giovedì 6 novembre 2014

La deriva oligarchica di Nicola Melloni, Esseblog

La coincidenza temporale tra la manifestazione della CGIL e la Leopolda di Matteo Renzi ha una simbologia molto forte: per la prima volta il sindacato di riferimento della sinistra italiana manifesta massicciamente contro un governo “amico”, proprio mentre il segretario del PD organizza la sua nomenklatura in quel di Firenze, con uno sguardo annoiato sulla piazza di Roma.
Per la prima volta, anche visivamente, il vecchio corpo della sinistra si spacca, militanti da una parte, gruppo dirigente dall’altra. Non c’è da sorprendersi, in fondo, la distanza tra piazza e palazzo è figlia di 25 anni di derive politiche; nè può sorprendere che una manifestazione tanto grande avvenga proprio quando il tesseramento del PD raggiunge i suoi minimi storici. Quel partito, ormai è chiaro, non è più un partito di militanti – e ben lo sanno proprio quegli ultimi giapponesi delle Feste dell’Unità che devono mettere il marchio sugli stand (“gestito da volontari”) per differenziarsi da rivenditori di lavatrici e ristoratori privati.
In realtà, anzi, il PD non è proprio più un partito nel senso che conosciamo, almeno in Europa. E’ una formazione elettorale che nasce e vive alle elezioni, in cui non vi è più differenza, appunto, tra iscritto e votante. Più che un partito liquido è un comitato elettorale nelle mani di Renzi che ha realizzato il sogno di Veltroni: un partito a vocazione maggioritaria, anzi, un partito della nazione che contenga tutto ed il contrario di tutto. La militanza, in quest’ottica, è un ovvio ostacolo; il militante crede in qualcosa, in una idea attaccata al partito, fors’anche in una visione del mondo; il partito della nazione, invece, punta su un elettore usa e getta, in base alle opportunità e circostanze del momento. Se torniamo indietro di solo qualche mese, questa impostazione era già chiara: il PD prende il 41% ma perde Livorno e Perugia, segnalando il definitivo scollamento tra base ed elettorato.
Era dunque inevitabile, infine, un redde rationem tra partito – o quel che ne rimane – e sindacato, che per sua natura è invece fatto di militanti che devono essere rassicurati, possibilmente coinvolti, in ogni caso difesi.
Renzi, invece, fin dall’inizio, ha preferito i convegni, con gli ospiti, amici e star del palcoscenico invitati da lui, e che con quella militanza, con quella comunità del Partito nulla hanno a che vedere: basti pensare alle comparsate di Zingales e, soprattutto, di Davide Serra che si scagliava contro il diritto di sciopero proprio mentre la CGIL riempiva San Giovanni con quelli che una volta – e forse tuttora – erano militanti del PD.
Si tratta di una deriva oligarchica, mascherata abilmente da laboratorio di idee. La fine della militanza significa la fine della partecipazione, nascosta dal ricorso continuo a primarie in cui si decide poco o nulla. I congressi stessi sono ormai diventati semplicemente assemblee che incoronano un leader ed il calo degli iscritti significa semplicemente che il partito perde la sua cinghia di trasmissione e collegamento con la società: non ne interpreta più i bisogni, non la mobilita per dare forza alla propria politica.
E dunque il luogo decisionale non diventa più pubblico, ma privato. Come hanno fatto notare Civati e Fassina gli elettori del PD nel 2013 non hanno votato per l’abolizione dell’Art.18, ma questo a Renzi non interessa. Per lui, la sua elezione – ed ancor di più il suo 41%, sono una investitura della persona, e non della politica, una delega a comandare, delega infatti richiesta al Parlamento per legiferare al buio sul mercato del lavoro. Ne discuterà, al massimo, con amici, collaboratori, “esperti”, un po’ come alla Leopolda. La mutazione genetica è così arrivata al suo epilogo, e il partito della nazione è già realtà. Un partito che va oltre la sinistra, addirittura oltre la democrazia; che esiste solo come strumento nelle mani del leader, e maggior ragione, del premier di turno.
Con Renzi si chiude definitivamente il cerchio aperto dalla fine del PCI: quella Piazza non ha nulla che fare con quel Palazzo. Non e’ un problema di sinistra vecchia e nuova, è un problema di orizzonte politico completamente diverso, la difesa di un gruppo di interessi, di una parte (il partito!) contro il superamento di quella parte, e dunque la sua cancellazione. Per chi crede ancora nella difesa del lavoro, dei deboli, per chi crede ancora nelle ragioni dell’esistenza della sinistra, per chi quella piazza ha organizzato e riempito è forse ora di rendersene conto.

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