Una repubblica fondata sull'ozio
Risparmio, austerità. Il mantra
dell'Unione Europea ha valore per gestire un bilancio familiare, ma non
indicano nessuna possibile uscita dalla crisi. Un percorso di lettura a
partire da un volume dell'economista greco Yanis Varoufakis
«Ha una ricetta per salvare le casse
dello stato?», chiesero una volta ad Alberto Sordi. «È una ricetta
semplicissima», rispose l'Albertone nazionale: «Si chiama risparmio. Si
prendono i conti dello stato e si dice per esempio: tu, magistrato,
guadagni un milione al mese di meno; tu, deputato, due milioni di meno;
tu, ministero, devi diminuire le spese per la carta, il telefono, le
automobili (il che sarebbe anche positivo per il traffico e
l'inquinamento), e così via, informando mensilmente gli italiani, alla
televisione e sui giornali, dei risparmi ottenuti. Allora si potrebbero
chiedere sacrifici a tutti: diventerebbe una gara a chi è più bravo».
Era il 1995 e c'era ancora la lira, ma quella ricetta di politica
economica ha lasciato il segno. Si dovrebbe chiamarla Sordinomics, in
omaggio alla lingua madre della «scienza triste», perché non c'è dubbio
che ad essa si ispirano le prescrizioni dell'Unione europea e, qui da
noi, il loro esecutore (alias l'esecutivo) e i suoi tanti corifei, che
non mancano un solo giorno d'informarci non solo dei risparmi ottenuti,
ma soprattutto di quelli che si potrebbero ottenere se solo non avessimo
sul groppone una «casta» di nullafacenti affamati e corporativi.
Nel paese della banane
In effetti, è una constatazione di senso
comune supporre che un individuo che si sia indebitato oltre il limite
consentitogli dal proprio reddito debba ridurre i propri consumi e
risparmiare di più per ripagare gli interessi e il capitale preso a
prestito. Ma non sempre il senso comune equivale al buon senso: in
generale, anzi, è sbagliato ritenere che ciò che vale per l'individuo
singolo debba valere per la società nel suo complesso. Lo spiegò
magistralmente Keynes nel 1930, nel corso di un'audizione al Macmillan
Committee, ricorrendo ad un paradosso che né il compianto Sordi, né i
corifei del governo, né il governo stesso (per non dire dei suoi
mandanti europei) debbono aver compreso.
Supponiamo - disse all'incirca Keynes -
che si dia una comunità che possieda solo piantagioni di banane. Il
lavoro dei suoi membri consiste solo nel coltivarle: essi producono
banane e consumano banane, in una quantità tale da garantire
l'equilibrio tra le remunerazioni dei lavoratori occupati e il prezzo
delle banane vendute. In questo Eden, viene improvvisamente lanciata una
campagna per il risparmio: «Se non diminuiamo il consumo delle banane,
ipotecheremo il benessere delle generazioni future», ammoniscono alcuni,
e altri di rincalzo: «Stiamo distruggendo la capacità del pianeta di
produrre banane, di questo passo non dureremo!». I lavoratori sono tipi
un po' bonaccioni e si fidano: il consumo delle banane prenderà quindi a
diminuire. Ma siccome sul mercato l'offerta di banane è rimasta nel
frattempo invariata, il prezzo di esse scenderà, consentendo ai
lavoratori di acquistare esattamente la stessa quantità di banane di
prima e per giunta pagandole di meno. A questo punto i lavoratori (e
specialmente il loro partito, che è fatto persone altrettanto
bonaccione) si convincono che sta andando tutto benissimo: la campagna
per il risparmio non solo preserverà le generazioni future e lo stesso
pianeta dai rischi di un consumo eccessivo e imprevidente, ma ha pure
ridotto il costo della vita: cosa desiderare di meglio?
Sfortunatamente, non siamo ancora alla
fine della storia. La diminuzione del prezzo delle banane, infatti, ha
causato perdite gravissime agli imprenditori che conducono le
piantagioni. Costoro allora cercheranno di rifarsi e allo scopo
negozieranno con i sindacati dei lavoratori riduzioni del salario e
licenziamenti collettivi. Non riusciranno però a evitare le perdite,
perché riducendo le loro spese in salari ridurranno anche i redditi dei
lavoratori e la loro possibilità di consumare banane. Il prezzo delle
banane scenderà così di nuovo e da capo si avvierà un altro ciclo di
perdite, riduzioni dei salari e licenziamenti, fino a quando tutti
resteranno senza lavoro, la produzione delle banane si interromperà
definitivamente e l'intera popolazione morirà di fame.
