Le borse, croce e delizia della
speculazione finanziaria, sono tornate a crollare. La ragioni di breve
periodo indicate dai famosi e troppo ben retribuiti “analisti” recitano
le frasi di rito: “preoccupazioni per la frenata cinese”, per
“l'ulteriore allentamento degli stimoli monetari da parte della Federal
Reserve” (il temuto tapering), “crollo delle valute dei paesi emergenti”.
Risultato finale: “una fase di correzione
si va forse profilando all'orizzonte”. Tradotto per i non addetti ai
lavori: il valore dei titoli azionari quotati in borsa era cresciuto
troppo e adesso, per un po', cadranno.
Erano mesi che i più attenti – molto
modestamente anche noi – sottolineavano come l'andamento dell'economia
globale fosse decisamente schizoide: la parte “reale” (manifatturiero,
servizi, trasporti, ecc) era quasi dappertutto stagnante o in deciso
calo, le borse al contrario volavano alto come mai.
Le “cause” di quella schizofrenia erano
peraltro abbastanza chiare. Le banche centrali di Usa, Gran Bretagna e
Giappone “pompavano liquidità” a rotta di collo nel sistema finanziario,
al duplice scopo di sostenere il capitale finanziario (soprattutto le
banche private) a riprendersi dopo i crolli del 2007-2009 e svalutare le
rispettive monete nazionali (dollaro e yen, ma anche la sterlina), in
modo da migliorarne la “competitività”. Una ricetta antica, che l'Italia
aveva spesso utilizzato con grande profitto prima di essere inchiodata
dalla moneta unica, ma che veniva ritenuta “sconveniente” dalla Bance
centrale europea a imprinting tedesco. Risultato: per un paio di anni le
economie di Usa e Giappone, ben ancorate a quella cinese (che nel
frattempo accettava di lasciar rivalutare con molta cautela il
yuan-renmimbi) facevano finta di crescere un pochino, mentre l'Europa
lentamente si incagliava nelle sabbie della recessione.
Tutto questo gioco – chiamato dagli
specialisti “guerra delle valute”, sia pure a livello non stratosfrico –
ha prodotto, come ogni guerra, delle vittime. Sono i “paesi emergenti”
(Brasile, Turchia, Argentina, Sudafrica, India, buona parte dell'Est
europeo, qualche altro paese asiatico), passati nel giro di pochissimi
anni dalla crescita in doppia cifra alla stagnazione, provocata da una
forte rivalutazione delle rispettive monete. Non è difficile da capire:
se alcune monete svalutano (soprattutto se lo fanno quelle “di
riferimento” nel mercato globale), altre si apprezzano. Il valore di
cambio è infatti fruto di un sistema di vasi comunicanti, assolutamente
relativi, senza alcun ancoraggio – se non puramente virtuale – a una
“cosa fisica” (un tempo: l'oro).
Questa frenata spaventosa degli emergenti
ha prodotto ora la sua conseguenza necessaria e indesiderata: crollano i
valori delle monete relative (peso, real, rand, ecc) perché le
rispettive economie hanno bisogno di “riguadagnare” un margine di
competitività. Il che implica problemi per quanti – Usa e Giappone
principalmente – avevano fin fatto lo stesso. Tanto più che, soprattutto
gli Stati Uniti, si trovano ora nella necessità di rallentare
l'iniezione di liquidità che fin qui aveva sostenuto sia l'economia
reale locale che la finanza globale. E senza liquidità “sicura”, anche
la speculazione sui titoli rallenta, “prende beneficio” (ovvero vende
immediatamente quel che ora ha un prezzo elevato, incassando così la
plusvalenza creatasi rispetto al prezzo d'acquisto).
I problemi più grandi, a questo punto,
sono però per l'Eurozona, stretta tra politiche deflazionistiche (e
l'inflazione infatti si è lentamente annullata, sta per passare
addirittura in negativo) e autonegazione della possibilità di immettere a
sua volta liquidità. A pagare il prezzo più alto di questa trappola,
com'è noto, sono state soprattutto le economie dei paesi “Piigs”
(Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Cipro, ma ora anche
Slovenia, Croazia, Lettonia, Francia), ma tutta l'Eurozona ha a questo
punto un limite nella “moneta forte”; la quale zavorra anche quel poco
di “competitività” ricavata a forza di taglia alla spesa pubblica, al
welfare, ai salari reali, ai posti di lavoro e ai diritti. Tanti
sacrifici per nulla. Il pericolo ha fatto fischiare le orecchie anche a
Mario Draghi – decisamente più reattivo e intelligente dei suoi “tutori”
germanici” - che a Davos ha finalmente ammesso che qualche rischio di
deflazione a questo punto esiste, ma che – naturalmente - “la Bce farà tutto
quanto necessario” per combatterla. Non ha molte armi a disposizione per
farlo: “stampare moneta” per deprezzarne il cambio, oppure acquistare
titoli di stato dei paesi che immediatamente sono più a rischio.
La giornata di ieri ha sintetizzato tutte
queste tendenze negative in un crollo generalizzato delle borse di
oltre il 2% in media. Lo spread di Italia e Spagna nei confronti dei
bund tedeschi ha ripreso a decollare, facendo così riemergere l'incubo
di rendimenti più alti da pagare per i titoli il debito pubblico (una
minaccia diretta per i bilanci statali, nel frattempo crocifissi dal
“pareggio di bilancio” e nell'attesa della devastazione promessa dal
fiscal compact).
Bentornati con i piedi sulla terra. La crisi è tra noi. Sei anni e mezzo (dall'agosto 2007) di politiche a là carte
a favore del capitale finanziario non hanno risolto alcun problema.
L'hanno solo aggravata. È questa la luce che vedevi in fondo al tunnel,
mr. Monti? Beh, è davvero quella di un treno sta arrivando in direzione
opposta.
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