martedì 1 ottobre 2013

I giochi sono finiti Perché la svalutazione generale del denaro è solo questione di tempo di Claus Peter Ortlieb

Ortlieb

«E' proprio il ripetersi delle crisi, ad intervalli regolari, nonostante tutti gli avvertimenti del passato, che esclude l'idea che la causa ultima delle crisi stesse si possa essere ricercata nella disonestà di pochi individui. Se, alla fine di un dato periodo di commercio, la speculazione appare come il precursore immediato della crisi, non bisogna dimenticare che tale speculazione è nata, essa stessa, nel corso delle fasi precedenti del periodo di cui parliamo e che essa ne rappresenta perciò un risultato, una manifestazione, e niente affatto la causa ultima o l'essenza. Gli economisti che pretendono di spiegare con la speculazione le convulsioni periodiche dell'industria e del commercio, assomigliano a quella scuola, oramai scomparsa, di filosofi della natura che consideravano la febbre come la causa di tutte le malattie».
Karl Marx, « The Trade Crisis in England », New York Daily Tribune, 15 dicembre 1857

A quanto pare, anche 130 anni dopo Marx, la grande maggioranza degli economisti continua a considerare « la febbre come la vera causa di tutte le malattie »
A sentir loro, la crisi nella quale ci troviamo ancora immersi avrebbe avuto inizio nel 2008 con il crack finanziario conseguente al fallimento della Lehman Brothers. La causa sarebbe stata quindi una crisi del sistema bancario, per cui i titoli finanziari si sarebbe ritrovati, dal giorno alla notte, praticamente senza valore. Per evitare il collasso completo del sistema finanziario, gli stati sono andati in soccorso delle banche utilizzando il denaro dei contribuenti. Lo scoppio delle bolle speculative avrebbe dato luogo inoltre ad una grave recessione nell'economia reale. Per farvi fronte, nel solo 2009, sono stati messi a punto in tutto il mondo dei piani di rilancio governativi, per un totale di circa 3 miliardi di dollari, che avrebbero permesso - con l'eccezione, purtroppo, dei soli paesi sud-europei - di evitare una depressione comparabile a quella degli anni '30 del novecento.
Da allora, ci confrontiamo con una « crisi del debito » in un contesto di rallentamento costante dell'economia, e fra "neoliberisti" e "Keynesiani" infuria una disputa su cosa fare in una simile situazione. 
Mentre la dottrina dominante, radicalmente orientata sul mercato, considera, riferendosi ad una storia della crisi che si riduce solo agli avvenimenti posteriori al 2008, che « noi abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi » e che dobbiamo combattere il debito pubblico ispirandoci al modello microeconomico del "bilancio casalingo"; i macroeconomisti keynesiani - quanto a loro - si riferiscono al premio Nobel Paul Krugman e ai suoi lavori: « “E' in una fase di espansione, non di rallentamento, che bisogna applicare l'austerità.” Oggi, lo Stato deve spendere di più, non di meno, fino a quando il settore privato sarà in grado di riprendere il suo ruolo di motore dell'economia».

Punti in comune tra gli avversari

In questa situazione, gli avversari hanno molti più punti in comune di quanto non potrebbe sembrare. In quanto - a differenza di Marx - sia in un campo che nell'altro, sono entrambi privi del concetto di crisi sistemica e considerano gli innegabili fenomeni di crisi come unicamente riconducibili alla cattiva condotta di alcuni attori economici: l'uscita dalla crisi, pertanto, sarebbe solo una questione di tempo e di scelta dei giusti mezzi.

Nei manuali di economia neoclassica, la parola "crisi" è generalmente introvabile. Non può esistere crisi, perché secondo questa dottrina - perturbazioni passeggere a parte - i mercati sono sempre e dappertutto in equilibrio, in altre parole la domanda e l'offerta si integrano perfettamente; e se per caso i fatti empirici non lo confermano, si tratta solo di influenze esterne al mercato che necessitano, di conseguenza, di essere eliminate, giustificando così, per esempio, una politica di austerità volta a ristabilire la "competitività".

