La Direzione del Partito della Rifondazione Comunista ha avviato un
importante dibattito, licenziando un documento sulla prospettiva
dell’unità della sinistra e del partito.
Condivido il senso e la lettera del documento.
Queste note sono un modesto contributo alla discussione. E sono centrate sulla questione del futuro del partito.
Gli equivoci sulla storia del comunismo italiano.
La storia del movimento operaio italiano, e segnatamente del PCI, è
grande e complessa. Lungi da me l’idea di trattarla esaustivamente.
Mi interessa, in questa sede, unicamente tentare di confutare alcune
interpretazioni superficiali, unilaterali e/o infondate, che nel corso
del tempo si sono affermate producendo danni gravissimi e a tutt’oggi
irrisolti. E dalle quali è dipesa e dipende l’illusione che si possa
ricostruire il PCI, come se si trattasse di una semplice questione di
volontà.
In particolare c’è oggi, nella società e fra gli stessi militanti
comunisti e di sinistra, l’idea perniciosa che la “politica” sia
unicamente il complesso di attività volte alla conquista del consenso
elettorale e che, più specificatamente, consista nel promuovere alleanze
e nell’elaborazione di programmi di governo. O consista, ma è solo
l’altra faccia della medesima medaglia, unicamente nella propaganda di
ideali, principi ed obiettivi di lotta.
In realtà è la stessa concezione della “politica” ad essere distorta
dalla indebita separazione fra il complesso di attività ed azioni
sociali e culturali del Pci e quelle dedicate alla dialettica interna
alle istituzioni e alle relazioni fra partiti.
Il “caso italiano” si deve sostanzialmente a tre fattori.
Il primo era la natura prevalentemente e strutturalmente nazionale del mercato e delle imprese capitalistiche.
Il secondo era la natura parlamentare delle istituzioni (dal più piccolo consiglio comunale al parlamento nazionale).
Il terzo era l’esistenza di grandi organizzazioni sociali e di partiti di massa.
Questi fattori, originati dai limiti globalmente imposti allo
sviluppo spontaneo del mercato capitalistico e segnatamente del mercato
finanziario dopo la crisi del 29 e la guerra, dal peso conquistato dal
PCI nella Resistenza e conseguentemente nella redazione della
costituzione repubblicana, e dallo sviluppo della lotta di classe
possibile in quelle condizioni, sono intimamente intrecciati.
Sul primo fattore mi limito a dire (non è questa la sede per analisi
approfondite) che con gli Accordi di Bretton Woods vigenti e con la
natura prevalentemente nazionale e produttiva del capitale e del
mercato, la società aveva come centro i luoghi della produzione. Le
classi sociali erano ben identificate, anche se in un contesto sempre
più articolato e complesso. La classe operaia e i suoi strumenti,
sindacato e partito, avevano un ruolo fondamentale che influenzava tutta
la società.
Il secondo fattore, e cioè la natura parlamentare delle istituzioni a
tutti i livelli, permetteva che la lotta di classe ed ogni sorta di
lotte sociali e civili, potessero incidere nella realtà consolidando
obiettivi di lotta in leggi dello stato attraverso i partiti di massa,
indipendentemente dalla loro collocazione di governo o di opposizione.
Parlamento con grandi poteri, governo con scarsi poteri e legge
elettorale proporzionale permettevano che le lotte e le rappresentanze
di classe potessero, nella dialettica parlamentare e con alleanze
precise e mirate, vincere battaglie e conquistare obiettivi.
È così che si chiude un cerchio, un circolo virtuoso. Le lotte, che
in quel contesto strutturale potevano essere sempre più avanzate giacché
accumulavano potere nei rapporti di forza sociali (basti pensare
all’efficacia dello sciopero), attraverso le proprie rappresentanze
pagavano e risultavano efficaci e vincenti. La dialettica politica e
parlamentare era direttamente legata alle dinamiche sociali e dei
rapporti di forza fra le classi. I partiti erano rappresentanti di
classi e pezzi di società ed avevano una base ideologica precisa ed
identificabile. Votare alle elezioni significava delegare la propria
rappresentanza a lottare nelle istituzioni per i propri interessi.
Si tratta di una concezione della politica, della rappresentanza,
delle istituzioni ben diversa, per non dire contrapposta, a quella
liberale che era ispirata dall’idea dell’elezione diretta del governo e
dalla scelta delle persone invece che dei partiti.
Ma veniamo al terzo fattore, che in questa sede ci interessa maggiormente.
C’è tutta una mitologia completamente infondata sulla storia del PCI e
sui motivi che ne hanno fatto il più grande partito comunista in
occidente.
Secondo i canoni dell’odierno pensiero dominante la grandezza del PCI
si deve sostanzialmente alla grandezza dei suoi dirigenti, Togliatti in
testa. E segnatamente alla raffinatezza della politica delle alleanze e
all’immancabile “cultura di governo”.
Senza nulla togliere all’effettiva statura di Togliatti e di tutto il
gruppo dirigente del PCI, mi preme sottolineare che senza l’intreccio
dei tre fattori di cui sopra in PCI non avrebbe, in nessun caso, potuto
essere quel che è stato.
Infatti, senza un contesto economico nel quale le lotte potevano
essere efficaci socialmente, nessuna raffinata politica delle alleanze
in parlamento avrebbe potuto strappare risultati concreti e, a lungo
andare, la rappresentanza politica avrebbe finito con l’essere avvertita
anch’essa come inefficace, inutile e dedita a coltivare interessi di
partito (oggi si direbbe di casta), separati da quelli dei
rappresentati.
Senza la repubblica parlamentare e il sistema proporzionale tutte le
lotte generali che richiedevano riforme legislative non avrebbero mai
raggiunto l’obiettivo di codificare in leggi le proprie rivendicazioni.
Un partito come il PCI, antagonista ed inviso al potere imperialistico
statunitense e perciò impossibilitato a conquistare il governo
direttamente, senza la possibilità di allearsi con il PSI e con parti
della DC sui temi posti dalle lotte sociali e con i partiti laici contro
la DC sui temi civili, avrebbe finito con il testimoniare una posizione
senza mai raggiungere obiettivi concreti. E conseguentemente non
avrebbe mai accumulato il consenso elettorale che invece conquistò
esattamente grazie all’utilità ed efficacia della rappresentanza.
Ovviamente a Togliatti e al gruppo dirigente del PCI va attribuito il
merito enorme di aver analizzato correttamente le contraddizioni e la
natura del capitale dell’epoca e di aver principalmente contribuito a
produrre la repubblica parlamentare.
Tuttavia, se per esempio la DC avesse vinto le elezioni della legge
truffa nel 53 (le perse per lo 0,2 % dei voti) e l’Italia avesse
conosciuto una dialettica politica fondata sulla scelta del governo
attraverso alleanze, costruite previamente alle elezioni, per
conquistare il famoso premio di maggioranza, il PCI sarebbe stato
marginalizzato e mai avrebbe potuto crescere elettoralmente
parallelamente alla crescita delle lotte.
Quanto detto finora dimostra inequivocabilmente che il “caso
italiano” è dovuto sostanzialmente ad un intimo rapporto fra “sociale e
politico”.
