1) Non
c’è molto da questionare, perché in una situazione così pesante, e
finanche drammatica per lavoratori, disoccupati, precari, e per le
classi subalterne in genere, il primo imperativo è senz’altro quello di
resistere: difendendo con i denti il lavoro che c’è, contrastando con le
lotte le diffuse povertà cresciute nella crisi, rivendicando i diritti
di piena cittadinanza umana per tutti e tutte, ponendo la salvaguardia e
il risanamento dell’ambiente al centro di qualsiasi scelta politica ed
economica. Si tratta di resistere in senso letterale, e di farlo
in tutti i modi possibili, provando ad impedire, con tutte le (poche)
forze di cui disponiamo, l’ulteriore peggioramento delle condizioni di
vita delle persone.
Se si
sono aziende che chiudono (e ce ne sono molte), occorre provarci con
tutte le forme di mobilitazione della tradizione operaia a non farle
chiudere; e se ci sono licenziamenti che vengono attivati (e ce ne sono
tantissimi), occorre tentare di rispondere colpo su colpo per impedirli;
e se ci sono fenomeni vistosi di inquinamento ambientale (e ce ne sono
di gravissimi ad ogni latitudine), occorre attivarsi in modo molto
pratico per costruire e rafforzare tutta la resistenza possibile delle
comunità; e se ci sono situazioni di sofferenza esistenziale evidenti e
incancrenite (e ce ne sono sempre di più, e ormai non riguardano solo
gli immigrati), occorre lavorare con determinazione a congiungere
denuncia, lotta e proposta, individuando nell’universo variegato delle
istituzioni il punto specifico dove insistere per aprire un varco.
2) Ma non
si tratta solo di resistere praticamente, vale a dire di schierarsi con
nettezza per la difesa del lavoro o dei diritti o dell’ambiente. Si
tratta anche di valorizzare, collegandola ad un contesto più generale di
trasformazione, la capacità che hanno le vertenze di elaborare
proposte. In ogni singola lotta, infatti, tende sempre ad emergere,
pressoché spontaneamente, una “intelligenza propositiva” dei settori
concretamente mobilitati, la loro effettiva capacità di mettere sul
tavolo richieste più o meno articolate: dalle riconversioni produttive
alla riorganizzazione dei servizi sociali, dal rifiuto-zero alle
bonifiche ambientali, dai progetti di formazione e riqualificazione dei
lavori alle diverse forme di sostegno al reddito.
Si tratta
talora di proposte anche scientificamente fondate, come quella recente
che sta prendendo corpo nella martoriata “terra dei fuochi” tra le
province di Napoli e Caserta: vale a dire, di procedere alla bonifica
dei territori inquinati dalla camorra in questi anni sostenendo con
pubbliche provvidenze la coltura della canapa, un prodotto naturale,
ormai quasi scomparso, che non solo appare capace di reintegrare la
salubrità dei territori, ma che potrebbe favorire, in aggiunta, la
stessa produzione industriale dei tessuti a fibra vegetale.
Ma al di
là del merito particolare, mi preme sottolineare come dentro la dinamica
del conflitto vertenziale possa facilmente venire alla luce una
autentica contesa di “prospettiva”, che chiami in causa, tutte assieme,
l’economia, la cultura e la società. Ed è esattamente questo, il filo
che non va lasciato cadere.
3) Dunque: una riorganizzazione della sinistra di alternativa ha senso innanzitutto in quanto propone un impegno attivo per e nelle lotte, in quanto si traduce in lavoro quotidiano per promuovere, sostenere e sviluppare concretissime resistenze sociali.
Oggi come oggi il conflitto sociale è ancora troppo incerto, troppo
episodico, troppo fragile. Ma muoversi nel conflitto in quanto sinistra
di alternativa significa soprattutto rafforzare tutti gli elementi di
prospettiva che vi si delineano, a partire dai fattori di connessione
possibile tra le singole specifiche vicende e i singoli specifici
movimenti.
E
quest'ultimo punto ci rinvia direttamente ad un ulteriore piano, quello
della prospettiva generale sugli assetti di società, obiettivamente
molto più complesso e, allo stesso tempo, ancora più urgente. E’ proprio
qui che nascono i veri problemi, perché se grossomodo sappiamo quello
che dobbiamo fare dal punto di vista “dell'emergenza” - cioè sappiamo
qual è il nostro posto, sappiamo che dobbiamo stare con i picchetti, con
i cortei, con i comitati e via dicendo -, quando ci avventuriamo nel
campo della prospettiva generale, le certezze vengono facilmente meno e
il panorama si tramuta rapidamente in una sorta di torre di Babele, con
discorsi largamente inconcludenti.
