, sceglie un maggior
trionfalismo: «La strada è tracciata da un pacchetto di riforme
così significative da non avere precedenti. Se queste riforme le
avessero fatte quelli prima di noi, ora la nostra economia sarebbe
più forte». Chissà che, tra le righe, non ci sia una frecciata anche
rivolta a Letta, uno di quelli che, secondo il leader che lo ha
spodestato, avrebbe potuto e dovuto fare ma se ne è astenuto.
In realtà, il giubilo del presidente del consiglio è molto
parzialmente giustificato, e nell’attribuire a se stesso i meriti
addossando ai predecessori la colpa imperdonabile
dell’immobilismo di vanagloria ce n’è a carrettate. Sulla carta le
nuove assunzioni sono una valanga: scremate da trucchi e trucchetti
vari, inclusi i molti indotti dal jobs act, si riducono a un
mucchietto. La boccata d’ossigeno della produzione industriale si
deve più alle misure di Draghi che al tocco magico del fiorentino,
che ha colto un’onda infinitamente più favorevole dei
predecessori, ingabbiati nella maglia stretta di un’austerità senza
varchi.
La soddisfazione del premier però non è fittizia, e non si deve
solo ai dati Istat o all’approvazione della riforma della scuola,
capitolo in realtà spinoso, e nemmeno all’imminente passaggio di
una riforma Rai concordata di fatto con Mediaset. A far tornare
i sorrisoni nei corridoi di palazzo Chigi sono soprattutto gli
umori ottimisti sul fronte greco. Per Renzi la Grexit sarebbe un
danno politico e un disastro economico, nonostante le
rassicurazioni d’ordinanza del ministro Padoan. Ma una vittoria
piena di Tsipras sarebbe una sonora sconfitta politica. Il miraggio
di una permanenza della Grecia nella moneta unica, ma a prezzo di
riforme pesantissime accettate da Tsipras è per palazzo Chigi la
soluzione di gran lunga migliore.
La vera nota dolente, quella che impedisce alla squadretta del
premier di essere davvero sollevata, è solo in parte
rappresentata dalle ombre addensate sulle prospettive d’autunno:
la riforma del Senato, dove si dovrà trovare una qualche forma di
elettività pena il fallimento, e la manovra economica tutt’altro
che leggera dietro l’angolo. Queste sono preoccupazioni reali,
e fondate. Ma il cruccio vero è di altro stampo. Il fatto che è le
riforme di Renzi, giuste o molto più spesso sbagliate che siano,
effettivamente procedono e in Parlamento hanno poco da temere.
Solo che, contariamente alle aspettative, non portano il consenso
sperato e previsto. La partita vera Matteo Renzi se la dovrà
giocare su quel fronte, non tra i banchi di un Parlamento
addomesticato.
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