Le lotte, di per se efficaci dentro il contesto strutturale del
capitalismo dell’epoca, trovavano vittorie e coronamenti attraverso le
elezioni, grazie alla possibilità delle rappresentanze di classe di
sviluppare una politica efficace, anche se dall’opposizione. Le
“alleanze” erano strettamente connesse ad obiettivi generali e parziali,
si sviluppavano dopo le elezioni ed erano variabili secondo l’andamento
dei rapporti di forza sociali, essendo strette fra partiti e parti di
partiti legati a classi e/o parti della società. La “cultura di governo”
non era l’idea che bisognasse allearsi con altri, con mediazioni al
ribasso, per conquistare il governo per poi gestire l’esistente, bensì
il complesso di proposte programmatiche di fase volte a conquistare
migliori condizioni di vita per le masse popolari, a democratizzare la
società e a consolidare basi per una transizione al socialismo.
Ma il PCI non era, come molti oggi credono e purtroppo dicono, dedito
principalmente ad elaborare proposte, programmi e tattiche volte a
fornire uno “sbocco” politico alle lotte.
Per quanto visibile, e misurabile con i voti elettorali, il lavoro
svolto nella dimensione politica, elettorale ed istituzionale non era
affatto la principale attività del PCI. Per quanto importante senza la
lotta di classe e senza l’organizzazione sociale non avrebbe mai potuto
produrre nessun risultato.
Ma è altrettanto sbagliato pensare che il PCI dirigesse direttamente le lotte come una pura avanguardia.
Un partito comunista serio è tale se è uno strumento complessivo
della classe. Può essere clandestino, di quadri, di massa, a seconda
delle condizioni in cui opera. Ma se non affonda le proprie radici nella
classe, se non ha come bussola la lotta di classe e i rapporti di forza
sociali, se non possiede una prospettiva strategica, finirà per
snaturarsi trasformandosi in una setta parolaia o in una formazione
affetta dal cretinismo parlamentare e dall’elettoralismo più spinto.
Le condizioni particolari di cui abbiamo parlato più sopra sono la
base analitica e concreta della svolta che partorisce il “partito nuovo”
proposto e voluto da Togliatti.
Non si tratta di un modello astratto migliore di altri o replicabile
dovunque, bensì dello strumento meglio capace di sfruttare tutti gli
spazi e possibilità che la realtà italiana del dopoguerra, sociale e
politico – istituzionale, permette.
In particolare il PCI è il partito che promuove lotte locali a
nazionali, costruisce organizzazione sociale e sindacale, produce luoghi
di aggregazione culturale, ricreativa e perfino sportiva.
L’idea secondo la quale il partito dirigeva dall’alto sindacato,
movimento cooperativo, case del popolo ecc è una bufala di proporzioni
gigantesche.
Il partito promuoveva e dirigeva la lotta di classe essendone uno
strumento inseparabile e complessivo. Dalla più piccola sezione alla
direzione nazionale la principale attività consisteva nell’agire
articolatamente e direttamente in tutte le sfere della società. Vale a
dire a livello sociale promuovendo le battaglie sindacali, casse di
mutuo soccorso, cooperative di produzione, di consumo ed edilizie,
associazioni di categoria di commercianti ed artigiani, organizzazioni
di donne e così via. A livello culturale luoghi di aggregazione come le
case del popolo, l’ARCI con tutte le sue svariate sezioni,
organizzazioni di artisti ed intellettuali e così via. A livello
politico ed istituzionale partecipando alle elezioni ed eleggendo gruppi
consiliari e parlamentari propri ed indipendenti (come la sinistra
indipendente), in grandissima maggioranza espressione diretta delle
esperienze di lotta più avanzate e composti in modo di essere
all’altezza del compito in ogni settore legislativo.
Negli organismi dirigenti a tutti i livelli sedevano quadri politici
direttamente impegnati nelle lotte e nelle grandi organizzazioni di
massa. Ed era continuo lo scambio di quadri e funzionari fra le diverse
attività del partito, sindacali, sociali, culturali e politiche.
Ovviamente non mancavano contraddizioni e problemi, come una notevole
burocratizzazione di un partito con migliaia di funzionari. Come la
“specializzazione” e tendenziale allontanamento dal sociale di numerosi
quadri amministrativi ed istituzionali. Come un alto grado di
conformismo e di eccessivo patriottismo di partito. Ed altro ancora. Ma
in questa sede non si tenta di analizzare i problemi intrinseci del
partito di massa. Si tenta, invece, di sfatare il mito secondo il quale
gli organismi dirigenti a tutti i livelli del PCI erano dediti
unicamente a formulare “strategie” e “tattiche” politico istituzionali e
non a costruire le lotte e gli organismi di massa.
Infatti il PCI lavorava all’unità sindacale e all’unità politica
della classe. Perciò Lega delle Cooperative, sindacato, ARCI e cosi via
erano organizzazioni aperte ed unitarie. E perciò avevano un alto grado
di autonomia. Ma è paradossale pensare che queste organizzazioni siano
nate spontaneamente e che il partito le dirigesse in quanto operante
nella sfera della politica istituzionale.
Del resto il circolo virtuoso di cui abbiamo parlato più sopra
funzionava prevalentemente anche fuori dalla politica istituzionale. Ad
ogni vittoria operaia nei contratti sul salario, che non aveva bisogno
di alcun intervento legislativo, il PCI guadagnava voti. E con quei
voti, grazie alle tattiche ed alleanze parlamentari adeguate,
conquistava salario indiretto e diritti attraverso l’implementazione del
welfare e di leggi avanzate.
Insomma, solo la lotta di classe era il motore della trasformazione
sociale che permetteva, grazie alla repubblica parlamentare e al sistema
proporzionale, di conquistare leggi e potere.
L’idea, oggi imperante per effetto della cultura dominante
attualmente egemone, che ha cancellato la lotta di classe, secondo la
quale le conquiste sociali e democratiche erano il frutto delle avanzate
elettorali e non viceversa, è la mistificazione esiziale alla base del
grande tradimento.
Il grande tradimento.
All’inizio degli anni 70 comincia la controffensiva capitalistica.
Essa è motivata da condizioni strutturali sia a livello globale sia a
livello nazionale. Caduta tendenziale del saggio di profitto, potere
conquistato dai lavoratori, regole monetarie e finanziarie che
impediscono e/o limitano fortemente la vocazione finanziaria del
capitalismo, sono fattori decisivi. Richiederebbero una lunga
trattazione, sempre che si pensi che l’analisi del capitale e
dell’andamento dei rapporti di forza sociali siano fondamentali per
capire la realtà.
Ma non è questa la sede per farlo.
Resta il fatto che in Italia ancora negli anni 70 il circolo virtuoso
di cui sopra funziona pienamente. Sono gli anni in cui l’accumulazione
della forza nei rapporti sociali e in cui nuove e più avanzate
rivendicazioni permettono il raggiungimento di grandi conquiste sia sul
piano sociale sia sul piano politico. Basti pensare alle crescite
salariali, alla scala mobile, alle 150 ore, al servizio sanitario
nazionale, all’equo canone, alla chiusura dei manicomi, al divorzio e
all’aborto e così via. Ognuna di queste conquiste è il frutto di lotte,
scioperi, manifestazioni, senza cui nessuna “politica delle alleanze” e
“cultura di governo” avrebbe mai potuto ottenerle. Ma è anche il frutto
della possibilità in parlamento di fare alleanze ad hoc su ognuna,
indipendentemente dallo schieramento che sta al governo.
Esattamente all’inizio degli anni 70 gli USA denunciano gli accordi
di Bretton Woods. Lentamente ma inesorabilmente comincia una
modificazione strutturale del capitalismo. Le economie nazionali sono
esposte alla libera oscillazione dei mercati valutari, le imprese
iniziano ad avere una sempre più accentuata vocazione alle esportazioni,
il mercato nazionale perde la sua centralità. Già alla fine degli anni
70 inizia il processo di finanziarizzazione impetuosa dell’economia, di
deindustrializzazione, di ristrutturazione e di delocalizzazione. Oltre
al concentramento di produzione e commercio nelle mani delle società
multinazionali.
