“Se
ci trovavano con un volantino della Cgil venivamo licenziati in tronco.
Quando entravamo in fabbrica ci perquisivano le borse, per vedere se
avessimo materiale politico. E se ci beccavano a parlare di questioni
sindacali prima ci sospendevano, o ci demansionavano a tempo
indeterminato. Poi poteva arrivare la perdita del lavoro” (Ernesto Cevenini, licenziato per rappresaglia alla Maccaferri di Bologna).
Dal
1947 al 1966 nelle fabbriche italiane si contarono più di 500.000
licenziamenti, di cui circa 35.000 per rappresaglia politica e sindacale
contro ex partigiani, attivisti di reparto, membri delle commissioni
interne. Era questo il modo in cui gli industriali dimostravano la
propria riconoscenza verso coloro che, pochi anni prima, gli avevano
salvato le fabbriche, impedendo il trasferimento dei macchinari in
Germania, ricostruendo mattone su mattone i capannoni bombardati.
Nel
corso degli anni ’50 e ’60 centinaia di migliaia di operai scesero in
piazza a fianco dei licenziati, lasciando compagni morti sul terreno o
chiusi nelle galere. Fu il prezzo da pagare per ottenere nel 1966 la
prima legge contro i licenziamenti senza giusta causa.
Bologna
con la sua provincia subì 8.550 licenziamenti per rappresaglia dal 1947
al 1966, di cui 3800 lavoratori metalmeccanici, 1000 tessili, 900
nell’abbigliamento, 1.500 nell’alimentare, 600 nel chimico, 500 nel
comparto legno e 250 nel pubblico impiego. Si trattò di ritorsioni
contro singoli militanti o gruppi politicizzati, ma in vari casi anche
dell’espulsione dell’intero corpo operaio delle fabbriche ritenute
troppo conflittuali: punizioni individuali o collettive per le lotte
contro il cottimo, per il salario e il contratto, per la sicurezza, per
gli asili nido, per la libertà di riunione e di parola.
Veniva
punita la solidarietà di classe (che all’epoca si esprimeva in
dimensioni vastissime) e soprattutto la politicità operaia, la capacità
di andare oltre i confini della propria vertenza e di praticare
obiettivi di ordine generale.
Dentro le fabbriche le condizioni di lavoro erano durissime. “Quando
nevicava forte trovavamo sui banchi la neve, e il giorno dopo c’era
meno tre, meno cinque, e si lavorava a quella temperatura… Solo negli
ultimi anni misero dei bidoni da benzina, quelli da due quintali, con
della segatura…. Quando avevo freddo mi avvicinavo più a questi “fogoni”
per scaldarmi le mani, però poi c’era il capo officina che ti guardava e
dovevi andar via subito…. Facemmo delle lotte per avere più legna, per
avere i locali più riscaldati, non ci riuscimmo”… “La
polvere che c’era era una cosa incredibile. La sera andavi a casa che
avevi la saliva rossa”… “Fui preso e messo al reparto confino, al
reparto zincatura, che andando in quel reparto a 55 anni si moriva,
perché c’erano gli acidi liberi per terra. I vestiti diventavano rossi e
poi si stracciavano. I guanti, gli aspiratori, i ventilatori non
esistevano” (Operai Ducati e Maccaferri).
Al ritorno a casa, poi, c’era la fame. “Avevamo
delle paghe troppo basse. Le paghe erano una cosa … che si lavorava per
niente. Chi aveva famiglia era un povero … ma povero povero” (Ovidia Galloni, impiegata alla Ducati).
Chi
si opponeva a tutto questo prima o poi era fuori, ed oltre al
licenziamento doveva subire l’accanirsi di prefetti, questure e
tribunali. “Io
lavoravo alla Ducati, facemmo una grande manifestazione… Qualcuno gettò
dei sassi contro questa vetrina perché era aperta. Io ero in tuta in
mezzo a tutta la gente, e la polizia …sa quando vedevano quelli in tuta …
mi arrestarono. Sono stato lì tre mesi”.
Potremmo
dire che gli è andata bene, visto che oggi per una vetrina rotta c’è
chi sta scontando 10 anni di galera. Ma sarebbe solo una battuta. Dal
‘48 al ’56 il bilancio della repressione contro il movimento operaio nel
bolognese fu pesantissimo, con due morti, 795 feriti, 5.092 arrestati e
fermati, 15.835 processati (di cui quasi la metà assolti, ma dopo anni
di carcere) e 8.369 condannati a 5 ergastoli, 1.959 anni e 7 mesi di
reclusione, 49.960.766 lire di multe.