4) Provo
qui a partire dalla questione per me decisiva: ovvero che non basta più
procedere con la logica dell’allargamento degli spazi all'interno della
sistema capitalistico, non basta più muoversi col proposito di
schierarsi semplicemente “per l’equità”, pensando di poter fronteggiare
davvero, attraverso la nostra pressione politica sulle istituzioni,
l’attuale aggressività del mercato, la forza di inerzia delle strutture
sociali e politiche, il peso culturale dei valori incentrati sulla
disuguaglianza, le penalizzazioni sociali continuamente riprodotte dalle
modalità tecniche di formazione e gestione della ricchezza. Non
funziona più la strategia, per così dire, re-distributiva, quella
che ha accompagnato il movimento operaio più o meno ufficiale degli
ultimi decenni. Anzi io ritengo che proprio l'insistenza sulla logica
redistributiva sia alla radice del sostanziale cul de sac in cui si trovano oggi le lotte e la stessa sinistra politica.
E’ una
via che non porta da nessuna parte, quella di chiedere che la ricchezza,
la quale sicuramente è distribuita in modo iniquo, venga poi
distribuita in modo meno iniquo. Se permangono le medesime modalità di
funzionamento dell’economia, se permane il rapporto di capitale, non c'è
nessuno spazio per inserire stabilmente, all'interno del tessuto
sociale, un andamento di equità sostanziale. E se dovesse verificarsi un
“esito equo” da una parte, certamente da qualche altra parte si
accentuerà, proprio per il “naturale” disporsi capitalistico delle cose,
l’elemento della iniquità. Detto in altri termini: oggi come oggi, per
come si è delineato lo sviluppo del capitalismo e per come il tornante
della storia ha definito gli attuali assetti sociali, noi, proprio noi
che ci battiamo per l’uguaglianza fra tutti e la libertà di ciascuno,
noi non potremo più sottrarci al nodo del sistema capitalistico in
quanto tale.
5) Ma qui
ci si para davanti una difficoltà inattesa e gigantesca., e cioè che in
chi resiste sulle trincee del lavoro, dei diritti, delle povertà,
dell'ambiente - ma anche in quelli che provano a coordinare le
resistenze, e quindi a porsi come soggettività politica che delinea una
prospettiva - manca esattamente un'idea chiara di ciò che si ha di
fronte, non c'è una convincente rappresentazione di cosa sia
effettivamente il capitalismo. Può sembrare paradossale, perché noi
sappiamo bene di essere quelli che non sono riconciliati col sistema
capitalistico. E però proprio del capitalismo noi non parliamo quasi
mai. Tutt'al più parliamo delle crisi economiche, magari dicendo ogni
volta che si tratta della famosa “crisi finale”; e tutt’al più parliamo
dell’andamento “irrazionale”, o meglio di quello che noi pare un
“andamento irrazionale”, nei processi di formazione e distribuzione
della ricchezza. Così, col capitalismo in quanto tale, a ben vedere, noi
non ci misuriamo quasi mai neppure sul piano dell’analisi. E quando
(raramente) lo facciamo, adoperiamo quasi sempre gli stessi termini e le
stesse categorie concettuali che la più consapevole cultura borghese
utilizza per definire il capitale. In breve: noi il capitalismo lo
conosciamo molto meno di quanto supponiamo.
Non è
soltanto colpa della nostra insipienza. Si tratta, invece, del retaggio
di un intero secolo, il Novecento, il quale, dal nostro versante, ha
ragionato molto del dominio, del potere, della forma-stato, della
dinamica del forza, ed ha parlato pochissimo del capitalismo, cullandosi
nella convinzione che, al riguardo, Karl Marx avesse detto proprio
tutto quello che c'era da dire, e che vere novità non ce ne fossero
neppure. Anzi, il Novecento teorico del movimento operaio ha accolto
largamente e senza problemi la “tesi della putrescenza”, formulata tra
gli altri, all'avvio del secolo, soprattutto da un gigante della nostra
storia, Lenin.