Viene meno il primo fattore su cui si fondava la forza del movimento
operaio italiano. La principale arma, lo sciopero, inizia a non essere
più efficace come prima. E cominciano le sconfitte. La società, come si
vedrà bene negli anni 80, ha sempre più al centro il capitale
finanziario e speculativo, e quindi si modifica velocemente. Si disgrega
e cresce l’individualismo, l’idea del facile arricchimento facendo
soldi con i soldi.
Nel breve volgere di pochi anni le sconfitte sono incontenibili. I
rapporti di forza sociali diventano sempre più sfavorevoli, le lotte
perdenti, le rappresentanze politiche incapaci perfino a difendere le
conquiste degli anni precedenti. Si afferma nella società la cultura del
mercato, della competizione assoluta. I comunisti vengono descritti
sempre più come vecchi, incapaci di capire e quindi governare le
meraviglie della modernizzazione. Gli operai come una razza in via di
estinzione giacché cresce il “terziario avanzato”. La classe operaia
come un concetto obsoleto giacché si dice, anche se si tratta in gran
parte di una patente mistificazione, che perfino gli operai sono
diventati “rentiers” in quanto “risparmiatori” e possessori di BOT e
CCT.
C’è ancora la repubblica parlamentare, c’è ancora una grandissimo
Partito Comunista di massa. Ma come si vede, venendo meno rapporti di
forza sociali favorevoli, il circolo virtuoso si interrompe. La
sconfitta della FIAT del 1980 non si può evitare con nessuna “abilità
politica” né alleanza o manovra parlamentare. Al contrario apre una
stagione nella quale anche in parlamento arriva una sconfitta dietro
l’altra. A cominciare dalla proclamata “indipendenza” dal potere
politico della Banca centrale e dai 4 punti di scala mobile tagliati dal
governo Craxi.
Il PCI, che con Berlinguer sceglie di non separare i propri destini
da quelli della classe, nonostante la sua forza è ormai un partito
isolato. Impossibilitato a vincere battaglie sociali e parlamentari
difensive. Come dimostra la sconfitta nel referendum sui 4 punti di
scala mobile del 1984. Figuriamoci a fare nuove conquiste.
È chiaro o non è chiaro che tra i tre fattori, di cui abbiamo tanto
parlato, il principale e decisivo è quello dell’andamento dei rapporti
di forza sociali?
O si vuol sostenere che le sconfitte e l’incipiente declino
elettorale arrivano per l’incapacità del PCI di capire il “nuovo”? Per
l’attardarsi in analisi e descrizioni della realtà con strumenti
obsoleti come il marxismo? Per l’abbandono della “cultura di governo?
Per la mancanza di un leader forte dopo la morte di Berlinguer? Per un
rigurgito di settarismo verso il PSI di Craxi? Per la lentezza
elefantiaca del PCI a capire novità e ad adeguarsi ad esse a causa del
potere “conservativo” dei suoi apparati burocratici?
Basta rimuovere l’analisi del capitale e dei rapporti di forza
sociali per poter dire qualsiasi cosa circa la crisi del PCI. Ovviamente
ogni spiegazione ha un piccolo o meno piccolo nucleo di verità. Ma
resta il fatto che non si può, o non si dovrebbe, giudicare l’andamento
delle fortune di un partito dedito alla lotta di classe rimuovendo la
lotta di classe dall’analisi, o riducendola ad una variabile dipendente
da fattori assolutamente secondari.
Potevano la repubblica parlamentare e il sistema dei partiti rimanere
uguale a se stessi se la struttura dell’economia capitalistica, della
formazione sociale conseguente, della cultura e del “senso comune”,
diffusi anche fra le classi subalterne, erano così profondamente
cambiati?
Evidentemente no.
Lo capisce bene Berlinguer che denuncia una degenerazione del sistema
dei partiti già agli inizi del processo. La famosa “questione morale” è
stata con il tempo ridotta alla mera denuncia della corruzione e ad una
sorta di dimensione etica. Non c’è quasi nessuno, oggi, che non la citi
come esempio. Ma in modo strumentale e rimuovendone l’analisi sistemica
che l’ispirava.
I partiti cominciano a separare le proprie sorti da quella dei loro
rappresentati. Valga per tutti l’esempio del PSI che cambia campo e si
trasforma nel più coerente rappresentante del capitalismo finanziario
emergente, che propugna il “decisionismo” al posto della mediazione di
interessi nelle istituzioni, il leaderismo al posto della democrazia
nella vita del suo partito (con tanto di elezioni per acclamazione),
l’obiettivo del governo fine a se stesso e quindi contrapposto, dati i
rapporti di forza sociali, agli interessi dei lavoratori.
La “politica” intesa come tattica e strategia nella dialettica
parlamentare diventa un “gioco” fatto di manovre, scontri personali,
“trovate” suggestive. E soprattutto la dialettica governo opposizione
diventa uno scontro frontale nel quale è impossibile trovare mediazioni
che non incorporino le compatibilità dell’economia vigente. La “vera” ed
importante dialettica politica, per esempio, è quella che avviene
dentro lo schieramento governativo fra una DC in crisi e un PSI che,
nonostante lo scarso consenso, pretende per se la presidenza del
governo.
Il PCI è fuori dai giochi. Nonostante la sua forza conta sempre meno
giacché i suoi rappresentati cominciano a peggiorare le proprie
condizioni di vita. Al suo interno, anche rispondendo ad esplicite
richieste esterne, si affermano sempre più posizioni di destra. Una
classica che propugna di uscire dall’isolamento con l’unità della
sinistra. Con l’unità, cioè, con il PSI di Craxi che sta al governo ed è
diventato nei fatti un partito ben più a destra della DC, corrotto ed
autoritario. Ed una nuova e molto suggestiva, apparentemente più di
sinistra. Quella che dice: “non vogliamo morire democristiani”.
E proprio qui sta il grande tradimento.
I rapporti di forza sociali, cambiati in peggio da fattori oggettivi
relativi alla natura del capitale, del mercato e alle conseguenti
modificazioni sociali e culturali, non sono più la bussola della
politica del partito. L’obiettivo non è più modificarli, anche
attraverso una lunga fase difensiva e di resistenza, scontando anche
eventuali minori consensi elettorali, bensì assumerli come orizzonte
immodificabile della politica.
Il partito che ha conquistato moltissimo dall’opposizione comincia a
dire che “solo” dal governo si possono cambiare le cose. E alla
contrapposizione di classe nella società si sostituisce la
contrapposizione alla DC nel sistema politico.
Va da se che per andare al governo bisogna liberarsi da ogni retaggio
relativo alla lotta di classe per diventare un partito “moderno”,
“nuovo”, semplicemente di “sinistra”. E va da se che la repubblica
parlamentare e il sistema proporzionale non sono idonei allo scopo di
“vincere” le elezioni ed andare al governo mentre la propria base
sociale perde.
È su queste basi che si scioglie il PCI e che il PDS diventa la punta
di diamante del passaggio alla seconda repubblica del maggioritario.
Con gran parte del gruppo dirigente che non vede l’ora di diventare
finalmente personale di governo e con una base, militante ed anche
elettorale, ridotta alla speranza infondata, come si vedrà bene nel
corso dei seguenti 25 anni, che la conquista del governo possa cambiare
l’Italia e le condizioni di vita delle classi subalterne.
