Il capitalismo ha un grande e tenace nemico, una malattia che produce
esso stesso incessantemente: l'abbondanza. Oggi l'abbondanza che lo
minaccia è, come sempre, quella delle merci, ma in una misura che non ha
precedenti. Ad essa, negli ultimi decenni, se ne è aggiunta un'altra,
assolutamente inedita, che coinvolge un vasto e crescente ambito di
servizi. Per alcuni beni la saturazione del mercato capitalistico è
visibile a occhio nudo ormai da tempo. I capi d'abbigliamento si
comprano ancora nei negozi, a prezzi che generano un certo profitto a
chi li produce e a chi li vende. Ma per il vestiario esiste un mercato
parallelo così esteso e abbondante che ormai sfiora la gratuità. Si può
dire che nelle nostre società più nessuno ormai, nemmeno il più misero
degli individui, ha il problema di vestirsi. Non dissimile fenomeno
possiamo osservare nell'ambito dei servizi più avanzati: l'accesso
all'informazione, alla cultura, all'arte, alla musica.
Certo, occorre almeno possedere un cellulare, pagare un contratto a un
gestore. Ma è evidente che siamo invasi anche qui - insieme, certo, al
ciarpame - da un'abbondanza di offerta, a prezzi decrescenti che tendono
a creare uno spazio di fruizione fuori mercato. Sappiamo che il
capitale anche da tali beni riesce a trarre ancora profitti, ma oggi è
sotto i nostri occhi uno scenario di abbondanza di servizi e beni
culturali, di umana emancipazione, potenziale e di fatto, che non ha
precedenti. Solo 50 anni fa tutto questo era lontano dalla nostra
immaginazione. Occorre sempre gettare un occhio al passato, per evitare
di scorgere nel presente solo un cumulo di sconfitte.
Com'è noto, il capitale combatte la caduta tendenziale del saggio di
profitto inventando nuovi beni e nuovi bisogni, dilatando il suo dominio
sulla natura per trasformare il vivente in merci brevettabili,
strappando al controllo pubblico servizi che un tempo erano dei comuni e
dello stato. Ma il capitale, aiutato da circostanze storiche
fortunatissime - la crisi e poi il crollo del blocco comunista, la
burocratizzazione dei partiti democratici di massa e dei sindacati, la
rivoluzione informatica - ha sventato la più grande minaccia da
abbondanza che gli sia parata dinnanzi nella sua storia: quella degli
ultimi decenni del XX secolo. Un oceano di beni stava per riversarsi nel
mercato dei Paesi avanzati, un sovrappiù di merci che avrebbe costretto
imprenditori e governi a innalzare i salari e soprattutto a ridurre
drasticamente l'orario di lavoro. Si sarebbe arrivati a quel passaggio
epocale previsto da Keynes nel saggio Possibilità economiche per i
nostri nipoti (1928-30), che, con la crescita della produttività a «a un
ritmo superiore all'1% annuo» avrebbe spinto le società industriali,
nel giro di un secolo, a istituire una durata del lavoro a 15 ore
settimanali.
In realtà, la crescita della produttività mondiale è stata superiore
alle stesse previsioni di Keynes, con risultati però opposti rispetto
alle sue aspettative. In un saggio prezioso per rilevanza documentaria e
nitore espositivo, Abbondanza, per tutti (Donzelli, 2014) Nicola
Costantino ha ricordato che il tasso di crescita annuo della
produttività a livello mondiale, nel corso del XX secolo, ha oscillato
tra il 2 e il 3%. Negli Usa, tra il 1950 e il 2000 è stato in media, del
2,5%, in Francia, nel solo settore industriale, tra il 1978 e il 1998,
del 3,7%. Il che ha significato che la produttività oraria del singolo
lavoratore, a un tasso di crescita del 2% annuo, è aumentata di ben 7
volte, molto di più delle 2,7 volte ipotizzate da Keynes e su cui egli
fondava la previsione delle 15 ore settimanali.
Ma la giornata lavorativa non è stata accorciata, se non in Francia, in
maniera contrastata e oggi rimessa in discussione. Ovunque, specie negli
ultimi anni, la durata del lavoro quotidiano è cresciuta a dismisura.
Negli USA, già prima della crisi era diventato generale il fenomeno del
workaholic, l'alcolismo del lavoro, mentre oggi sempre di più gli
americani lamentano la mancanza di tempo, il time squeeze, time
pressure, time poverty (S.Bartolini, Manifesto per la felicità,
Donzelli 2010). Lavorano tutto il giorno come dannati: ma almeno
guadagnano bene? Niente affatto, essi sono in grandissimo numero poveri e
indebitati. Come ha ricordato Maxime Robin su Le Monde diplomatique-Il
Manifesto (Stati Uniti, l'arte di ricattare i poveri, settembre
2015) oggi in Usa i check casher, piccole banche per prestiti veloci,
dilagano nei quartieri poveri più dei McDonald's. Ma in genere tutti gli
americani della middle class sono indebitati. «Uno statunitense nella
norma è un cittadino indebitato che paga le rate in tempo». E le cose
non son certo migliorate con la ripresa santificata dai media. Il 95%
dei redditi aggiuntivi che si sono creati dopo la crisi - ricordava The
Economist nel settembre 2013 - è andato all'1% delle persone più ricche.
Al restante 99% sono andate le briciole del 5%. Tutto come prima,
peggio di prima.