L’idea di
fondo era che il capitalismo fosse semplicemente un moribondo che
s’intestardiva a non morire, e che, a tal fine, difendeva la sua
“compiuta inconsistenza” economico-sociale attraverso una manipolazione
estrema dei meccanismi del dominio e del potere. I capitalisti perciò
continuavano a comandare, ma come sistema di produzione il capitale non
avrebbe avuto più nulla di nuovo da dire, più nulla da inventare. Veniva
consegnato, per l'appunto, alla realtà della putrescenza. Non c’è da
stupirsi, allora, se il centro di gravità della storia umana si
trasferiva teoreticamente (anche se in maniera spesso inconsapevole) sul
punto molto “tradizionale” del dominio delle classi possidenti; ed era
su questo aspetto che lo stesso movimento anticapitalista veniva
chiamato all’impegno, sia teoricamente che praticamente.
Insomma,
il Novecento ha costruito una grande lavoro teorico, e questo è
ovviamente un merito, sulle questioni del potere, del dominio e
dell'egemonia delle classi dominanti; ma ha costruito,
contemporaneamente, una grande dimenticanza per quanto riguarda
l'identità e il funzionamento del capitalismo, e questo si rivela sempre
più un problema.
6) Di
fatto, l’abbandono storico della critica dell'economia politica oggi noi
lo stiamo pagando molto caro. Non credo di esagerare se dico che tra i
nostri ragionamenti serpeggia spessissimo la cultura dell'avversario di
classe. Usiamo le stesse categorie concettuali, e adoperiamo le stesse
definizioni che il capitale dà di se medesimo. Il capitale si presenta,
infatti, come una cosa, come res. Lo leggiamo sui giornali, ce lo
dicono alla TV, lo ripetiamo nelle nostre stesse riunioni: il capitale
è, né più né meno, che la ricchezza contabilizzata. Per i più
sofisticati tra noi, esso è l'insieme dei “valori di scambio”, una
espressione che significa, però, la stessa cosa: appunto, la ricchezza
contabilizzata capitalisticamente. Di fatto, è largamente diffusa, anche
tra le nostre file, l’idea che il capitale sia null'altro che denaro.
Intendiamoci:
sul piano fenomenico, il capitale si presenta effettivamente come
denaro; ma allo stesso modo di come si presenta nella veste di
macchinario, nella veste di stock di merci o nella veste di attività di
lavoro; e però nella sua sostanza esso è molto più delle forme
specifiche che lo manifestano. Il capitale infatti - come suggeriva
esattamente Marx prendendo le distanze in modo compiuto dalla economia
politica - è anzitutto, e soprattutto, e oggi in modo pressoché
assoluto, un rapporto sociale. La falsa coscienza che il capitale
ha di se stesso lo proclama ricchezza contabilizzata; la sua realtà
storica resta, invece, quella di essere una specifica connessione, un sistema
che collega gli uomini e le donne tra di loro in una sequenza specifica
finalizzata alla valorizzazione degli investimenti e, più in generale,
all’innalzamento dei valori di scambio.
A
differenza del capitalismo della libera concorrenza e della fase dei
monopoli, tale struttura sistemica, che progressivamente ingloba
l'insieme degli esseri umani e l'insieme dei loro tempi di vita, si
presenta ora, essa stessa, proprio in quanto connessione tra le persone,
come il grande pilastro della valorizzazione e dei valori di scambio.
Il capitale è certamente un ciclo economico – Marx lo descriveva nella
forma D-M-D1; tuttavia esso è soprattutto, e oggi in modo assoluto, una
connessione sistematica degli esseri umani tra loro.
7) Ma dire che il capitale è un rapporto sociale
e non è una “cosa”, una res, comporta molte conseguenze anche nella
delineazione della prospettiva. Io posso fare subito la resistenza,
situazione per situazione (anche se, oggi come oggi, almeno in Italia,
di resistenza ce n’è davvero poca, e sarebbe il caso che ce lo dicessimo
con più chiarezza); ma se mi propongo anche l’unificazione delle lotte e
la valorizzazione della intelligenza interna alle resistenze, allora io
debbo necessariamente costruire un ragionamento articolato, che parta
esattamente dal punto che voglio superare. Mi propongo di superare il
capitalismo? Allora debbo dire con chiarezza, a me e agli altri, che
cosa sia questo capitalismo, e perché non è riformabile dall'interno. E
non me la posso cavare agitando il problema dei banchieri che vogliono
fregare il resto dell'umanità sulla base dell’ancestrale “bramosia
dell'oro”. Se davvero si trattasse semplicemente dell'egoismo dei
singoli e della voglia smodata di denaro dei capitalisti, allora la via
realistica diventa proprio quella che ci indica la Chiesa cattolica, in
particolare con questo pontefice argentino, così schierato contro il
denaro “sterco del diavolo”.