Rifondazione comunista.
Rifondazione nasce per effetto del grande tradimento e per tentare di contrastarlo.
Non si può qui fare un’analisi approfondita, tantomeno una ricostruzione storica.
Ma, secondo me, una cosa è essenziale per capire la recente crisi del partito. Ed è l’unica su cui vale la pena di soffermarsi.
Ancora una volta si tratta di qualcosa di fondamentale, di
strutturale. Senza capire la quale si finisce inevitabilmente per dare
spiegazioni superficiali, sbagliate, ed in ultima analisi utilizzando
esattamente le categorie interpretative proprie del pensiero e del senso
comune dominanti.
Non è questione di leader, buoni o cattivi. Non è questione di
tattiche elettorali, azzeccate o meno. Non è questione di immagine,
appropriata o meno. Non è questione di formule organizzative, efficaci o
no. Non è questione di unità o divisioni interne.
Ognuna di queste cose esiste, e si può discuterne all’infinito
dividendosi all’infinito. Ma in realtà sono tutte effetti di una realtà
oggettiva totalmente indipendente dalla volontà del partito e
soprattutto di un errore gravissimo, questo si soggettivo.
La finanziarizzazione e globalizzazione del capitale, la perdita di
potere degli stati nazionali circa l’economia, la società
individualizzata e disgregata, la perdita di coscienza di classe della
stragrandissima maggioranza dei proletari, il trionfo dell’ideologia
liberista, la trasformazione delle istituzioni operata dal maggioritario
e dalla centralità del governo, la degenerazione in spettacolo del
dibattito politico pubblico e così via, non sono ascrivibili ad errori
del PRC. Sono i frutti velenosi di un trentennio di sconfitte e
modificazioni dei rapporti di forza sociali.
Cataloghiamole, per comodità, come cose oggettive.
L’errore soggettivo sta semplicemente nel non aver capito
analiticamente e fino in fondo questa realtà oggettiva. Un errore
madornale. Secondo me imperdonabile.
Rifondazione ha propugnato per anni giuste posizioni. Non ha mai
disertato una sola lotta, spesso in solitudine. Ha visto e denunciato la
degenerazione sindacale della “concertazione”. Ha visto giusto
sull’Europa dei trattati neoliberisti. Ha capito e propugnato la
necessità di conquistare una dimensione internazionale della lotta e
dell’alternativa.
Ma essendo un partito politico principalmente dedito alla conquista
del consenso elettorale, ed obbligato a giocare la partita sul campo
truccato ed ostile del maggioritario, alla fine, con il tempo, è stato
plasmato e trasformato dal sistema della politica della seconda
repubblica.
Non è la stessa cosa promuovere e partecipare alle lotte, presentarsi
alle elezioni per veicolarne gli obiettivi nelle istituzioni
raggiungendo risultati concreti anche attraverso mediazioni e
compromessi, o finire con l’agitare contenuti di lotta, partecipare ad
un gioco di alleanze e contrapposizioni, ad una pseudo discussione
spettacolarizzata sui mass media, senza mai raggiungere un risultato
concreto per la propria base sociale ed elettorale.
In altre parole, dentro il bipolarismo in alleanza con il
centrosinistra o in contrapposizione ad esso non c’era spazio per la
conquista di alcun risultato serio e concreto. Ma non a causa di
opportunismo o di settarismo, bensì per il semplice motivo che il
sistema politico, istituzionale, massmediatico ed elettorale erano
totalmente impermeabili a qualsiasi rivendicazione seriamente
antagonista.
Oggi la situazione è diversa, come vedremo più avanti.
Perché è lo stesso sistema politico bipolare ad essere in crisi. E
perché la crisi economica e i suoi effetti permettono di pensare di
conquistare maggioranze elettorali contro centrodestra e centrosinistra,
e nonostante le leggi maggioritarie. Come dimostra l’esperienza greca.
Ma negli anni 90 e 2000 senza questa consapevolezza ad ogni
appuntamento elettorale le scelte, invece che meramente tattiche,
apparivano come strategiche ed investivano la stessa “identità” del
partito.
Non mancava un certo grado di consapevolezza di questa realtà ostile. Tuttavia non se ne sono mai tratte le conseguenze.
Come abbiamo visto nella prima repubblica per i comunisti era
possibile accumulare forza sociale, tradurla in forza elettorale, in un
partito di massa. Nella seconda si poteva, sulla base della denuncia
delle ingiustizie sempre più gravi, conquistare un qualche consenso
allusivo di una possibile resistenza. Ma poi quel consenso veniva
macinato e digerito nella dialettica del maggioritario che espungeva i
contenuti sociali e di lotta e riduceva tutto a scontro fra leader e a
interessi elettorali di bottega.
Nella prima repubblica si poteva costruire un partito comunista di
massa, nella seconda era impossibile. Non si poteva, cioè, accumulare
consenso perché, a causa dei mancati risultati e soprattutto della
spettacolarizzazione del dibattito politico, questo era destinato ad
essere volatile. Analogamente dentro il partito ad ogni scelta di una
certa importanza di manifestava una divisione su posizioni
inconciliabili. Governismo ed “alleantismo” contro settarismo e
“testimonianza”. Esattamente secondo il copione previsto dal sistema per
una forza antagonista. E il dibattito interno invece che crescere
nell’analisi della fase, e quindi nella consapevolezza di avere a che
fare con un problema strategico e di lungo periodo, virava sempre più in
scontri e divisioni astratte nelle cui fazioni si potevano comodamente
annidare opportunismi e personalismi di ogni tipo.
Si possono scrivere interi saggi su Rifondazione e più in generale
sulla sinistra in Italia. Ma senza centrare il necessario rapporto di
una forza antagonista con l’andamento reale dei rapporti di forza
sociali, con la cultura egemone e con la natura impermeabile delle
istituzioni e del sistema elettorale si finirà sempre con lo scambiare
gli effetti per le cause. Aumentando illusioni, confusione e divisioni.
La lezione e il che fare.
Se è vero quanto detto finora, bisogna sapere che è necessario
ricostruire rapporti di forza sociali favorevoli per poter pensare di
essere anche minimamente efficaci sul piano politico -elettorale. Solo
un progetto complessivo e strategico può farlo. Complessivo perché
fondato su un’analisi della crisi capitalistica, sui suoi effetti
sociali e culturali, e strategico perché teso a costruire un blocco
sociale capace di imboccare la fuoriuscita a sinistra dalla crisi e di
ottenere il consenso sufficiente a farlo nonostante il sistema
elettorale vigente. Senza il progetto non esiste nessuna scorciatoia
elettoralistica capace di capovolgere i rapporti di classe e tantomeno
di sconfiggere il pensiero dominante ed egemone.
Oggi è possibile, perché ci sono due novità importantissime.
La prima sta nel fatto che la crisi capitalistica attuale, di lunga
durata e tesa a precipitare in nuove e più vaste e profonde crisi, è un
terreno di scontro che, seppur drammaticamente, fornisce alle posizioni
critiche del capitalismo nuove opportunità.
L’altra novità sta nel fatto che il sistema politico si è talmente
separato dalle dinamiche sociali che nel tempo della crisi sconta una
totale impopolarità, ancorché segnata da una grande confusione. E non
bisogna sottovalutare le derive autoritarie che dall’alto (uomo unico al
comando) possono riuscire a connettersi all’insofferenza del popolo
verso la politica.