Che cosa dunque è accaduto? Perché dal mondo dell'abbondanza a portata
di mano siamo precipitati nel regno della scarsità? La risposta
essenziale è molto semplice. Perché il capitalismo dei paesi dominanti
(Usa e Europa in primis), ricercando nuovi mercati e occasioni di
profitto nei paesi poveri (la cosiddetta globalizzazione), innalzando la
produttività del lavoro, ristrutturando e innovando le imprese, non
incontrando resistenze in sindacati e partiti avversi, hanno generato
un'arma strategica formidabile: la Grande Scarsità, la scarsità del
lavoro. Il lavoro inteso come occupazione, come job. I dati recenti sono
impressionanti. Tra il 1991 e il 2011 - ricorda Costantino - mentre il
Pil reale planetario è cresciuto del 66%, il tasso globale di
occupazione è diminuito dell'1,1%. In 20 anni un quarto di beni in più
con meno lavoro.
Ma una vasta e ben controllata disoccupazione è oggi un arma politica,
non solo un effetto delle trasformazioni economiche. Tale scarsità,
diventata permanente e sistematica, ha reso i rapporti tra capitale e
lavoro, economia e politica, poteri finanziari e cittadini,
drammaticamente asimmetrici e sbilanciati. Tutti invocano lavoro come
gli affamati un tempo chiedevano il pane, fornendo al capitale una
legittimazione mai goduta in tutta la sua storia. L'intera struttura
dello stato di diritto ne risente, gli istituti della democrazia vengono
progressivamente svuotati. Sindacati e partiti, funzionari del
presente, invocano la "ripresa" come se il futuro possa "riprendere" le
fattezze del passato.
E tuttavia tale artificiale scarsità non può durare a lungo. Non solo
perché le innovazioni produttive in arrivo (stampanti 3D, intelligenza
artificiale,ecc) stanno per rovesciarci interi continenti di merci e
servizi, sostituendo perfino lavoro intellettuale con macchine. Ma anche
perché l'abbondanza del capitale che la Grande Scarsità del lavoro oggi
genera è una forma di obesità, una malattia sistemica. C'è troppo
danaro in giro, masse smisurate di risorse finanziarie, rispetto alle
necessità della produzione. Patrimoni concentrati in gruppi ristretti
che non corrono il rischio dell'investimento produttivo in società ormai
sature di beni e con una domanda debole, mentre la grande massa dei
lavoratori è tenuta a basso salario perché i loro padroni devono poter
competere a livello globale. Tutti i capitalismi nazionali comprimono i
salari, allungano gli orari di lavoro, sperando nelle esportazioni e
tutti, o quasi, languono nella generale stagnazione. Mentre i soldi si
accumulano, generano altri soldi, muovono speculazioni nei mercati
finanziari e preparano altre crisi.
Questo quadro che non teme smentite - poggia su una vasta e solida
letteratura - ha una grande importanza per la sinistra. In esso è
possibile scorgere che una vita di gran lunga migliore sarebbe possibile
per tutti e che solo i rapporti di forza dominanti la ostacolano,
facendo regredire la società nel suo insieme. Non c'è una crisi, intesa
come un evento naturale. E' stato il cedimento storico dei partiti della
sinistra, dei sindacati, dei governi a favorire la vittoria della
scarsità sull'abbondanza. Una grande battaglia perduta, ma da cui ci si
può riprendere. Da questa lezione si può comprendere come niente di
naturale è rinvenibile nella situazione presente: è tutto dipendente da
scelte politiche, da puri rapporti di forza.
Si può così smascherare l'idea di una scarsità a cui occorre piegarsi
come all'antico Fato. Così come l'idea di una "ripresa" affidata alle
riforme del mercato del lavoro, alla flessibilità dei lavoratori, senza
toccare la piramide delle ricchezze accumulate. Non ci sono i soldi,
recita la litania dei politici, di gran parte degli economisti main
stream, gli aguzzini intellettuali più attivi sulla scena pubblica, con
il loro seguito di giornalisti orecchianti. E' la più grande menzogna
della nostra epoca. I soldi non ci sono per pensioni dignitose, per il
reddito di cittadinanza, non ci sono per le borse di studio agli
studenti, che disertano gli studi universitari, non ci sono per i nostri
ricercatori e per la gioventù intellettuale, costretta a migrare
all'estero. Ma ci sono in misura crescente e cumulativa nei patrimoni
privati: in un solo anno, tra il 2011 e 2012, mentre infuriava la crisi,
il numero degli individui con un patrimonio superiore a un milione di
dollari è cresciuto nel mondo del 6%, in Italia del 10% . I soldi ci
sono in quantità senza precedenti per le banche. E le centinaia di
miliardi di euro che la BCE sta profondendo a piene mani, semplicemente
stampandoli?
Dunque, una grande abbondanza (auspichiamo, di beni e servizi avanzati,
frutto di una generale riconversione ecologica, di riduzione del lavoro )
è alla nostra portata. E bisogna infondere non solo nel nostro popolo,
ma nella società italiana tutta intera questa grande pretesa. La pretesa
della prosperità e del ben vivere per tutti. E' una prospettiva di
nuovi bisogni, che non solo è possibile soddisfare, ma coincide con una
tendenza storica inarrestabile e che capitale e ceto politico possono
solo ritardare, con danno generale. La redistribuzione dei redditi e del
lavoro e la lotta alle disuguaglianze incarnano come mai nel passato
l'interesse generale, una necessità indifferibile e universale. Oggi
possiamo far sentire a tutti, anche agli scoraggiati e ai perplessi, che
nelle nostre vele può tornare a soffiare il vento della storia.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto.
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