Un vecchio e radicato pregiudizio – che un certo marxismo “volgare”
ha contribuito ad alimentare – attribuisce al capitalismo il merito di
avere “liberato” (cioè di averli resi liberi di vendere la propria forza
lavoro) i proletari, riscattandoli dal lavoro servile e dalla
schiavitù.
Niente di più falso: il capitalismo ha spesso convissuto con la
schiavitù e, in alcuni casi, ha addirittura costruito – come nelle
Americhe – la propria fortuna sullo sfruttamento di milioni di schiavi.
Cose vecchie, si dirà: dopo le Guerre Mondiali del secolo scorso, e dopo
la caduta degli imperi coloniali, la schiavitù si è ridotta a un
fenomeno marginale che coinvolge poche regioni economicamente e
culturalmente arretrate, con alcune rare eccezioni (vedi il regime
dell’apartheid in Sudafrica) nel mondo industriale. Semmai, aggiungono
gli apologeti del liberal liberismo, certe forme di schiavitù sono
sopravvissute nel mondo comunista fino alla sua recente caduta.
Non sarebbe difficile contestare questa tesi, ma non è questo il fine
che qui mi prefiggo: il punto è che – ammesso e non concesso che
capitalismo e schiavismo avessero mai divorziato – oggi è del tutto
evidente che hanno celebrato un nuovo matrimonio. Come definire
altrimenti quello che sta capitando in Qatar? Una recente inchiesta
del “Guardian”, rivela che decine di giovani lavoratori di nazionalità
nepalese e indiana stanno morendo di fame di sete e di stenti nel
deserto del Qatar, dove vengono costretti a lavorare in condizioni
disumane dalle imprese che stanno costruendo le infrastrutture per i
campionati del mondo di calcio, previsti per il 2022.
Lo sfruttamento selvaggio di milioni di immigrati provenienti
dall’Estremo Oriente non è una novità nei Paesi degli sceicchi del
petrolio, ma qui si è superato ogni limite, anche perché viene impedito a
chi vorrebbe sottrarsi al massacro di rimpatriare, sequestrando i
passaporti alle vittime. Naturalmente le rivelazioni hanno scatenato le
reazioni (ipocritamente) indignate dei politici occidentali e della FIFA
(credete davvero che toglieranno al Qatar i campionati del 2022,
danneggiando gli interessi delle imprese appaltatrici che si aspettano
miliardi di profitti dall’affare?).
Una storia assai simile a quella delle migliaia di operaie tessili
del Bangladesh perite negli incendi, o sepolte sotto le macerie delle
fatiscenti fabbriche dei terzisti locali che lavorano per i marchi
occidentali (ivi compresa l’indignazione a posteriori di chi sapeva
benissimo). Ma sbaglierebbe chi pensasse che questo ritorno della
schiavitù riguardi solo le periferie del capitalismo globale.
In una precedente puntata
di questo blog ho raccontato l’incredibile storia delle carceri private
trasformate in riedizioni delle working house di settecentesca memoria,
e della complicità fra questi nuovi negrieri e le amministrazioni
disposte ad “arruolare” carne fresca per alimentare i loro profitti (per
inciso, ho ricevuto molte segnalazioni di lettori che volevano
giustamente ricordarmi che il fenomeno non riguarda solo gli Stati
Uniti).
E ancora: sulle pagine del Corriere di qualche giorno fa ho
letto un servizio sull’annuncio del cancelliere dello scacchiere George
Osborne in merito alla svolta del governo inglese in materia di welfare:
d’ora in avanti i sussidi di disoccupazione saranno erogati solo a chi
“dimostrerà” di voler veramente cercare lavoro, peccato che per
dimostrarlo occorrerà adempiere a una serie di condizioni talmente
vessatorie da configurare una vera e propria induzione a forme di lavoro
coatto (gratuito per le imprese che ne usufruiranno, oneroso per i
contribuenti poveri che lo finanzieranno, visto che ai ricchi il governo
Tory offre ampi sgravi fiscali). Insomma la schiavitù avanza in tutti i
Paesi capitalisti, non solo nelle cayenne delle periferie del mondo.
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