L'articolo dimenticato
In una conversazione radiofonica del
1932, Keynes spinse il paradosso all'estremo opposto: giunse infatti a
dire che erano il peso della disoccupazione e la diminuzione del reddito
nazionale provocata dal risparmio a mettere sottosopra il bilancio
pubblico, ed esortò il suo governo a spendere e a indebitarsi per
avviare lavori pubblici che riassorbissero i disoccupati, ché il
bilancio si sarebbe aggiustato da sé. Ne potremmo dedurre che egli visse
in un Paese e in un'epoca assai più liberali dell'Italia del tempo
presente, dove i media e l'industria culturale sono rigidamente
monopolizzati dalla Sordinomics, ma non è questo che qui interessa. Il
problema di cui vorremmo dire è un altro: in che misura la sua critica e
le sue proposte possono ritenersi valide per l'oggi? In che termini,
cioè, possiamo scansare i paradossi del risparmio dell'economia politica
di Alberto Sordi con il paradosso della spesa in debito dell'economia
politica keynesiana?
Circa un anno dopo quella conversazione
radiofonica di Keynes, un economista polacco allora pressoché
sconosciuto, Michal Kalecki, pubblicò un breve saggio su un'importante
rivista economica del suo Paese. Purtroppo, tanto il saggio quanto la
rivista erano scritti interamente in polacco, di conseguenza nessuno o
quasi se ne accorse. Kalecki sviluppava un'interessante analogia tra la
spesa pubblica e le esportazioni: dopo aver rilevato che un aumento di
queste ultime poteva incrementare il reddito nazionale solo nella misura
in cui avesse dato luogo ad un'eccedenza rispetto alle importazioni
(diversamente, i profitti totali sarebbero rimasti immutati e non ne
sarebbe venuto alcuno stimolo all'investimento), suggerì che, se lo
stato avesse preso denaro a prestito dai capitalisti del proprio paese e
ne avesse speso il ricavato in lavori pubblici, il risultato in termini
di aumento dei profitti sarebbe stato analogo a quello di un avanzo del
commercio estero: all'eccedenza delle esportazioni avrebbe fatto da
pendant la vendita delle merci necessarie per la realizzazione dei
lavori pubblici e la produzione si sarebbe avviata verso la ripresa.
Tirannia dei prestiti
Bisognerebbe aggiungere che l'ipotesi di
Kalecki presupponeva l'operatività della teoria del moltiplicatore che
in quegli stessi anni andava elaborando un discepolo di Keynes, Richard
Kahn, ma sono dettagli. Più importante è invece ricordare che Kalecki
suggeriva che un analogo stimolo all'investimento poteva venire qualora
le «esportazioni interne» (cioè gli acquisti di beni e servizi da parte
dello stato) fossero state pagate con un finanziamento da parte della
Banca centrale. Questa era un'affermazione molto pericolosa, perché una
volta che lo stato si fosse affrancato dalla tirannia dei prestiti dei
capitalisti, avrebbe potuto di fatto appropriarsi dei beni e servizi che
acquistava senz'altro controvalore che non fosse la sua propria
solvibilità, la quale a sua volta non avrebbe avuto altra base se non il
potere di levare imposte e aumentare l'offerta di mezzi creditizi.
Emergeva insomma un potere della collettività di «appropriarsi» di tutte
quelle risorse che, sulla base del modo di produzione capitalistico,
rimanevano disoccupate: un potere che, logicamente, andava a sovvertire
il funzionamento stesso del capitalismo.
Ma il «socialismo in un solo paese» è
difficile a farsi, almeno fintanto che non si è in grado di provvedere
con la produzione interna alle risorse e alle attrezzature necessarie
per soddisfare la domanda di pieno impiego. Kalecki, che era stato
intelligente lettore di Marx e Rosa Luxemburg e ben conosceva le
difficoltà in cui si era dibattuto il neonato stato dei soviet fin
dall'epoca della Nep, a causa del rifiuto dei contadini di conferire
quella parte del raccolto che doveva servire a finanziare le
importazioni, ne era affatto consapevole: se all'espansione delle
«esportazioni interne» non si fosse accompagnato un contemporaneo
aumento delle esportazioni verso l'estero, lo stimolo agli investimenti
privati sarebbe presto venuto meno, perché l'aumento della domanda
interna per investimenti e consumi avrebbe recato con sé l'aumento delle
importazioni e, per questa via, l'effetto espansivo dovuto alle spese
pubbliche sarebbe stato compensato (o più che compensato) da quello
depressivo dovuto al deterioramento dei conti con l'estero. E poiché il
ricorso alla svalutazione della moneta nazionale poteva solo in parte (e
solo temporaneamente) ovviare al problema, ne veniva che quanto più una
data economia fosse dipesa dalle importazioni, tanto più rapidamente
l'espansione indotta dalle «esportazioni interne» avrebbe toccato il suo
punto di massimo e gli effetti moltiplicativi della spesa avrebbero
preso a disperdersi all'estero.
Convergenze parallele
Keynes non amò mai Kalecki: non solo
perché questi arrivò a Cambridge in un momento in cui Keynes era troppo
preso dalle sue idee per prestare attenzione a quelle altrui, ma
soprattutto perché Kalecki era un comunista, mentre Keynes diceva che la
lotta di classe l'avrebbe sempre visto dalla parte della educated bourgeoisie.