È sul combinato disposto di queste due novità che è necessario riflettere bene per trovare la strada giusta.
Vediamole, quindi, più approfonditamente.
La crisi, che a dimostrazione della correttezza delle nostre analisi
fin dagli anni 90, era più che prevedibile nel contesto del neoliberismo
imperante in Europa, non lascia nulla immutato.
Ormai Rifondazione ha prodotto una messe di analisi serie sulla
natura strutturale e “costituente” della crisi capitalistica in Europa.
Non c’è bisogno di tornarci in questa sede.
Ma su un punto della prassi (nel senso gramsciano del termine) è necessario un salto di qualità.
Nella società vi sono lotte difensive e di resistenza. Non sono
nemmeno poche. Ma non abbiamo lotte che si propongano obiettivi avanzati
e nuove conquiste (o riconquiste). Non solo non esiste un coordinamento
efficace delle lotte esistenti, ma soprattutto non esiste nessun
progetto o programma generale ed unificante che permetta loro di poter
esistere al di fuori della sconfitta della loro vertenza specifica,
locale o particolare. Eppure il sistema è per sua natura impossibilitato
a redistribuire la ricchezza e a rinunciare alla speculazione e alla
crescente privatizzazione di tutto ciò che rimane di pubblico. A
cominciare dai cosiddetti beni comuni.
Ne deriva che non può esserci lotta di resistenza e/o difensiva che
possa strappare risultati efficaci delegando “qualcuno” a mediare od
ottenere cose anche parziali nell’ambito delle compatibilità del
sistema. Compatibilità strutturali dovute alla natura del capitale e
ormai consacrate, cristallizzate in leggi e perfino costituzionalizzate.
Chi pensa sia necessario lottare contro il capitalismo deve (ripeto:
DEVE!) principalmente porsi il problema di come far nascere, far
sviluppare e crescere, unificare dentro una prospettiva di largo
respiro, le lotte e tutte le forme di ricostruzione di aggregazione
sociale.
Non deve (ripeto: NON DEVE!) principalmente porsi il problema di come
conquistare il consenso elettorale agitando contenuti di lotta in modo
propagandistico per farli pesare in relazioni politiche dentro le
istituzioni nella speranza che prima o poi, con una mossa o un’altra,
con questa o quella alleanza, si possa invertire la tendenza.
Non deve (ripeto: NON DEVE!) illudersi che basti rivendicare un
passato glorioso e/o fare l’apologia delle lotte, predicare la
rivoluzione e la coscienza di classe e testimoniare con una lista
elettorale il proprio grado di purezza, nella speranza che prima o poi
arrivino i risultati sperati socialmente ed elettoralmente.
Il problema è molto complesso. Non ha soluzioni semplicistiche. Ma
c’è un bandolo della matassa da individuare e tirando il quale si può
sperare di dipanarla. È la pratica sociale. Il “radicamento” è un
concetto ambiguo che si presta a gravi equivoci. In realtà dovrebbe
essere la conseguenza diretta della pratica sociale. Ma se è invece
inteso come “parlare dei veri problemi sociali” e/o interloquire,
dall’interno della sfera politica dei partiti con comitati e movimenti
di lotta, è in realtà impossibile radicarsi veramente. Per il semplice
motivo che questo tipo di relazione incorpora e riproduce la separatezza
della sfera della politica – istituzionale da quella della realtà
sociale. Ed essendo la politica istituzionale impermeabile alle
dinamiche sociali i movimenti di lotta percepiranno, se va bene, come
puramente strumentali, al fine della conquista di voti elettorali, i
tentativi di interlocuzione e adesione ai loro contenuti. O, se va male,
continueranno, non avendo coscienza dell’impermeabilità strutturale del
sistema alle loro rivendicazioni, ad orientarsi verso illusioni e
speranze mal riposte in personaggi vari e schieramenti candidati al
governo.
Al di la di questa descrizione astratta è quel che si può verificare
ogni giorno parlando con persone che si considerano di sinistra, che
partecipano attivamente a lotte, ma che credono all’alternatività di
Grillo, di Vendola, e perfino di Renzi. E che, non vedendo
l’impermeabilità del sistema ai contenuti sociali credono che il
problema risieda nella forma partito o nella bontà o meno del leader di
turno.
Insomma, un partito comunista che sia degno di questo nome si
organizza ed opera in qualsiasi contesto. Un partito di classe, che
pensa prevalentemente all’organizzazione sociale e alla lotta, a seconda
delle circostanze può resistere in clandestinità sotto il fascismo per
20 o 40 anni, può sfruttare qualsiasi spazio di una qualsiasi democrazia
borghese, può fare mille alleanze diverse o trovarsi isolato in
contesti particolarmente ostili. Deve avere la duttilità sufficiente per
adeguare la propria forma ed organizzazione, il proprio dibattito e
democrazia interna, alla realtà nella quale opera. E deve quindi
prestare una speciale attenzione all’analisi della realtà, e non
liquidarla con semplificazioni vergognose. Tantomeno può assumere come
immutabili le forme della propria organizzazione e quelle della
relazione con lo stato e le eventuali elezioni, per poi analizzare e
descrivere la realtà in modo che questa coincida con esse.
Se la classe “per sé” di marxiana memoria non c’è bisogna costruirla.
E per farlo bisogna essere immersi fino in fondo nella realtà sociale.
Punto.
Se il sistema è impermeabile il circolo virtuoso alla base del
partito comunista di massa non si può riprodurre né con una propensione
“alleantista” né con una “testimoniale”. Punto.
Le contraddizioni prodotte dalla fase capitalistica attuale sono
enormi. Se nelle lotte si affermano idee e posizioni subalterne che
confondono effetti con cause e confondono amici con nemici, la
situazione peggiorerà sempre più. Nessun dio ci salverà. Ulteriori ed
inediti peggioramenti della condizione di vita delle masse, come
crescenti autoritarismi e criminalizzazione dell’opposizione residuale
saranno inevitabili. Ma per poter evitare questa deriva è necessario
dedicarsi incessantemente e prevalentemente al lavoro sociale. Punto.
Dentro il lavoro sociale diffuso ed articolato è indispensabile
svolgere una funzione egemonica. Ma la funzione egemonica consiste nel
lavoro paziente affinché vi sia la conquista da parte delle masse e
delle lotte della coscienza necessaria a svolgere esse stesse una
funzione egemonica nella società. Unificando fronti di lotta, elaborando
programmi di lotte e rivendicazioni e strutturando una prospettiva di
lungo periodo. Non certo illudendosi che sventolando bandiere di partito
nelle manifestazioni, distribuendo materiali, redigendo interrogazioni o
mozioni nelle istituzioni, utilizzando qualche scampolo di spazio nei
mass media, si possa sostituire la indispensabile partecipazione diretta
alle lotte e ad ogni forma di aggregazione sociale. Punto.
Ne deriva che il partito deve organizzarsi, strutturarsi, formare
militanti e selezionare gruppi dirigenti, per ottemperare a questo
compito. Al compito di fare la lotta di classe sul terreno sociale come
principale attività. Al compito di costruire aggregazioni sociali di
ogni tipo contrastando così materialmente la disgregazione sociale
prodotta dal sistema. Al compito di svolgere una lotta ideologica e
culturale incessante allo scopo di contrastare il pensiero dominante e
di minarne l’egemonia.