Su
questa Storia collettiva fatta di solidarietà e coraggio, di sbarre,
fame e lutti, sputa oggi la fatua gioventù renziana e la sua meno fatua
corte di ministri emanati da Confindustria, Legacoop e Fondo Monetario
Internazionale. Una Storia collettiva che va di nuovo raccontata, per
aver chiaro in quali tenebre vogliono sprofondarci, il valore di quello
che ci stanno togliendo e quanto ci costerà riconquistarlo.
I licenziamenti per rappresaglia e la repressione antioperaia a Bologna e provincia nel dopoguerra
A Bologna la Barbieri & Burzi fu la prima a inaugurare la stagione delle espulsioni politiche alla fine del 1947.
Da
qualche mese il clima del paese era cambiato: la rottura dell’unità
nazionale, l’espulsione delle sinistre dal governo e il varo del piano
Marshall suggerivano agli industriali che era il momento di ricominciare
ad alzare la testa, scrollarsi di dosso l’onta della collaborazione col
fascismo e riprendere il potere in fabbrica.
Giorgio
Barbieri, presidente dell’Associazione degli industriali bolognesi, si
assunse l’onere della prima forzatura, licenziando assieme ad altri il
direttore tecnico della sua azienda, Giorgio Barnabà. Alla Barbieri
& Burzi il partigiano Barnabà era stato il punto di riferimento
nella resistenza di fabbrica ai nazifascisti. Il suo licenziamento
immotivato, assieme a quello di altri 40 operai, era una provocazione
indigeribile. Fu subito sciopero ad oltranza, per 24 giorni, a cui seguì
l’occupazione della fabbrica.
Per più di un mese i lavoratori diressero la produzione di ceramiche e laterizi tramite un consiglio di gestione eletto da loro.
Al
loro fianco scese in strada la città, assieme agli operai ed ai
lavoratori della terra di tutta la provincia. L’intero territorio si
assunse la responsabilità della tenuta della lotta e della sopravvivenza
materiale degli occupanti: le campagne inviavano aiuti alimentari,
nelle fabbriche raccoglievano viveri e soldi, le Camere del lavoro
coordinavano gli aiuti e le mobilitazioni.
Ma
l’autogestione della fabbrica non riuscì a funzionare a lungo perchè le
autorità decisero il blocco delle merci. La vertenza si concluse il 17
febbraio del ’48: Barbieri sui licenziamenti non cedette. Fu un pessimo
segnale, e non solo per la Barbieri & Burzi, che si distinse per i
licenziamenti politici anche negli anni a seguire.
Un
anno dopo fu la volta della Ducati, e lo schiaffo contro gli operai
bruciò ancora di più. Perché erano stati loro a ricostruirla pietra su
pietra dopo che il bombardamento alleato del 12 ottobre ’44 l’aveva rasa
al suolo. Erano stati loro a cercare i macchinari rubati o trasferiti, a
riavviare la produzione. Loro, e non certo i fratelli Ducati, che dopo
aver presieduto sotto l’occupazione tedesca la Confindustria locale e la
casa del fascio, appena le cose si misero male se ne scapparono a
Milano.
Nel
’48 la fabbrica fu ceduta alle partecipazioni statali dai proprietari
accusati di collaborazionismo, ma la gestione pubblica non si dimostrò
migliore, decretando da subito la chiusura dello stabilimento di
Bazzano. Il 13 novembre la mobilitazione popolare impedì il
trasferimento dei materiali dall’officina bazzanese, ma non riuscì a
fermarne la chiusura. Il 31 dicembre vennero licenziati 80 lavoratori.
Nel
frattempo il contesto nazionale continuava a peggiorare, sgretolando le
speranze (o le illusioni) di chi aveva creduto che la libertà e il
diritto appena sanciti nella costituzione formale del paese avrebbero
potuto diventare costituzione materiale nelle fabbriche. Da nord a sud
braccianti ed operai continuavano a morire ammazzati nelle piazze: a
Cerignola, a Pantelleria, ad Andria, a Trecenta, a Spino d’Adda, a San
Martino in Rio…
Il
1948 fu l’anno della restaurazione sancita dalla vittoria elettorale
della DC, a cui fece seguito l’attentato a Togliatti del 14 luglio.
