La casa editrice Il Saggiatore ha ripubblicato da pochi mesi a questa parte, a vent’anni dalla prima pubblicazione in inglese, Il lungo XX Secolo, un
testo di Giovanni Arrighi, storico dell’economia e sociologo italiano.
Recentemente scomparso, Arrighi rappresenta una delle punte di diamante
di quella scuola di teorici del “sistema-mondo”(al pari di Immanuel
Wallerstein con cui ha collaborato in diverse occasioni), che affonda le
sue radici nelle riflessioni del grande storico francese Fernand
Braudel, appartenente a quella scuola strutturalista che tanta influenza
ha avuto in Francia ed in Europa degli anni ’60 e ’70.
Lo
scopo del testo di Arrighi è dare ragione della condizione di crisi
all’interno della quale si trovava il sistema-mondo all’altezza dei
primi anni ’90 e di leggerne le trasformazioni. La domanda di fondo è la
seguente: la conversione in termini finanziari dell’economia e
l’incrinatura dell’egemonia statunitense, lo scivolare nel caos del
mondo, sono fenomeni estemporanei e di assoluta originalità o possono
essere ricondotti a processi storici di più lungo periodo? Non si tratta
semplicemente, per Arrighi, di tracciare la genesi della nostra
condizione presente. Si tratta anche di leggere il nostro momento
storico come coerente con una struttura determinata che è quella del
sistema-mondo capitalistico e di negarne conseguentemente l’assoluta
originalità.
Tentiamo di ricostruire
per capi sommari l’argomentazione di Arrighi. Per lo storico milanese la
storia del capitalismo è storia di cicli di accumulazione; ogni ciclo è
da intendersi come un periodo di tempo, più o meno lungo, nel corso del
quale una potenza (coincidente con una formazione economico politica in
generale identificabile con uno Stato o con una città-Stato) guida
l’accumulazione di ricchezza a livello mondiale, risultando essere il
centro economico e finanziario del sistema mondo; struttura il mondo
stesso in un centro ed in una periferia. Questi cicli hanno un inizio
che coincide con l’assurgere di una potenza al ruolo di guida
dell’accumulazione materiale di ricchezza. Ha quindi luogo un periodo di
crescita materiale della ricchezza mondiale e di allargamento del
sistema capitalistico; successivamente, a causa di questa medesima
crescita e dello sviluppo eccessivo della concorrenza, che diviene
talmente aspra da ridurre i tassi di profitto, si ha un periodo di
finanziarizzazione dell’economia mondiale. Infatti, gli investitori e i
detentori di capitale, in quanto capitalisti, spostano le loro risorse
dove più gli conviene: il trasferimento di capitale da ricchezza
materiale (industrie, filoni produttivi etc.) a ricchezza finanziaria è
dunque una costante dei cicli di accumulazione del sistema mondo
capitalistico, e non un originale processo in corso oggi per la prima
volta. Arrighi identifica quattro cicli di accumulazione: uno a guida
genovese, uno a guida olandese, uno a guida britannica e l’ultimo, a
guida statunitense, entrato ormai nella sua fase terminale. In effetti,
la vera questione politica al fondo del lavoro di Arrighi è
spiegare la crisi dell’egemonia statunitense che allora si stava (e si
sta ancora, in parte) vivendo e provare a leggerne le possibili
soluzioni.
Il concetto di crisi è al
centro del testo di Arrighi. Il riferimento, da questo punto di vista, è
da ricercarsi sostanzialmente nel pensiero di Marx al riguardo. Marx
attribuisce al concetto di crisi un significato diverso rispetto a
quello che datogli dal senso comune. Se è vero che la crisi consiste nel
manifestarsi delle contraddizioni del capitale, ed è sempre il momento
di debolezza del sistema capitalistico, in quanto la sua forma
contraddittoria ed irrazionale si mostra alla luce con la massima
chiarezza anche nella devastazione delle condizioni di vita e di
riproduzione, è anche vero che la crisi, per Marx, lungi dall’essere il
luogo di distruzione del modo di produzione capitalistico, è al
contrario il luogo della sua ricostituzione. Nella crisi, per Marx, il
capitale opera la sua ricostituzione e si organizza per un nuovo ciclo
di accumulazione. Così per Arrighi. I cicli di accumulazione terminano
sempre con delle crisi, nel corso delle quali si struttura una nuova
potenza egemonica che si affianca alla vecchia; al termine di questa
crisi ha luogo una sostituzione di potenze e l’inizio di un nuovo ciclo
di accumulazione.