Il keynesismo, invece, conosce la situazione di crisi e la definisce, come annotava Keynes negli anni '30, in termini di « stato di attività cronicamente inferiore al normale che si prolunga per un tempo considerevole senza che si verifichi una marcata tendenza alla ripresa o al collasso completo ». Tuttavia: « Sappiamo perfettamente quali decisioni politiche avrebbero dovuto essere prese, sia grazie all'analisi di Keynes e dei suoi contemporanei che grazie ad una vasta gamma di ricerche e di studi susseguenti. Questi lavori ci dicono esattamente cosa dobbiamo mettere in atto per combattere il male che stiamo subendo » (Krugman). Come si può vedere, anche per Krugman la crisi in quanto stato permanente non esiste, se non quando i politici non fanno quello che dovrebbero fare, o quando non fanno niente ; ed è questo il maggior rimprovero che il suo libro muove alla politica, in particolare alla politica tedesca. Va anche notato che la giustificazione delle misure keynesiane può fare a meno praticamente di qualsiasi spiegazione preventiva delle cause della crisi. Le crisi appaiono come dei semplici incidenti che colpiscono, di tanto in tanto, l'attività economica; ma noi sappiamo bene come porvi rimedio.

In tutti questi economisti, l'assenza del concetto di crisi sistemica deriva dalla scarsa comprensione del significato e dello scopo dell'economia capitalista; scarsa comprensione che si ritrova nelle introduzioni di più o meno tutti i manuali di macroeconomia. Non si parla affatto di capitalismo; si sostiene, piuttosto, che dall'età della pietra fino ad oggi, l'economia ha sempre avuto come fine la produzione ed il consumo di beni che purtroppo diventano oramai sempre più rari, questo spiega perché tutto il mondo non può avere tutto ciò che vuole. Ora quello che ogni ragazzino sa, è che non sono i beni ad essere rari, bensì il denaro che permette di comprarli, e che l'obiettivo di qualsiasi attività economica capitalista è solo quello di trarre da una somma di denaro, una somma di denaro maggiore, mentre la soddisfazione dei bisogni rappresenta, tutt'al più, un effetto secondario, certo auspicato, ma non sempre realizzabile. Solo gli economisti non sono a conoscenza di questo. In tal senso, si può considerare l'insegnamento della macroeconomia come uno sforzo volto ad estirpare sistematicamente dalla testa degli studenti quel sapere che ha già fatto sospirare tanti imprenditori - i quali avrebbero fatto meglio a leggere Marx, perché almeno così avrebbero capito come funziona il capitalismo.

Il concetto di crisi sistemica in Marx

Indubbiamente, quello che distingue la critica marxiana dell'economia politica è l'aver messo in evidenza il fatto che il capitalismo è un modo di produzione che poggia su due forme di ricchezza: oltre alla ricchezza materiale concreta, conosciuta da tutte le forme sociali, il capitalismo presenta una seconda forma di ricchezza che Marx chiama "Valore", una forma astratta e dominante che è espressa dal denaro e che è misurata dal tempo di lavoro. La valorizzazione del capitale ha come fine quello di moltiplicare tale ricchezza astratta; importa poco che ci arrivi, fabbricando bombe o scarpe per bambini, ma non può fare del tutto a meno della produzione di ricchezza materiale, benché ciò non sia altro che un effetto secondario e non l'obiettivo di tutta l'operazione, che consiste unicamente nel creare del plusvalore. L'economia politica prima di Marx, e la dottrina macroeconomica dopo di lui, hanno identificato, puramente e semplicemente, queste due forme di ricchezza con "la ricchezza in sé", perdendo così di vista la specificità storica del modo di produzione capitalista. A partire da questo, le crisi associate a questo modo di produzione diventano inevitabilmente degli oggetti misteriosi.

Il concetto di crisi sistemica elaborato da Marx si fonda, grosso modo, sull'idea che le due forme di ricchezza capitaliste sono suscettibili di entrare in conflitto fra loro, e che questo conflitto non solo si ripete ma si accentua sempre di più. Così come la moltiplicazione della ricchezza astratta necessita della produzione e della vendita della ricchezza materiale, riuscire a valorizzare e ad accumulare il capitale presuppone la crescita costante della produzione materiale e dei mercati. Ma non appena l'offerta di beni, sempre crescente e per principio illimitata, si trova davanti solo ad una domanda limitata insolvente, il processo di valorizzazione entra in crisi. Ne risulta una sovrapproduzione - ciò a dire merci invendibili - e una sovraccumulazione - ciò a dire una capacità di produzione che non può essere pienamente utilizzata, licenziamenti di massa, chiusura di imprese e fuga di capitali, ed il capitale non più valorizzabile cerca rifugio nella speculazione.