Come abbiamo già detto, oggi nella crisi che mette a nudo le
contraddizioni prodotte da questa fase capitalistica, e in un momento
nel quale le condizioni per l’insorgenza di conflitti sono di fatto
favorevoli, questo lavoro può essere molto efficace e produrre grandi
risultati, nonostante l’esiguità delle forze del partito.
È un lavoro di lunga lena, che avrà fiammate e arretramenti, ma è un
lavoro che può accumulare forze consistenti. A patto che, lo ripeto, sia
vissuto ed assunto come il compito principale del partito, come il suo
modo di essere, come la fonte qualificante della sua stessa identità
anticapitalista e comunista. Perché altrimenti, se finalizzato e
subordinato ad obiettivi elettorali, finirà inevitabilmente per essere
frustrato dall’oggettiva impossibilità di tradurlo in consensi crescenti
immediati.
Non sta a me, in questa sede, fare proposte concrete di riforma del partito.
Però è evidente che se la maggioranza dei militanti e dei gruppi
dirigenti non si armano della consapevolezza necessaria sulla primazia
della battaglia sociale e culturale, rispetto a quella della sfera più
propriamente politica ed elettorale (sulla quale torneremo a breve), non
c’è proposta di riforma del partito che possa funzionare.
In particolare vi sono due cose da rimuovere per poter anche solo
sperare di trasformare il partito in un collettivo dedito alla lotta di
classe.
La prima è l’arretramento culturale complessivo di cui è vittima.
Se militanti e perfino dirigenti leggono la realtà secondo le
semplificazioni dei luoghi comuni, infondati ma suggestivi, prodotti dal
sistema, non c’è speranza.
Se militanti e dirigenti confondono la discussione teorica, la
ricerca culturale, per loro natura vivaci e dense di polemiche, ma che
richiedono serietà, studio e capacità di ascolto delle regioni altrui,
con il chiacchiericcio superficiale dei social network, con gli insulti e
le grida, con le affermazioni iperboliche, con le battute, non c’è
speranza.
La seconda è la divisione in correnti. Che non ha nulla a che vedere
con il pluralismo culturale, che invece è umiliato e ristretto proprio
dalle correnti.
Su questo punto è necessario un minimo approfondimento.
Le correnti si sono formate con il tempo, composte e ricomposte più
volte, sempre a partire dalle scelte e dagli esiti delle scelte
elettorali e di alleanze o meno in schieramenti. Questo frutto velenoso
di una malintesa primazia della politica istituzionale, che mi sono
sforzato di criticare in questo scritto, ha perfino travolto un
principio basilare e fondamentale di un partito comunista. La sua
autodisciplina.
Per quanto questo termine possa far arricciare il naso a molti, esso è
un concetto consustanziale alla natura di classe del partito. La classe
necessita di forza, di unità e di coesione per resistere alle avversità
e per battere i suoi avversari, immensamente più forti e potenti di
lei. Un partito che voglia essere di classe non sfugge a questa regola.
La libertà di opinione e di ricerca arricchiscono il collettivo solo se
partecipano alla costruzione di analisi, posizioni e decisioni capaci
incidere nella realtà con l’azione. E per fare quest’ultima cosa, che
differenzia un partito politico da un’associazione culturale, è
necessario che quanto deciso democraticamente possa realizzarsi. Quanto
più partecipato è il processo di discussione e di decisione tanto più
forte sarà il vincolo ad applicare ciò che si è stabilito. Alla fine di
un processo di discussione e decisione è fisiologico che esista un
dissenso. Che non va nascosto né minimizzato. Che può essere reso
pubblico e mantenuto. Fermo restando che è solo il dissenziente a
decidere se renderlo pubblico e mantenerlo, e seconda della rilevanza
che egli stesso gli attribuisce. Ma c’è un limite: in nessun modo il
dissenso può tradursi in opposizione e in azione volta ad impedire che
si realizzi quanto deciso dalla maggioranza del collettivo.
Questo limite è stato superato, soprattutto nei gruppi eletti nelle
istituzioni, innumerevoli volte nella storia di Rifondazione. E lo è
tutt’ora continuamente. Il superamento di questo limite produce
scissioni, divisioni irreparabili e in ogni caso un indebolimento del
partito.
Tutto ciò è un riflesso diretto esattamente della concezione secondo
la quale è nelle elezioni ed istituzioni che si trova il vertice di
tutto.
Infatti, gratta gratta e al netto di roboanti proclami ideologici, le
correnti di Rifondazione tutte, compresa la maggioranza, sono diventate
partiti nel partito. Gli organismi dirigenti “parlamentini” con una
dialettica governo – opposizione. Con l’effetto, risibile e paradossale,
ma non per questo meno grave, che le correnti di minoranza nel mentre
proponevano che non esistesse nessun vincolo di mandato nemmeno nelle
istituzioni, al loro interno praticavano una ferrea disciplina. E con
l’effetto che la discussione invece che un approfondimento, e la ricerca
di una sintesi, diventa una schermaglia strumentale fra posizioni
preconfezionate nelle riunioni di corrente, che in quanto discusse e
approvate, dopo aver trovato una sintesi in quella sede, diventano
pressoché immodificabili. Il tutto con il corollario di ostruzionismi,
giochi sul numero legale, furbizie tattiche, demagogie di ogni tipo. Per
non parlare della qualità degli eletti negli organismi decisi dalle
correnti, spesso sulla base della fedeltà invece che delle capacità.
Va da se che una simile strutturazione produce una dialettica opposta
alla valorizzazione di culture diverse che, infatti, essendo usate
strumentalmente per giustificare e spiegare scelte eminentemente
politiche, vengono ridotte a caricature.
Le istituzioni e le elezioni
I rapporti sociali sfavorevoli sono stati la base oggettiva delle
“riforme” del sistema elettorale ed istituzionale in senso
presidenzialista e maggioritario. Quelle riforme incorporano il segno di
classe della vittoria capitalistica di lungo periodo e ne blindano gli
effetti a livello politico.
È inutile, in questo scritto, tornare a descrivere gli effetti
perversi prodotti dal nuovo sistema su una forza antagonista come
Rifondazione.
Ma una cosa deve essere chiara.
La dimensione elettorale e politico-istituzionale è importante. Lo è ancor di più in una fase di sconfitta sociale.
Il sistema ha chiuso gli spazi della rappresentanza di classe in
quanto essa, anche quando conquista seggi nelle istituzioni, è impedita
ad ottenere risultati concreti, o perché interna ad uno schieramento che
accetta le compatibilità del sistema o perché isolata e ridotta a
testimonianza.
Di fronte a questa realtà, secondo me inconfutabile, due cose non si possono fare.
La prima è essere indifferenti alla dimensione politico istituzionale
nell’illusione che le lotte sociali alla lunga produrranno le
condizioni per un rovesciamento del sistema.
La seconda è, come abbiamo già detto abbondantemente, partecipare
alle elezioni nell’illusione che, nonostante l’impermeabilità del
sistema, si possano modificare a partire dalla sede istituzionale i
rapporti di forza sociali.
Entrambe queste posizioni sottovalutano il segno di classe del
sistema politico elettorale e soprattutto sfuggono al problema del
potere, o rimandandolo nel tempo all’infinito o separandolo dai rapporti
di forza sociali.
Il sistema è a suo modo coerente con una realtà sociale segnata dal
dominio del mercato capitalistico e con il senso comune di massa.
Non è né puro dominio politico né abbastanza neutro da essere permeabile.
