mercoledì 5 giugno 2013

Il festival dell’astrologia Augusto Illuminati, Alfabeta


Cicerone si meravigliava che due aruspici, incontrandosi, non scoppiassero a ridere (De natura deorum III, 26). Adesso a Trento, Festival dell’economia dal 30 maggio al 2 giugno 2013, s’incontreranno a centinaia aruspici, àuguri, maghi e spacciatori di derivati. Sai che risate.

Alle spalle degli italiani, cui hanno raccontato prima le mirabili sorti del neoliberismo, dei fondi di investimento e dei fondi pensioni, poi li hanno incitati a contrarre mutui, dopo ancora hanno negato che la crisi ci fosse, infine hanno somministrato l’amaro placebo della cura Monti, salvo a verificare che aveva aggravato la malattia. Mai, dico mai che uno di questi economisti si sia suicidato per il rimorso e la vergogna, mentre a decine si impiccavano o si davano fuoco imprenditori, commercianti, pensionati poveri, cassintegrati, esodati, ecc. Ora si ripropongono con nuovi rimedi di guarire le malattie che in precedenza avevano vantato quali cure.
Forse Trento sarà l’occasione di (tardivi) ripensamenti – promettono pensosamente sulle pagine de Repubblica gli organizzatori, Tito Boeri in testa –, meglio di niente, tuttavia come non ricordare gli effetti di ricette dispensate con ineguagliabile sprezzo del ridicolo e del principio di contraddizione per tanti anni? Inutile salmodiare la litania dei dati Istat sulla crescita inesorabile della disoccupazione generale, sul crollo della produzione industriale, dei consumi, e del risparmio, sul calo del Pil e dunque dell’ascesa del rapporto debito/Pil.
Nell’ultima settimana – unico aggiornamento che ci permettiamo – risulta che gli individui in condizione di semplice deprivazione o disagio economico ammontano al 25% della popolazione (40% al Sud), mentre quelli in condizione di grave disagio (povertà tout court) il 14,3%, raddoppiati in 2 anni.
L’Italia ha la quota più alta d’Europa di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano né studiano: 2.250.000 nel 2012, pari al 23,9%. C’è da meravigliarsi? Non tanto, se si constata che il 57,6% dei giovani laureati o diplomati italiani (tra 20 e 34 anni) lavorano entro tre anni dalla conclusione del proprio percorso di formazione, contro una media europea del 77%. E i medici, gli economisti che per un anno sono stati non solo gli ispiratori ma anche i protagonisti del governo “tecnico”, quali cure hanno fornito e continuano a suggerire?
Non che non si siano dati da fare, tutt’altro, una volta caduta in dimenticanza la loro incredibile incapacità di prevedere la crisi. Avevano insistito per il prolungamento dell’età pensionistica, sostenendo che così si creavano posti di lavoro per i giovani. Molto controintuitivo, per essere cortesi. Contrordine adesso: si va in pensione anticipata (così ci togliamo dai coglioni questi lamentosi esodati), perdendo però l’8% dei redditi. Si torna ai diritti di prima della riforma Fornero, ma a introiti ridotti. Una festa per rilanciare i consumi. Le aziende riescono a sbarazzarsi di quei sessantenni imbranati e si metteranno ad assumere i giovani. Come no. Tanto più che vengono contestualmente eliminati quei fastidiosi intralci alla proliferazione dei contratti a termine che erano stati introdotti a compensazione, si diceva, dello smantellamento dell’art. 18. A un pre-pensionato a reddito ridotto subentra così un giovane precario a salario legalmente ridotto. Una manna per la “crescita” (il nuovo mantra degli economisti), dato che la diminuzione dei salari diretti e differiti favorisce l’aumento dei consumi e della produzione, chiaro…
Se non bastasse, ecco la “staffetta”. Attingendo al gettito di una pressione fiscale record, lo Stato fa uno sconto sui contributi o eroga direttamente un sussidio per pre-pensionare o passare a part-time un po’ di lavoratori usurati sostituendoli con neo-assunti (1 a tempo indeterminato o 2 a termine per ogni uscito o per 2 part-timizzati). Doppio guadagno automatico, per le pensioni ridotte e per i neo-assunti a sottosalario e contributi scontati. Nel caso della pubblica amministrazione si riesce perfino a ridurre la spesa pubblica e licenziare a man bassa. Il Corsera lo spiega così: «Quando a ritirarsi è un dipendente pubblico lo Stato risparmia visto che sia lo stipendio che la pensione sono a suo carico ma l’assegno previdenziale è più basso della busta paga in media di 8 mila euro l’anno [...] Nel giro di cinque anni sarebbe possibile ridurre i dipendenti dai 3 milioni e 250 mila di adesso a 3 milioni». Come in Grecia e senza sconquassi.
Si vede che non c’è più la strega Fornero e ora comanda un ministro del lavoro sempre tecnico (scuola Istat e non Bocconi), ma in quota Pd. Per intensificare la flessibilità del lavoro e tagliare ulteriormente i salari, come suggerisce l’Europa, occorre un paravento di sinistra – un classico. Magari per il cuneo fiscale sul costo del lavoro e una riduzione differenziata dell’Imu i soldi non ci sono, ma per facilitare l’assunzione a termine e, di conseguenza, il lavoro nero non c’è problema. Gli economisti servono a spiegare che qualsiasi soluzione è efficiente e benefica. Ma tutti possono sbagliare – si potrebbe obbiettare – perché prendersela con loro e non solo con i governanti?
Proprio perché, da un lato, i governi si trincerano dietro le necessità tecniche e contabili ed evocano a sostegno la scienza economica (come un tempo astrologia e religione), dall’altra perché gli economisti rifiutano (tranne cospicue e illuminate eccezioni) ogni imputazione di ideologia, si considerano un settore delle scienze dure e anzi fanno da ponte per la costruzione di canoni valutativi che colonizzino le confinanti scienze sociali e umanistiche. Scienza o ideologia, allora? Parafrasando una vecchia barzelletta sul comunismo, potremmo propendere per la tesi che l’economia sia un’ideologia. Fosse stata una scienza, l’avrebbero testata prima sugli animali. Non sulla Grecia. Non sull’Italia.

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