La ricorrenza di queste crisi nella storia del capitalismo non ha niente a che fare con "l'eterno ritorno", ma deriva dal fatto che entrambe le forme di ricchezza divergono sempre più l'una dall'altra, nella misura in cui aumenta la produttività. Un fenomeno che Marx chiamava "contraddizione nel processo":

«Il capitale è esso stesso la contraddizione nel processo, in quanto si sforza di ridurre i tempi di lavoro ad un minimo, mentre dall'altro lato pone i tempi di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. » Il capitale si basa sullo sfruttamento del lavoro, ma allo stesso tempo espelle poco a poco il lavoro dal processo di produzione, distruggendo così la sua propria base. I tempi di lavoro sono la misura del valore, la produttività crescente ha come conseguenza che l'ottenimento di questa stessa ricchezza astratta necessita di produrre e vendere in quantità sempre più grandi. E' per questo che le crisi si aggravano e si estendono sempre più, sia nel tempo che nello spazio: « La produzione capitalista tende incessantemente ad oltrepassare questi limiti che sono immanenti, ma non riesce ad ottenerlo se non impiegando dei mezzi che, di nuovo, e su una scala più grande, innalzano davanti ad essa le medesime barriere. La vera barriera alla produzione capitalista, è lo stesso capitale».

Le cause a lungo termine della crisi

L'ultima volta che il capitale è stato in grado di conformarsi, su larga scala, a questo obbligo di espansione è stato all'indomani della seconda guerra mondiale, durante il boom fordista "età dell'oro del capitalismo" (Eric J. Hobsbawm) e, allo stesso tempo, del keynesismo. Appoggiandosi, allo stesso tempo, su legioni di lavoratori industriali alla catena e sul consumo di massa, il fordismo esigeva non solo un aumento significativo dei salari ed il potenziamento del sistema di protezione sociale, ma anche degli investimenti da parte dello Stato nelle infrastrutture e nel sistema educativo. In tale fase d'espansione, le fluttuazioni congiunturali possono effettivamente essere compensati per mezzo di piani governativi di rilancio  (« Regolazione macroeconomica » e « Azione concertata » nel caso della Repubblica Federale Tedesca), ed è da questo periodo che i rimedi sostenuti nei manuali keynesiani traggono giustificazione.

Ma quell'epoca è finita. Dagli anni '70, il boom fordista - sempre per la forte crescita della produttività - ha raggiunto i suoi limiti, contro i quali la politica keynesiana si è rivelata impotente. Ne è seguita una fase di "stagflazione": i piani di rilancio statale non erano in grado di dare impulso ad un'accumulazione durevole ed autosufficiente del capitale, ed avevano, come risultato, un tasso d'inflazione che arrivava a due cifre. Quelli che, come Krugman, sostengono la ripresa di tali programmi per uscire dalla crisi, farebbero meglio innanzitutto a meditare sul fallimento del keynesismo di allora. Perché in effetti è in quell'epoca, e non nel 2008, che si situa l'origine dell'attuale crisi.

La risposta a questo fallimento fu il neoliberismo, una reazione alla crisi dell'economia reale che cercava di permettere che di nuovo si generassero dei profitti, benché la base capitalisticamente affidabile, per realizzarli, cominciava a contrarsi. Uno dei componenti del neoliberismo è stata la deregolazione del settore finanziario, e allo stesso tempo l'estensione della possibilità di creare moneta per mezzo del credito. Le crisi, classicamente, comportano una fase dove, in assenza di reali possibilità d'investimento, si vedono gli attori economici riportare sui mercati finanziari i profitti già realizzati, alimentando così la speculazione. Ma il neoliberismo trasformava in programma questo movimento di evasione che sospende provvisoriamente la crisi, e crea così l'illusione che un « capitalismo tirato dalla finanza » costituisca il nuovo modello di regolazione. L'autonomizzazione del capitale finanziario è sempre stato un sintomo delle crisi capitaliste, ma sicuramente per causa loro. La novità, in questa crisi attuale che dura già press'a poco da quarant'anni, sta nell'estensione spaziale e temporale del processo. La disindustrializzazione di paesi interi a beneficio della nuova "industria" finanziaria, per esempio, come in Gran Bretagna sotto Margaret Thatcher, è un fenomeno che non ha precedenti nella storia.

Da questo punto di vista, e senz'offesa per la sua dottrina monetarista, il neoliberismo non è stato nient'altro che una continuazione del keynesismo con altri mezzi, in particolare nel settore privato. Gli Stati cedono il posto a degli investitori di fondi privati che finanziano con dei prestiti l'economia reale, permettendo ad essa così di continuare a funzionare. Trasferendo delle enormi quantità di denaro dal consumo di massa al settore finanziario, si fa sparire in un colpo solo l'inflazione, o più esattamente la si fa passare dal mercato dei beni di consumo a quello delle azioni e a quello immobiliare; da qui, la famosa "asset inflation" che arricchisce i detentori dei titoli in questione.