Nelle ore immediatamente successive all’attentato una rabbia spaventosa,
contenuta a fatica dai vertici del Partito Comunista, si riversò per le
strade di tutta Italia. L’esecutivo della CGIL proclamò lo sciopero
generale quando ormai tutto il paese era già con le braccia incrociate.
Da
Genova, all’Amiata, a Gravina di Puglia, con le fabbriche occupate, gli
assalti alle sedi della DC e del MSI, migliaia di lavoratori impegnati
negli scontri con la polizia, la situazione raggiunse livelli
preinsurrezionali. A Bologna “sui
tetti della Weber compaiono le mitragliatrici, alla Calzoni gli operai
si asserragliano coi vecchi Sten pronti alla battaglia, mentre i loro
colleghi si mettono a produrre i chiodi a tre punte per boicottare le
colonne motorizzate della Celere. Alla Ducati, i lavoratori ex
partigiani si appostano, anch’essi armati, a vigilanza delle cabine
elettriche. Lo scenario è da guerra urbana con le camionette che
circondano le fabbriche e i quartieri industriali, mentre un corteo
imponente si dirige verso il centro“.
Dovettero
intervenire con tutto il loro peso Longo, Secchia e l’organizzazione
intera del PC e del sindacato per far star ferma la gente, dopo che un
telegramma di Stalin aveva escluso che potessero darsi sviluppi
rivoluzionari alla rivolta. Sul terreno degli scontri dal 14 al 19
luglio restarono comunque 19 morti (di cui uno a Bologna), oltre a 600
feriti e 7.000 fra denunciati e arrestati.
Le
giornate del luglio ’48 dimostrarono l’entità della forza operaia, ma
anche la volontà del Partito Comunista di non volerla usare fino in
fondo. Da allora il fronte padronale riconquistò tutta la sua arroganza,
forte anche della scissione sindacale della “Libera CGIL”, poi
diventata CISL. “Fino
al 1948 potevamo fare delle riunioni, potevamo discutere. Dopo il ’48
finì tutto, cambiò l’indirizzo del lavoro, della produzione, cambiò
quasi tutto”. “Abbiamo cominciato a perdere per gradi tutte le libertà
che avevamo. La libertà di parola, la libertà di riunione, ci voleva
l’autorizzazione per qualsiasi cosa” (Operaio Weber).
In
questo clima a Modena i proprietari della Fonderia Valdevit decisero di
imporre la trasformazione del cottimo collettivo in cottimo
individuale. Le maestranze reagirono con la strategia della non
collaborazione e con scioperi intermittenti, ma al ritorno dalle
festività natalizie del 1948 si trovarono davanti la serrata e il
licenziamento collettivo di tutti i 228 dipendenti. La direzione assunse
al loro posto 140 crumiri provenienti dal Veneto e dalla montagna,
reclutati dai preti.
Nel
febbraio successivo i dipendenti della imolese Cogne decisero di fare
come la Galilei di Firenze: entrambe le fabbriche ricevevano pezzi dalla
Valdevit, ma i loro operai si rifiutavano di lavorarli in appoggio ai
licenziati modenesi. Per l’occasione l’amministratore delegato del
Gruppo Cogne (il senatore DC Teresio Guglielmone) ritenne di inviare
addirittura un colonnello per la gestione delle “relazioni sindacali”
con i riottosi operai imolesi. Ma ci voleva ben altro per spaventarli !
I
lavoratori della Cogne si erano già distinti nella resistenza al
nazifascismo praticando il sabotaggio della produzione bellica,
scendendo in sciopero, rischiando grosso sotto l’occupazione tedesca. La
fabbrica, distrutta dalle bombe, se l’erano ricostruita con le loro
mani. Gente tosta e determinata.
Per
questo, nonostante le provocazioni del colonnello Borla, il Comitato di
agitazione riuscì ugualmente ad imporre alla Cogne di ritirare dalla
Valdevit i modelli per le fusioni dei suoi pezzi, e di ricollocarli in
altre fonderie modenesi disposte ad assumere il personale licenziato. Fu
una vittoria di tutto rispetto, tenendo conto che sia gli operai che la
Direzione generale della Cogne avevano ben chiara la natura politica
dello scontro in corso a Modena, come parte di un attacco generale agli
spazi conquistati dai lavoratori durante la Liberazione. Proprio a
Modena, da lì a poco lo scontro sarebbe stato portato alle estreme
conseguenze, con i licenziamenti alle Fonderie Riunite e l’eccidio del 9
gennaio del 1950.
