Un governo diversamente berlusconiano, in cui
Alfano da Vice Caimano diventa Vice Letta. Una novità politica, ma più
geometrica che non di contenuti. Non cambiano le politiche di austerità,
anzi possono diventare più pericolose.
Diversamente berlusconiano. E'
l'etichetta che si può affibbiare a un governo che, con il voto di
fiducia strappato alla Camera e al Senato, si rafforza e si stabilizza
ma senza risolvere nessuno dei suoi problemi di fondo.
Silvio Berlusconi ha subito la sua vera prima sconfitta politica in Parlamento e per la prima volta ha dovuto riconoscere di non avere più il controllo del proprio partito, del proprio mondo. E' un leader al tramonto, tramortito dalla sentenza della Cassazione ma, soprattutto, sconfitto politicamente dopo il fallimento della sua esperienza di governo. Solo la vocazione suicida del Pd, e la sua profonda compromissione con gli interessi di “sistema”, ha potuto riesumarlo dopo le ultime elezioni in cui è riuscito a perdere più di sei milioni di voti. Un pezzo del Paese gli ha voltato le spalle da tempo e ora, un po' alla volta, lo abbandonano gli scherani, i lacché e i camerieri. L'intervento in aula con cui il Cavaliere ha dovuto piegarsi alla fiducia al governo, dopo aver sparato ad alzo zero per tutta l'ultima settimana e aver mandato i più fedeli sottoposti (Bondi) a urlare il voto contrario, costituisce agli occhi del mondo la fine della sua presa sui propri stessi uomini e apre nuovi scenari politici.
Enrico Letta vince una partita personale. Aveva scommesso sul voto in aula, sulla parlamentarizzazione della crisi e l'asse con il vice Alfano – che passa da viceCaimano a viceLetta – gli ha consentito di piegare il Cavaliere. Vince una partita interna al Pd, mette all'angolo le ambizioni di Renzi e dà fiato al progetto che anima il suo governo sin dalla nascita: costruire, mediante le larghe intese, un asse centrista, in salsa democristiana, come unico progetto di stabilizzazione politica nel tempo della crisi e con una vocazione europea.
Il governo che esce dal voto di fiducia rappresenta dunque un “nuovo centrisinistra” che si potrà permettere una maggiore omogeneità politica rinviando, alle calende greche, l'ipotesi di elezioni anticipate. Non sarà, però, tutto liscio. Letta, certamente, diventa un attore meno incosistente e afferma il proprio profilo. Ma dovrà superare almeno tre diversi ambiti di difficoltà di cui, l'ultimo, è il più importante.
Silvio Berlusconi ha subito la sua vera prima sconfitta politica in Parlamento e per la prima volta ha dovuto riconoscere di non avere più il controllo del proprio partito, del proprio mondo. E' un leader al tramonto, tramortito dalla sentenza della Cassazione ma, soprattutto, sconfitto politicamente dopo il fallimento della sua esperienza di governo. Solo la vocazione suicida del Pd, e la sua profonda compromissione con gli interessi di “sistema”, ha potuto riesumarlo dopo le ultime elezioni in cui è riuscito a perdere più di sei milioni di voti. Un pezzo del Paese gli ha voltato le spalle da tempo e ora, un po' alla volta, lo abbandonano gli scherani, i lacché e i camerieri. L'intervento in aula con cui il Cavaliere ha dovuto piegarsi alla fiducia al governo, dopo aver sparato ad alzo zero per tutta l'ultima settimana e aver mandato i più fedeli sottoposti (Bondi) a urlare il voto contrario, costituisce agli occhi del mondo la fine della sua presa sui propri stessi uomini e apre nuovi scenari politici.
Enrico Letta vince una partita personale. Aveva scommesso sul voto in aula, sulla parlamentarizzazione della crisi e l'asse con il vice Alfano – che passa da viceCaimano a viceLetta – gli ha consentito di piegare il Cavaliere. Vince una partita interna al Pd, mette all'angolo le ambizioni di Renzi e dà fiato al progetto che anima il suo governo sin dalla nascita: costruire, mediante le larghe intese, un asse centrista, in salsa democristiana, come unico progetto di stabilizzazione politica nel tempo della crisi e con una vocazione europea.
Il governo che esce dal voto di fiducia rappresenta dunque un “nuovo centrisinistra” che si potrà permettere una maggiore omogeneità politica rinviando, alle calende greche, l'ipotesi di elezioni anticipate. Non sarà, però, tutto liscio. Letta, certamente, diventa un attore meno incosistente e afferma il proprio profilo. Ma dovrà superare almeno tre diversi ambiti di difficoltà di cui, l'ultimo, è il più importante.
Il
primo scoglio è che la presenza di Berlusconi non è del tutto
esorcizzata: per quanto “morto” politicamente, il Caimano è ancora lì e le vicende sulla sua decadenza dal Parlamento influiranno ancora sui destini dell'esecutivo.