Ciò riconduce alla centralità del sociale. Ma il lavoro sociale, le
lotte (per dirlo in forma generica), necessitano di intervenire nella
sfera del potere politico. Solo in questo modo possono costruirsi una
coscienza, un’unità e una capacità di durare nel tempo. Altrimenti
restano episodiche e separate fra loro. O, peggio ancora, non ponendosi
il problema politico per eccellenza, che è il potere, finiscono con
l’essere riassorbite dal sistema, che le usa strumentalmente dentro la
falsa dialettica del maggioritario.
Qui vale la pena di fare alcuni esempi concreti.
La Fiom, credo si possa dire così, è l’unica organizzazione realmente
di massa che ha mantenuto un qualche collegamento con l’ispirazione di
classe del sindacato. Non c’è bisogno di elencare le lotte e le
posizioni della Fiom che lo testimoniano.
Ma che succede quando la Fiom incontra il problema della politica, e cioè del potere?
Diventa testimoniale perché non riesce mai ad ottenere niente
attraverso, anche quando le ha, persone e perfino forze politiche
presenti nelle istituzioni che ne sposano, a parole e solo a parole, i
contenuti. O diventa subalterna perché si limita a chiedere che “la
politica”, segnatamente il centrosinistra perché è l’unico che potrebbe
farlo dal governo, tenga conto delle sue rivendicazioni e contenuti.
Peccato che il centrosinistra non può farlo perché quei contenuti sono
antagonisti rispetto alle compatibilità del sistema.
Il movimento per i beni pubblici, tanto forte ed articolato nel paese
da aver promosso e vinto un referendum sull’acqua e i servizi pubblici,
quando sono arrivate le elezioni è stato riassorbito dal
centrosinistra, che nella carta d’intenti delle primarie, fatta firmare a
tutti i partecipanti, proponeva l’esatto opposto degli esiti del
referendum, e dal Movimento 5 Stelle che, sebbene ne abbia
propagandisticamente sposato i contenuti, li rende testimoniali e
comunque irrealizzabili in quanto privo di un progetto politico
anticapitalista e che non sia interno alla concezione liberale del
potere politico.
In Italia perfino i movimenti per i diritti civili, come il movimento
GLBT, per quanto socialmente ci siano tutte le condizioni per la
conquista di risultati legislativi, quando arrivano le elezioni viene
riassorbito in un sistema elettorale che ha partorito partiti e
schieramenti di governo de ideologizzati, e quindi tutti contenenti sia
laici che cattolici integralisti. Mentre nella prima repubblica
parlamentare, 44 anni fa con il proporzionale, i partiti operai e quelli
borghesi laici potevano, con la DC al governo, conquistare il divorzio
per legge, nella seconda repubblica del maggioritario, con il
centrosinistra al governo non si è conquistato nemmeno il divorzio breve
o la fecondazione assistita.
Affinché le lotte non rimangano del tutto prive di una rappresentanza
politica veramente coerente con i loro interessi ed obiettivi, e/o non
vengano riassorbite in una dialettica fra forze e schieramenti che le
usano negandone i contenuti, è necessario che prendano coscienza
dell’impermeabilità del sistema, e che partecipino direttamente alla
costruzione di una forza unitaria alternativa a quelle interne alla
logica del maggioritario. Devono cioè avere, oltre a contenuti di lotta e
rivendicazioni, una idea precisa di come farli pesare realmente. Devono
quindi saper criticare la sostanza separata e tendenzialmente
autoritaria del sistema, e non gli effetti (come la “casta”)
confondendoli con le cause.
Il centrosinistra, o il PD stesso (non fa nessuna differenza), sono
nati e si sono plasmati per effetto del maggioritario. Il maggioritario
ha tradotto la vittoria capitalistica sociale in assetti istituzionali
coerenti ed utili al dominio del mercato e in una concezione della
politica come dimensione separata dalla società, i cui problemi sono
usati strumentalmente al fine della raccolta di consensi. Per questo il
centrosinistra può aspirare solo a conquistare il governo per gestire
l’esistente dentro le compatibilità del mercato e del sistema.
Questo è un fatto strutturale, oggettivo. Che non si può
controvertere sperando in un leader diverso, o insultando e criticando
quelli esistenti al momento, o sognando magici processi partecipativi
(come le primarie nelle quali Vendola si proponeva di conquistare la
direzione del centrosinistra) fondati sulla passivizzazione e riduzione a
tifoserie degli elettori.
Per quanto duro e scoraggiante possa apparire il constatare questo
dato di fatto senza questa consapevolezza non si va da nessuna parte.
Anzi, a dire il vero si va dritti verso illusioni infondate, delusioni
ed immancabili divisioni fra “realisti” e “settari”, fra “governisti” e
“testimoni”. Come è sempre successo in Rifondazione e in tutte le
formazioni a sinistra del PDS e poi del PD. Questa consapevolezza è
l’unico antidoto possibile alla replica infinita di divisioni
insanabili. Si può abbandonare il comunismo, si può tentare di apparire
nuovi e moderni, si può tentare di sostituire la faticosa partecipazione
democratica con le folle inneggianti al leader e con le primarie
all’americana, ma alla fine ci si divide sempre fra quelli che rompono e
vanno con il PD, facendo salti mortali per giustificare la scelta ed
accusando gli altri di aver imboccato una strada testimoniale, e gli
altri che li accusano di essere venduti e carrieristi, salvo poi sperare
che succeda qualcosa nel centrosinistra che permetta di ricominciare da
capo il valzer. È quello che è successo recentemente a SEL.
Ma, e c’è un ma, la crisi sociale è talmente profonda che, per quante
suggestioni e nuovismi e demagogie il sistema metta in campo, un
profondo sentimento di rabbia e frustrazione si è fatto strada nella
popolazione.
Attualmente è visibile un pallido riflesso delle contraddizioni di
classe. Nel rifiuto della disperante condizione di disoccupazione,
precarietà e povertà. Nella insofferenza verso una ricchezza sempre più
concentrata e prepotente.
Ma si tratta solo di un riflesso, perché mancando la coscienza di
classe imperano spiegazioni superficiali ed anche fantasiose delle
contraddizioni materiali che pur si vivono e si vedono.
Se non c’è l’analisi e quindi la coscienza della natura del
capitalismo contemporaneo e della struttura sociale che produce, anche
qui si possono tranquillamente scambiare cause con effetti. Privilegi
ingiustificati della “casta” di politici e manager, corruzione,
degenerazione dei partiti in camarille clienterali, leaderismo esaperato
e così via, sono effetti. Certo consolidano e perpetuano il sistema e
sono problemi importanti. Ma restano effetti. Bisogna criticarli e
combatterli. Ma se non si sa che sono effetti alla fine, dopo aver
giustamente “ridotto i costi della politica”, anche se con questa scusa
in buona parte si riducono spazi democratici, i problemi sociali non
cambiano di una virgola o addirittura peggiorano, cosa succede?
Dopo aver cambiato i leader e il personale politico sostituendolo con
i “giovani” senza aver risolto nessun problema sociale, cosa succede?
Sono domande retoriche per chi ha coscienza della vera causa dei
problemi. Ma sono domande aperte a risposte molto pericolose per chi non
ha questa consapevolezza. E cioè per la maggior parte della
popolazione.
Il successo del Movimento 5 Stelle porta già questo segno.