Qual è,
dunque, il centro del problema? Lo dico con una battuta: sono i
capitalisti che possiedono il capitale; o è invece il capitale che
possiede anche i capitalisti, così come già possiede i lavoratori e
tendenzialmente l'insieme degli esseri umani? Io credo che dovremmo
capire fino in fondo come il capitale sia esattamente una formazione economico-sociale,
e cioè una macchina impersonale che tende ad imporsi a tutti, compresi
gli stessi capitalisti, anche se, ovviamente, le sue leggi di
funzionamento si presentano terribili e devastanti solo per le classi
popolari (che costituiscono la stragrande maggioranza della umanità).
In breve,
quando noi ci affanniamo a scrivere e a dire che il problema che
abbiamo davanti, per esempio in questa crisi economica, è che i
capitalisti non sanno fare il loro mestiere, e che sono proprio le loro
politiche economiche a produrre le sofferenza sociali in cui siamo
immersi, noi ci situiamo linearmente, magari senza rendercene conto,
dentro la logica che vede il sistema come sostanzialmente “giusto”, e
comunque come imprescindibile, e però esposto troppo a degenerazioni che
andrebbero contrastate e corrette. E questa è esattamente la visione
che proprio il capitalismo ha di se stesso. Basta sfogliare anche un
semplice quotidiano economico per rendersene conto: sulle degenerazioni
tutti sono d’accordo e divergono semmai sulle modalità efficaci di
contrasto. Nessuno dice che il problema si annida nel sistema in sé dei “valori di scambio”. E per la verità non lo diciamo neppure noi.
8) In
sostanza, questa crisi non è la conseguenza di scelte più o meno
sbagliate; essa è soprattutto una dinamica di ri-aggiustamento interno
al sistema capitalistico, tra le sue “forme deboli” di denaro e merci e
le sue “forme forti” di lavoro e macchinari. E’ nata da una sproporzione
dei valori in campo (l’economia politica l’ha percepita come divario
tra “l’economia reale” delle produzioni e “l’economia virtuale” dei
denari e dei titoli, che è un modo di vedere solo la superficie dei
fenomeni), ed è proseguita poi col riallineamento dei valori sulla base
dell’effettiva capacità di contabilizzazione delle “forme forti”. Ciò ha
determinato scossoni in particolare nella finanza, con quantità enormi
di denari e titoli divenuti improvvisamente “carta straccia”, e di
converso nel sistema complessivo del debito, anche del debito degli
Stati. Ed ora siamo probabilmente già oltre gli scossoni più acuti, con
gli assetti che ripartono da una base più bassa dei valori complessivi.
Ma non mi
dilungo qui sulla crisi, anche perché ho potuto sviluppare il
ragionamento in maniera più articolata in altre occasioni, e da ultimo
nel libro Teoria della totalizzazione. Voglio però sottolineare come ogni crisi economica sia anche, e soprattutto, una ristrutturazione, un nuovo inizio.
Ovviamente per i lavoratori, per quelli che stanno sotto, il movimento
di riequilibrio, di ristrutturazione e di nuovo inizio comporta davvero
lacrime e sangue. Ma nella logica del capitalismo questo è normale.
Sempre nei sistemi sociali basati sulla ineguaglianza tra gli esseri
umani, chi sta sotto viene obbligato a reggere l'insieme del sistema e
l'insieme dei suoi movimenti scomposti.
9) Ciò
che, in effetti, mi preme evidenziare è che qualunque processo di
ricomposizione della sinistra di alternativa dovrebbe assumere come
priorità assoluta la critica dell'economia politica. Vale per il
tentativo di Ross@, che punta ad essere non una sigla aggiuntiva alle
altre ma uno spazio aperto di lavoro in direzione della riunificazione
delle soggettività alternative; e vale per quello che si muove dentro
Rifondazione comunista, la quale sembra prospettare, pur con molti
limiti ed incertezze, un possibile superamento della propria specifica
esperienza organizzativa, e forse si avvia a proclamare, nell’imminente
congresso, la disponibilità di quella comunità di compagni e compagne a
rimettersi in gioco in un contesto più ampio.