(Una volta commentò questa loro distanza dicendo che «olio e aceto non
si mescolano».) Indipendentemente da quel che pensassero l'uno
dell'altro, è però un fatto che l'ultimo scritto di rilievo di Keynes -
alludiamo alla celebre proposta di una Clearing Union internazionale
(1943) - si proponesse di rimediare al problema individuato da Kalecki,
ossia di ovviare agli squilibri delle bilance commerciali generati da
avanzi o disavanzi persistenti. Per dirla con Joan Robinson, che fu
allieva dell'uno e grande amica dell'altro, la loro vicenda
intellettuale testimoniava in effetti di un fatto piuttosto comune nella
storia della scienza, cioè che quando lo sviluppo di una disciplina fa
sorgere un nuovo e imponente problema, due menti originali possono
trovare la stessa risposta all'insaputa l'uno dell'altro.
Il problema era appunto il potenziale
squilibrio delle bilance di pagamenti. Una volta scontato che le
«esportazioni interne» potevano facilmente generare disavanzi
commerciali tali da rendere ulteriormente impraticabile la strada del
sostegno pubblico alla domanda, col rischio di far precipitare il paese
in deficit verso lo spettro della deflazione, si trattava di escogitare
uno stratagemma tale per cui l'onere dell'aggiustamento non ricadesse
più totalmente sui paesi debitori: uno stratagemma, cioè, che obbligasse
in qualche modo i paesi creditori a rimettere in circolo le proprie
eccedenze, esattamente come - grazie alle imposte e alla spesa pubblica -
avviene fra regioni in surplus e regioni in deficit all'interno di una
stessa nazione.
Non è il caso di ricordare qui la
proposta keynesiana, peraltro assai nota. Può semmai essere opportuno
rilevare come la crisi economica che stiamo tuttora attraversando
smentisca la plausibilità dei suggerimenti che ci vengono dalla
Sordinomics oggi imperante, secondo cui l'emersione e la persistenza di
squilibri globali nei flussi di importazioni ed esportazioni potrebbe
essere risolta solo con la deflazione della domanda dei paesi in
deficit: basti pensare che, dopo l'esplosione della crisi dei subprime,
la contrazione della domanda globale americana ha bensì ridotto il saldo
negativo della bilancia commerciale statunitense, ma contemporaneamente
ha contratto la domanda mondiale per le esportazioni della Cina e
soprattutto della Germania, con la conseguenza di diffondere la crisi
nel resto del mondo industrializzato.
Forzati all'inattività
Keynes era convinto che, se si fosse
dato corso alla sua proposta di Clearing Union, ciascun paese avrebbe
potuto godere dell'immenso incremento della ricchezza che il progresso
tecnico aveva reso possibile e che, con un piano statale che governasse i
ritmo degli investimenti e assicurasse l'equilibrio della bilancia dei
pagamenti (anche attraverso la limitazione dei movimenti di capitali e
la centralizzazione delle operazioni di cambio), sarebbe stato possibile
costruire «la Nuova Gerusalemme con quel lavoro che nella nostra
precedente vana follia mantenevamo inutilizzato e infelice in un ozio
forzato». Kalecki aggiunse che se la lotta di classe fosse riuscita a
imporre un programma per la piena occupazione, il capitalismo avrebbe
incorporato una riforma fondamentale, altrimenti si sarebbe dimostrato
«che è un sistema fuori moda che deve essere buttato via». Entrambi
furono dell'avviso che la deflazione portava con sé la disoccupazione,
il fascismo e la guerra. Ridotta all'osso, questa è ciò che con buona
approssimazione possiamo oggi definire come «la teoria keynesiana». Di
fronte a quanti straparlano di una sua inadeguatezza sopravvenuta, vien
fatto di dire che meriterebbe il Nobel per la pace: certo assai più di
un'Unione europea che ricorda in modo preoccupante quel famoso borghese
piccolo piccolo.
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SCAFFALI
SCAFFALI
Da Mical Kalecki al «Minotauro globale»
L'intervista (di Barbara Palombelli) ad
Alberto Sordi apparve su «la Repubblica» del 14 marzo 1995 e su di essa
richiamò tempestivamente l'attenzione Giovanni Mazzetti nella sua
introduzione a J. M. Keynes, «L'assurdità dei sacrifici»,
apparso quell'anno per Manifestolibri (pp. 47, euro 4,13). Una buona
silloge dei più importanti scritti di Keynes che si collocano nella
prospettiva qui presentata è quella recentemente curata da Luca Fantacci
per Donzelli: «J. M. Keynes, Risparmio e investimento», pp.
107, euro 9,50. L'analisi della crisi attuale che meglio ne ha colto la
dipendenza dal progressivo esaurirsi del meccanismo di riciclo delle
eccedenze globali assestatosi dopo la crisi di Bretton Woods è
consegnata al volume di Yanis Varoufakis, «Il Minotauro globale»
(Asterios, pp. 250, euro 25). L'Autore, economista all'Università di
Atene, ne riporta la genesi ad un «ininterrotto scambio di idee con
Joseph Halevi», un economista che i lettori di questo giornale ben
conoscono e apprezzano. Inutile invece cercare Kalecki in libreria: i
suoi scritti sono esauriti da tempo, ed è un vero peccato.
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