Sebbene contenga ed esprima in modo elementare rabbia e rifiuto
dell’esistente, e su diversi temi proponga cose giuste e su altri cose
ultraliberiste e perfino gravemente ambigue (vedi il tema
dell’immigrazione), è un fenomeno incapace di costruire un’alternativa
di sistema. Esattamente perché è espressione diretta di un sentimento
diffuso di quella impotenza e rabbia provocate dalle contraddizioni
sociali, ma indirizzate contro falsi obiettivi. E perché incorpora la
concezione della società propria del pensiero dominante, e cioè basata
sulla dialettica degli individui – cittadini – consumatori contro la
casta dei politici – manager. Con forti venature autoritarie e con
ammiccamenti vari al nazionalismo più becero e alle discriminazioni
contro i lavoratori stranieri.
Se tutto questo è vero, nella sfera della politica istituzionale, in
questa e non in altre inesistenti, è necessario agire con una
grandissima capacità tattica ed anche con molto coraggio.
Si può coagulare, sfruttando a pieno gli spazi elettorali possibili,
una lista, un fronte, una forza politica che, sulla base di poche ma
chiarissime discriminanti, unisca tutto ciò che esiste di antagonista al
sistema, anche senza sapere di esserlo fino in fondo. Alternatività al
centrosinistra ma anche al sistema elettorale e politico istituzionale
vigente. Alternatività alle politiche neoliberiste imperanti e a tutte
le scelte conseguenti. Alternatività all’Europa liberista e ai
nazionalismi regressivi. Alternatività alla politica – spettacolo, al
leaderismo e alla passivizzazione.
Sulla base di queste discriminanti si può costruire un programma di
fase che unifichi le lotte, che incontri la rabbia e la protesta
diffuse, che trovi una dimensione europea appropriata, che faccia
chiarezza della vera causa dei problemi.
Sulla base di queste discriminanti si può costruire un’organizzazione
plurale, perché plurali e svariate sono le culture e le forme di un
vasto campo di forze politiche, sindacali, sociali, ed anche di
centinaia di migliaia di persone. Una forza nella quale valga la
democrazia diretta sulla base di una testa un voto.
Questa forza, oggi, nella crisi economica e nella crisi di
credibilità del sistema politico può aspirare ad allargarsi velocemente e
perfino a conquistare la maggioranza.
Non mi dilungo su questo perché l’idea che Rifondazione ha dell’unità
della sinistra e delle sue potenzialità dovrebbe ormai essere chiara.
Ma perché è così difficile da realizzarsi?
È prevalentemente questione di gruppi dirigenti? Di formule organizzative? Di gelosie di partito? Di comunicazione?
Io credo di no.
È questione di consapevolezza della separazione dalla società e dell’impermeabilità del sistema politico istituzionale.
Non solo nelle forze politiche come Sel, il Pcdi ed altre ancora, ma
anche nel sindacato più combattivo, compresi sindacati di base, e nei
movimenti di lotta, questa consapevolezza c’è poco o non c’è per nulla.
Questa è la causa principale della difficoltà ad unire in un’unica
forza tutto ciò che sulla base dei contenuti di lotta ed ideali potrebbe
essere unito facilmente.
Mentre le contromisure utili ad impedire una degenerazione in casta
separata dei gruppi dirigenti e segnatamente delle rappresentanze
istituzionali sono facilmente individuabili, a cominciare da una
effettiva democrazia partecipativa fondata sul collettivo e sul
principio una testa un voto, senza la consapevolezza di cui sopra tutto
ciò che si fa uscire dalla porta è destinato a rientrare dalla finestra
alla prima scadenza elettorale o scelta parlamentare decisiva.
Bisogna dunque condurre una battaglia culturale e politica capace di
far crescere nel tempo, con pazienza ma anche con fermezza, la
consapevolezza necessaria.
Senza nessuna presunzione io credo che questo compito possa essere
svolto solo da un collettivo cosciente, radicato e coeso. È questo il
compito di un partito comunista.
Onestamente il Partito della Rifondazione Comunista non è oggi all’altezza di questo compito.
Ma se si sciogliesse dentro la nuova forza invece che contribuire a
farla crescere e ad assumere coscienza della natura di classe delle
contraddizioni finirebbe per rafforzarne una deriva che la porterebbe
all’inconsistenza e soprattutto a divisioni ancor più drammatiche.
Oltre alla necessità ineludibile di una forza dotata di una
prospettiva che va bel al di la dell’attuale fase, non fosse altro che
per il bene dell’unità del campo di forze politiche e sociali
antagoniste non ci deve essere nessuna abdicazione né scioglimento.
Rifondazione, anche grazie e a causa della propria esperienza più che
ventennale, è in grado di compiere i passi in avanti necessari a
svolgere una funzione di coagulo, come abbiamo visto importantissima.
Sia sul terreno dei movimenti di lotta sia sul terreno politico –
istituzionale.
Ma deve assolutamente superare le incertezze, le confusioni, le
approssimazioni superficiali. Soprattutto deve ricostruirsi in modo da
svolgere i compiti che le spettano in questo disegno strategico.
In quanto partito deve delegare alla nuova forza unitaria il compito
di elaborare un programma di fase, di darsi una organizzazione adeguata e
di presentarsi alle elezioni. Saranno i singoli militanti del partito
in quella sede, se lo sapranno fare, a svolgere una funzione egemonica.
Questo punto deve essere chiarissimo. Sia perché se il partito
dedicasse tempo e forze a discutere anticipatamente e prevalentemente
sui compiti e scelte della nuova forza finirebbe con il non svolgere i
propri e soprattutto finirebbe con il trasformare la nuova forza in un
cartello di partiti e correnti in lotta perenne fra loro. Una cosa è
discutere dell’andamento della costruzione unitaria e delle scelte che
essa deve fare una volta ogni tanto e producendo proposte e riflessioni
utili ai propri militanti come a quelli più numerosi della nuova forza,
ed un’altra è cercare di dirigere la nuova forza sulla base di filiere
organizzative.
Le opinioni di Rifondazione, nel territorio come a livello nazionale,
devono contare per la propria autorevolezza intrinseca e per il peso di
una pratica sociale ricca ed articolata, non per la quantità degli
iscritti di Rifondazione aderenti alla nuova forza.
Vale la pena di essere più chiari.
È evidente che quando la nuova forza si trovasse a compiere scelte
difficili, come per esempio partecipare o meno ad una coalizione in un
comune, è più che prevedibile che nascano opinioni diverse anche dentro
il partito. Ed in questo caso la vera funzione positiva ed egemonica non
starebbe nel compiere una scelta o un’altra bensì nel far capire che
comunque di scelta tattica e secondaria si tratta. Non meritevole di
divisioni insanabili e risolvibile, per esempio, con un referendum fra
gli iscritti, come fa Izquierda Unida in questi casi. E nel battersi
affinché gli eletti vengano scelti sulla base del loro radicamento nelle
lotte e non con il bilancino delle correnti o, peggio ancora, per
l’eventuale capacità di raccogliere consensi personali a scapito della
loro fedeltà a principi e contenuti. E nel vincolare i gruppi eletti a
comportamenti coerenti con l’antagonismo alla politica spettacolo e a
rispettare sempre il volere della base.
Il Partito della Rifondazione deve, se vuole sopravvivere e svolgere
una funzione che valorizzi l’intelligenza e i sacrifici delle e dei
propri militanti, essere capace di fare oggi il salto di qualità
necessario al nuovo compito che deve svolgere.
La pratica sociale nella lotta di classe e la battaglia culturale,
non le elezioni e la politica – spettacolo, devono essere le sue ragion
d’essere e costituire la sostanza dell’identità comunista.
Tutto il partito, ed ogni singola/o militante, devono cambiare pelle
superando le pigrizie intellettuali e le paure che impediscono di essere
comunisti in questi tempi così difficili.
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