Il secondo problema è il dibattito interno al Pd. Matteo Renzi non sarà disposto a farsi “rottamare” dal progetto centrista di Letta e, nel caso divenga segretario del partito, costituirà una contraddizione rispetto alle pretese lettiane. Intendiamoci, Renzi non è più radicale o “di sinistra” di Letta: le differenze interne al Pd appassionano solo chi si balocca nell'ipotesi di un condizionamento da sinistra, come fa ancora Sel che esce del tutto spiazzata dalla crisi. Sono le ambizioni politiche e la tattica scelta da Renzi che lo rendono maggiormente “bipolare” e votato a costruire uno schieramento che si contrapponga maggiormente al centrodestra. La differenza è geometrica, non di contenuti.
Il terzo ostacolo, il più importante, il più serio, è che Letta non ha un euro in tasca. La bussola economica del suo governo resta l'austerità, il rispetto del Fiscal compact, l'adempimento alle direttive di Bruxelles. Nei prossimi giorni e mesi, dovrà affrontare una crisi persistente dell'economia e della società italiane. E non basteranno le tattiche parlamentari per dare risposte ai posti di lavoro che saltano da un'azienda a un'altra, ai drammi del precariato, alle esigenze della scuola e dell'istruzione, all'erosione del salario, alla crescita della disoccupazione, alle proteste ambientaliste contro i dissesti del territorio o alle esigenze impellenti dei senza casa.
Per questo la novità politica non porterà niente di buono. Anzi, aumenterà la sua pericolosità. L'asse che si preannuncia tra governo e parti sociali, con il rilancio in grande stile della “concertazione”, a partire dall'ipotesi del “cuneo fiscale” - una vera e propria truffa, già applicata senza alcun risultato – sarà necessario anche per gestire le piazze e il conflitto.
Per questo c'è un'unica carta “politica” che oggi vale la pena giocare: la costruzione di un ampio movimento di lotta, unito, democratico, conflittuale. La settimana di mobilitazione dal 12 al 19 sarà in questo senso una prima importante tappa. Abbiamo bisogno di movimenti ampi, autorganizzati democraticamente, fortemente partecipati che leghino la rivolta contro il debito alle istanze dei precari, la lotta del mondo del lavoro con quella ambientalista, il diritto all'abitare con le prospettive di autogestione conflittuale. E' l'unico modo che conosciamo per battere l'austerità e costruire una prospettiva alternativa. E anche per affrontare, dal basso e con i soggetti reali, il lungo e non facile percorso per ricostruire una soggettività in grado di battere i governi della crisi.
Il secondo problema è il dibattito interno al Pd. Matteo Renzi non sarà disposto a farsi “rottamare” dal progetto centrista di Letta e, nel caso divenga segretario del partito, costituirà una contraddizione rispetto alle pretese lettiane. Intendiamoci, Renzi non è più radicale o “di sinistra” di Letta: le differenze interne al Pd appassionano solo chi si balocca nell'ipotesi di un condizionamento da sinistra, come fa ancora Sel che esce del tutto spiazzata dalla crisi. Sono le ambizioni politiche e la tattica scelta da Renzi che lo rendono maggiormente “bipolare” e votato a costruire uno schieramento che si contrapponga maggiormente al centrodestra. La differenza è geometrica, non di contenuti.
Il terzo ostacolo, il più importante, il più serio, è che Letta non ha un euro in tasca. La bussola economica del suo governo resta l'austerità, il rispetto del Fiscal compact, l'adempimento alle direttive di Bruxelles. Nei prossimi giorni e mesi, dovrà affrontare una crisi persistente dell'economia e della società italiane. E non basteranno le tattiche parlamentari per dare risposte ai posti di lavoro che saltano da un'azienda a un'altra, ai drammi del precariato, alle esigenze della scuola e dell'istruzione, all'erosione del salario, alla crescita della disoccupazione, alle proteste ambientaliste contro i dissesti del territorio o alle esigenze impellenti dei senza casa.
Per questo la novità politica non porterà niente di buono. Anzi, aumenterà la sua pericolosità. L'asse che si preannuncia tra governo e parti sociali, con il rilancio in grande stile della “concertazione”, a partire dall'ipotesi del “cuneo fiscale” - una vera e propria truffa, già applicata senza alcun risultato – sarà necessario anche per gestire le piazze e il conflitto.
Per questo c'è un'unica carta “politica” che oggi vale la pena giocare: la costruzione di un ampio movimento di lotta, unito, democratico, conflittuale. La settimana di mobilitazione dal 12 al 19 sarà in questo senso una prima importante tappa. Abbiamo bisogno di movimenti ampi, autorganizzati democraticamente, fortemente partecipati che leghino la rivolta contro il debito alle istanze dei precari, la lotta del mondo del lavoro con quella ambientalista, il diritto all'abitare con le prospettive di autogestione conflittuale. E' l'unico modo che conosciamo per battere l'austerità e costruire una prospettiva alternativa. E anche per affrontare, dal basso e con i soggetti reali, il lungo e non facile percorso per ricostruire una soggettività in grado di battere i governi della crisi.
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