Per
la loro solidarietà gli imolesi dovettero comunque pagare un prezzo:
l’allontanamento dalla Cogne del direttore di stabilimento Carlo Nicoli,
comandante partigiano e comunista, e del responsabile amministrativo
Ester Benini, anche lui di sinistra. Anche in questo caso si trattò solo
della premessa ad ulteriori licenziamenti per rappresaglia nella
fabbrica ribelle.
Tornando
a Bologna, il 26 febbraio del ’49 il dott. Mantelli, commissario
giudiziale della Ducati, comunicava al prefetto la chiusura entro due
giorni degli stabilimenti di Borgo Panigale, benchè fossero pieni di
ordinazioni e di macchine pronte per la consegna. Con 2.000 operai sul
lastrico la Camera del Lavoro indisse lo sciopero generale. La serrata
durò fino al 15 marzo, poi il provvedimento di chiusura venne ritirato e
i licenziamenti annullati, ma come vedremo, non per molto.
In
primavera nelle campagne della provincia si avvicinava la data del
grande sciopero bracciantile. Si lottava per il contratto nazionale ma
anche per il controllo del collocamento, fondamentale per contrastare
una delle forme più utilizzate per il licenziamento occulto degli
indesiderati: la mancata riassunzione nella stagione successiva.
Il
16 maggio centinaia di braccianti, tante donne, presidiarono le
campagne per impedire l’accesso ai crumiri. Intervennero la celere ed i
carabinieri con bastonature, lacrimogeni, arresti, sventagliate di
mitra, non solo in aria. La violenza si scagliava sulle persone ma anche
sulle loro povere cose: gli autoblindo distruggevano le biciclette
degli scioperanti, indispensabili ai lavoratori della terra per
raggiungere i campi.
Il
17 cadde Maria Margotti, operaia della fornace cooperativa di Filo
d’Argenta, che assieme alle compagne partecipava alla lotta delle
mondine. Questa è una cronaca di quei giorni: “16
Maggio la polizia giunge a reprimere le manifestazioni in maniera
particolarmente violenta: le donne vengono disperse a colpi di mitra,
inseguite e malmenate. A Molinella 52 di esse sono ferite, 638 bastonate
e 49 arrestate.
Il
17 viene organizzata una manifestazione di protesta. Maria è sul ciglio
della strada, insieme ad altri e discute animatamente. All’improvviso
arrivano camion e jeep carichi di armati. Un carabiniere in motocicletta
passa veloce, intima a tutti di sciogliersi e, senza nemmeno aspettare
di vedere se il suo ordine viene eseguito, spara con il mitra uccidendo
sul colpo Maria Margotti”.
Lo
sciopero proseguì più forte di prima. Il 12 giugno era ancora in corso,
e Loredano Bizzarri, operaio di Calderara di Reno, stava dando man
forte ad un picchetto contro i crumiri presso l’azienda agricola Lenzi
di San Giovanni in Persiceto. Fu freddato a 22 anni da un colpo di
pistola di una guardia campestre, tal Guido Cenacchi. Nessuno pagherà
per la sua morte, mentre per quella di Maria Margotti il carabiniere
Francesco Galeati si prenderà sei mesi. Poco più della pena per una
vetrina rotta. (Continua)
Riferimenti:
Luigi Arbizzani, La Costituzione negata nelle fabbriche. Industria e repressione antioperaia nel bolognese (1947-1957), Grafiche Galeati – Imola, 1991, p. 196.
Mauro Morbidelli, Senza giusta causa (documentario), 2005, 51 minuti.
G. G. Bologna, Quando per fare il sindacalista rischiavi il posto. Il racconto di Ernesto Cevenini, licenziato per rappresaglia, L’Unità – Cronaca di Bologna, 5 febbraio 2012
Antonio Ferri, Valerio Varesi, L’attentato a Togliatti. Le mitragliatrici alla Weber e il monito del Migliore, La repubblica, 7 agosto 2011.
G. Dal Pozzo, E. Rava, Le donne nella storia d’Italia, vol. II, Teti, Milano 1969.
* Pubblicato il · in Bologna non più Bologna, Controinformazione ·
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