Lo
ribadisco: ciò che dobbiamo costruire non è la critica delle politiche
economiche, ma proprio la critica dell'economia politica. Dobbiamo
puntare a far vivere una autentica autonomia concettuale da tutte le
varianti (ma proprio tutte) della cultura borghese. Se noi ci fermiamo
alla critica delle politiche economiche degli altri - e cioè alla
critica dei progetti economici dei governi e delle scuole di pensiero
che li sostengono; oppure alla critica dei progetti economici della
sinistra liberale e socialdemocratica e delle scuole di pensiero che le
sostengono - non delineeremo affatto una vera e propria prospettiva per
la sinistra di alternativa e per le classi sociali cui ci riferiamo.
Questo
vuol dire che quando elaboriamo le nostre proposte, prima ancora di fare
le pulci a ciò che dicono gli altri, dovremmo avere ben chiaro
l'effettivo funzionamento del capitalismo odierno. E concludo, al
riguardo, proprio con un esempio che ci riguarda molto da vicino.
10) Noi
parliamo (relativamente) spesso del Sud. Ma che significa costruire una
proposta politica che provi a tener dentro l'insieme le vertenze che ci
sono e i movimenti di lotta e di protesta che esistono anche nei
territori meridionali, con una prospettiva di miglioramento reale delle
condizioni di vita e di lavoro delle persone? Possiamo continuare a
ripetere le stesse cose dette dei decenni scorsi (peraltro, in piena
subalternità alla cultura dominante) e sostenere che la difficoltà del
Sud sia legata all'abbandono dei governi e alla scarsità delle risorse
che vi si impiegano, e che quindi la soluzione starebbe tutta
nell’ottenere più interventi statali, più capitali e più investimenti?
Beninteso,
non si è trattato, e non si tratta, di sciocchezze in assoluto. Hanno
anche esse il loro briciolo di verità. Ma possiamo davvero continuare a
non cogliere che la verità di tali affermazioni è poi esattamente un
briciolo, e che quindi non possono aiutarci più di tanto? O non vale
piuttosto la pena di partire dal dato obiettivo che vede i valori
presenti al Sud, o che al Sud arrivano, convertirsi rapidamente in
dis-valori? Cento euro a Trento sono 100 euro; ma quelle 100 euro,
quando si muovono nello hinterland napoletano, diventano in partenza 80
euro e probabilmente anche di meno. Non è forse necessario affrontare di
petto questo dato sorprendente, che gli economisti spiegano con la
categoria generica delle “difficoltà ambientali” dell’investimento, e
cercare di chiarirlo con la nostra autonomia concettuale?
Occorre
partire, a mio avviso, proprio dal come si sta ristrutturando il
capitalismo, e cioè dal fatto che sempre più è direttamente l'insieme della società
a determinarsi come fattore produttivo: produttivo fino al punto che
una società fatta in un certo modo valorizza la ricchezza, e la
svalorizza se è fatta in modo diverso. Io definisco questo andamento con
l’espressione totalizzazione del rapporto di capitale: la
valorizzazione e il sistema dei valori di scambio poggiano ora
essenzialmente sulla mobilitazione produttiva dell'intero corpo sociale,
sulla interagenza dei singoli fattori economici, sulla sinergia delle
diverse attività di lavoro, sulla irreggimentazione dei tempi di vita
dentro le dinamiche degli assetti produttivi. Siamo, insomma, proprio al
general intellect, all’individuo produttivo sociale che Marx
prefigurava come esito possibile del capitalismo, allorché il suo
sviluppo ulteriore avrebbe reso sempre più miserabile il tempo di lavoro
come misura effettiva del valore, e dislocato, invece, tale misura
nella forza produttiva dell'insieme sociale.
Propongo, in sostanza, una lettura davvero autonoma del capitalismo, che lo guardi anzitutto dal suo versante di forza sociale prima ancora che di valore economico.