Per Arrighi, e
questa è una posizione che anche Immanuel Wallerstein condivideva negli
anni’ 90, la potenza egemonica che avrebbe dovuto succedere agli USA era
il Giappone. Buona parte del libro tratta dell’emergenza di questa
nuova potenza sotto l’ala degli USA e del suo successivo emanciparsi
fino a porsi come nuova potenza egemone. Ovviamente Arrighi ha cambiato
idea già a partire dai tardi anni ’90 ed ha indirizzato le sue indagini,
fino alla morte (2009), sulla Cina. E’ interessante notare una
distinzione tra Arrighi ed altri studiosi. La maggioranza degli storici e
degli esperti di geopolitica internazionale sostengono l’inesistenza di
una potenza egemone e l’impossibilità nei prossimi anni di una presa
del potere da parte di un solo Stato o comunque di una sola entità
politica. Il mondo, dicono, sarà policentrico, e vedremo emergere un
insieme di potenze regionali. Per Arrighi invece è la struttura stessa
del sistema-mondo capitalistico che richiede una potenza egemone. Niente
potenza egemone, niente capitalismo. Perchè? Per Arrighi, allievo di
Marx e di Braudel, il tema della concorrenza come cuore del capitalismo è
un tema essenzialmente fuorviante, nel senso che pensare il capitalismo
come economia di mercato vuol dire non comprendere che cos’è il
capitalismo. Il capitalismo non è mai economia di mercato e non può per
definizione essere un sistema concorrenziale; esso nasce nell’economia
di mercato ma necessariamente vi si solleva sopra, per così dire. Questo
perché il suo scopo non è il mantenimento del libero mercato ma
l’accumulazione di ricchezza. Accumulazione che, dati alla mano, Arrighi
dimostra essere incompatibile con momenti storico-politici in cui la
concorrenza si fa troppo forte. In sintesi: più concorrenza, meno
profitto; meno profitto, più finanza e crisi del ciclo di accumulazione.
Dunque, serve una potenza egemone che garantisca il profitto e
l’impiego redditizio di capitale: così è sempre stato, in effetti.
Vorrei soffermarmi sulla questione filosofico-politica che si pone, penso, a chiunque legga questo testo da un punto di vista politico,
cioè chiedendosi, essenzialmente: “Che fare?” Si tratta di un punto
fondamentale. Si ha l’impressione, leggendo questo testo, di un certo
meccanicismo del processo per come viene inteso; non sono chiare le
alternative presentatesi nel corso del percorso descritto. In effetti
una lettura superficiale del testo e una non conoscenza dell’autore
potrebbero portare, ed in effetti hanno portato a pensare questo libro
come un’opera sostanzialmente immobilista da un punto di vista politico:
viene descritta una struttura immutabile che ritorna costantemente,
ciclo dopo ciclo, o di cui al massimo è possibile scorgere la fine
internamente al solo sviluppo economico-storico, per via di meccanismi
dati.
Non è così. Arrighi si è
probabilmente reso conto della confusione che alcuni passaggi del suo
testo potevano generare e nella posfazione scritta qualche mese prima
della morte, nel 2009, rivendica da un lato la necessità dell’azione
politica e collettiva per la trasformazione e l’indirizzamento dei
processi descritti nell’opera, dall’altro sostiene che esiste
un’oggettiva incidenza, riscontrabile storicamente, dell’azione dei
cosiddetti movimenti anti-sistemici. A questi stessi movimenti è
dedicata un’altra opera, scritta insieme a Wallerstein ed Hopkins. In
essa viene analizzata l’incidenza stessa di questi movimenti, ed il loro
ruolo storico nel periodo definito “moderno” è nettamente riconosciuto.
Sicuramente
Arrighi è più vicino a Braudel che a Wallerstein, da sempre più legato
al movimento radicale anti sistemico; il sociologo italiano tende ad
evidenziare costantemente il ruolo delle meccaniche relative al sistema e
mette a fuoco i processi per così dire oggettivi, legati alla struttura
del sistema preso in considerazione. Non c’è articolo di Wallerstein
dove non venga sottolineata, invece, la centralità dell’azione dei
soggetti al volgere delle crisi.
Da
questo punto di vista, pur con tutte le puntualizzazioni fatte sopra,
che servono a mostrare come la cifra determinista non faccia parte del
corredo concettuale di Arrighi, bisogna però sottolineare come il lavoro
del sociologo milanese sia, per così dire, poco italiano. La nostra
tradizione intellettuale appartenente alla teoria critica, basti pensare
a Gramsci o all’operaismo, è da sempre fortemente politica,
nel senso che sottolinea di continuo la necessità dell’azione per la
trasformazione dell’esistente ed ha sempre avuto un certo rigetto
istintivo nei confronti del determinismo. Questo a volte degenera, è
successo anche di recente, ad approcci quasi volontaristici (di un
gentilianesimo volgarizzato) alla questione politica. Lo stesso Tronti
di Operai e Capitale è stato più volte accusato di
gentilianesimo, in quanto ritenuto disinteressato all’oggettività dei
processi ma solo all’azione del soggetto operaio.
Questo
evidentemente non significa che non si possa fare una lettura politica
di questo testo, che anzi offre una molteplicità di spunti per tante
questioni: rapporto Stato-capitale, potere mondiale, crisi del
capitalismo, denaro, instabilità. In particolare, sia detto di
passaggio, mi pare che questo testo offra spunti interessanti di
dibattito sul ruolo svolto dallo Stato nella storia del capitalismo e
sulla conseguente impostazione politica dei movimenti anti-sistemici.
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