Il processo così messo in moto, questo  « più gigantesco piano di rilancio finanziato dal credito che si sia mai visto » (Meinhard Miegel), consistente in ultima analisi nel pagare i debiti per mezzo di nuovi debiti, si rivela difficile da mantenere come è difficile supporre che il sistema di vendita piramidale possa creare ricchezza. In fin dei conti, nel corso degli ultimi tre decenni, si è vista la massa globale del capitale e delle proprietà immobiliari magicamente moltiplicarsi per venti, ma senza che questo corrispondesse ad alcun valore reale. E' stato sufficiente appena lo scoppio di una di queste piccole bolle per spingere l'intero sistema bancario sull'orlo del crollo; ed ha dovuto la sua salvezza solo all'intervento degli Stati, che da allora hanno dovuto far fronte alla crisi del loro debito pubblico e ad una recessione più o meno grave.

Improvvisare rimedi agli effetti della crisi

A causa della grandezza inimmaginabile delle masse di denaro che si sono accumulate, e che la politica di "tasso zero" delle banche centrali non smette di far crescere, la svalutazione generale del denaro è solo una questione di tempo. Il solito argomento dei keynesiani, che sottolinea il fatto che molto denaro non porta necessariamente all'inflazione, è del tutto fuorviante. Il rischio d'inflazione è in effetti nascosto fino a quando questo denaro continuerà a circolare in modo del tutto autosufficiente nel firmamento della finanza. Tuttavia, non appena si volgerà verso le cose di questo mondo, avrà come effetto di attizzare l'inflazione. I mercati delle materie prime e quelli agroalimentari lo hanno già sperimentato, come prima hanno fatto i mercati immobiliari ed abitativi in diversi paesi: ultimamente, gli affitti nelle grandi città tedesche sono diventati sempre più insostenibili.

Le contromisure proposte di fronte ad una simile situazione - assumendo che siano state realmente concepite per farci uscire dalla crisi - hanno un'apparenza stranamente irreale. Neoliberisti o keynesiani, tutti si rifiutano di vedere che per oltre quarant'anni una sola cosa ha permesso all'economia di continuare a funzionare: il ricorso al debito. Una politica d'austerità che intende mettervi fine porterà ineluttabilmente alla depressione. Ma, d'altra parte, i piani di rilancio keynesiani equivalgono semplicemente a continuare all'infinito questa politica del debito, dal momento che mai più il settore privato sarà  « in grado di riprendere il suo ruolo di motore dell'economia ».

Nel corso di questi quattro decenni di crisi, la produttività in Germania (valore lordo per ora lavorativa, secondo i dati dell'ufficio tedesco di statistica) si è triplicata nell'industria, e addirittura sestuplicata nell'agricoltura. Il lavoro diventa sempre più inutile per la produzione di ricchezza materiale, e di conseguenza la produzione di plusvalore reale basato sullo sfruttamento del lavoro, entra sempre più nel regno dell'impossibile. L'incapacità del modo di produzione capitalista di considerare la possibilità che oramai è emersa, quella di una vita senza lavoro, ci viene dimostrata peraltro dal fatto che, per amore di una chimerica "competitività", si parla di sopprimere subito la siesta nel paesi dell'Europa del sud e, a tale scopo, d'introdurvi finalmente l'etica protestante del lavoro.

Oramai c'è solo una soluzione per uscire dalla crisi: superare la forma astratta della ricchezza e, allo stesso tempo, il modo di produzione capitalista; lo si sostituirà con l'orientamento sociale che si vorrà, purché sia orientato solamente alla ricchezza materiale. Fino a quando una tale prospettiva rimarrà irrealistica, conseguentemente non avremo da scegliere che  fra piani d'austerità e misure di rilancio keynesiano; ovviamente questi ultimi sono preferibili. La politica di austerità neoliberista equivale a sacrificare, al mantenimento di un sistema oramai insostenibile, degli esseri umani in numero sempre più grande: quelli che non servono più al sistema, essendo divenuti superflui dal punto di vista della valorizzazione del capitale. Certo, i programmi keynesiani inseguono ugualmente un fine illusorio del salvataggio del sistema,ma lo fanno con dei mezzi più accettabili, nella misura in cui non perdono totalmente di vista l'aspetto di produzione di ricchezza materiale.
Da Konkret, agosto 2013

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