11) Ma se
si assume una tale impostazione, allora la conseguenza politica diviene
ancora più ultimativa: poiché non è più la pura e semplice economia a
segnare la società caratterizzandola alla sua maniera, ma è esattamente
il contrario (ovvero è la società a dare il segno all'economia, a
qualificarla in termini di valori e disvalori), allora la questione
meridionale si pone esattamente nei termini di una società sempre più
vocata, capitalisticamente, alla marcescenza. La qualcosa non si
concilia affatto con la tesi che occorre far arrivare “più valori”,
poiché nella situazione degradata del Sud i valori divengono facilmente
disvalori. La questione diventa, invece, il segno di qualità
dell’insieme degli assetti sociali. E la qualità di una società, anche
intesa in termini strettamente capitalistici, postula molti parametri di
riferimento: dall'insieme delle attività economiche all'insieme delle
relazioni civili, dal livello delle infrastrutture e dei servizi e alla
autorevolezza delle istituzioni.
Nel Sud
non è questione di una politica economica da contrapporre ad un'altra
politica economica. E’ direttamente sul piano della società che si situa
la linea dello scontro. Non è eccessivo dire che nel Sud la questione
si pone in termini di vera e propria sfida di civiltà.
In
estrema sintesi, il tema, per noi e per loro, è esattamente la
trasformazione del Sud. Loro (i funzionari del capitale) lo vogliono
come territorio che “lavora” i rifiuti, gli scarti del sistema, e perciò
stabilmente caratterizzato da produzioni e luoghi degradati e da
fenomeni vistosi di marcescenza e spreco assoluto degli esseri umani, un
luogo d'elezione per stabilizzare e portare a compimento la “parte
oscura” della modernità capitalistica, con una quota consistente di
persone destinate obiettivamente a marcire, con le produzioni destinate
obiettivamente alla obsolescenza e con i rapporti interpersonali sempre
più imbarbariti. Noi dovremmo non solo rivendicarlo in direzione
opposta, ma proprio farlo vivere come luogo degno di essere vissuto,
sapendo che dovremo remare in controtendenza su tutti i piani, perché il
degrado permea diffusamente tutte le relazioni civili del Mezzogiorno e
la stessa coscienza delle persone.
12) Se io
dovessi utilizzare una parola d'ordine sintetica che esemplifichi la
nostra possibile idea di risoluzione della questione meridionale,
parlerei di presidi di civiltà. Non si consideri astratta una
tale espressione, poiché essa postula per intero il piano delle lotte e
delle vertenze. E però con una declinazione molto particolare: battersi
per difendere e moltiplicare i presidi civiltà comporta sì la difesa
delle fabbriche e la difesa dei lavori che ci sono, ma mettendo in
rilievo esattamente la funzione positiva della produzione e del lavoro
come vincolo del tessuto sociale; e ciò richiama direttamente l’ambito
dei diritti, delle competenze e dell’ambiente: diritti da rispettare,
competenze da valorizzare e ambiente da salvaguardare.
In altre
parole, assumere i luoghi di lavoro e l’attività di lavoro come presidi
di civiltà vuol dire muoversi nella direzione di una società nettamente
diversa dal contesto di degrado e marcescenza consegnato al Sud
dall’attuale rapporto di capitale. Significa soprattutto muoversi con
una logica di cambiamento complessivo, considerando le stesse vertenze
un aspetto della “progressione in avanti” più generale, che comprenda
anche l'attività quotidiana delle scuole, dei servizi, dei trasporti,
degli ospedali, delle associazioni…; che comprenda, in breve, tutte le
pratiche di lavoro e di vita finalizzate a contrastare il segno del
degrado e, oltre il degrado, proprio l’attuale ristrutturazione
capitalistica del Mezzogiorno d’Italia.
Il tema,
insomma, è trasformare il Sud, ma non in una direzione qualsiasi. Il
tema, per dirla con chiarezza, è di recuperare, sulla specifica
questione meridionale - esattamente in ragione del carattere ultimativo
delle contraddizioni che l’attraversano -, né più né meno che la
prospettiva della trasformazione rivoluzionaria dell’intera società.
“Trasformazione
rivoluzionaria” è una espressione che va usata, ovviamente, con grande
consapevolezza e cautela, tanto più che nella nostra storia troppi
l'hanno usata in termini declamatori e puramente ideologici. E però, o
noi oggi cominciamo a parlare anche e soprattutto di trasformazione
rivoluzionaria – facendolo con tutta la necessaria intelligenza teorica e
partendo dalle contraddizioni obiettivamente più laceranti tra gli
assetti sociali capitalistici e la esistenza reale degli esseri umani -,
o non daremo uno sbocco pratico neppure alle lotte più specifiche e
immediate.
* (intervento all'incontro meridionale di Ross@ - Napoli, 26 settembre 2013)
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