giovedì 1 novembre 2012

La politica è finita e la democrazia è una finzione Luigi Pandolfi, Economia & Politica


Il disastro economico che pervade da un capo all’altro l’Europa, la stessa crisi del modello europeo fondato sul primato e sui vincoli dell’unione monetaria, ripropongono, con maggiore vigore rispetto al recente passato, il tema della funzione della politica nelle nostre società e quello della sua autonomia rispetto agli altri poteri.

Nel secolo trascorso l’autonomia della politica si è inverata nell’esercizio collettivo di una critica dell’esistente attraverso i partiti di massa, nel conflitto tra visioni diverse, antitetiche, del mondo, tra differenti progetti di società.

Oggi i partiti, quelli di massa che abbiamo conosciuto nel corso del Novecento, non esistono più: sono stati sostituiti da simulacri di partito politico, dietro cui predominano soltanto le carriere personali dei leader ed il loro rapporto diretto con la massa elettrice, naturalmente passiva ed amorfa.
In quanto all’indipendenza di questi leader, e delle loro organizzazioni, rispetto al potere dei mercati, delle istituzioni bancarie e dei grandi gruppi industriali, è inutile dire che è inesistente: la loro è una funzione asseveratrice della ineluttabilità del modello economico in cui le nostre esistenze sono immerse.
Ogni giorno siamo inondati da notizie sull’andamento delle borse, sul rendimento dei titoli di Stato. Parole come spread, default, listini, indici, sono entrati ormai nel linguaggio corrente delle persone.
Cosa c’è dietro quei numeri, chi ne determina l’andamento, nessuno però lo sa. Tutti sanno però cosa significano le misure che vengono adottate dai governi nazionali per stare dietro alle fluttuazioni dei listini della borsa e dei tassi d’interesse sul debito, perché toccano la carne viva della loro esistenza, incidono sulle loro aspettative e sul proprio futuro.
In base a questo meccanismo, mentre la speculazione finanziaria rimane anonima, impersonale, le manovre di risanamento colpiscono uomini e donne in carne ed ossa, con nome e cognome. Non solo: gli stati e i governi, la cui funzione negli ultimi vent’anni è stata sistematicamente ridimensionata in nome del libero mercato, oggi vengono chiamati a soccorrere un’economia ammorbata dagli effetti delle fraudolente bancarotte del capitalismo finanziarizzato.
Il problema, tuttavia, è che le politiche portate avanti dai governi nazionali sotto la dettatura dei centri di potere finanziario europei,  lungi dal risolvere la crisi in atto, evidentemente la stanno aggravando. Quando si dice che la cura è peggiore del male. Come in molti fanno notare, ormai, i continui tagli alla spesa pubblica, figli delle dissennate politiche di austerità imposte dall’Europa, stanno avendo effetti esattamente opposti a quelli che si prefiggono: meno consumi e occupazione, più debito e speculazione. Si è innescata una spirale austerità/recessione, d’altro canto, che sta ammazzando le nostre economie, negando ogni prospettiva di futuro alle giovani generazioni.
Diciamolo più chiaramente: i parametri di compatibilità europea, da Maastricht in giù, fino a quelli imposti dai trattati sul Fiscal compact e sul Mes, in questo quadro appaiono sempre più come il cappio che stringe il collo dei paesi membri, non tanto la garanzia della loro stabilità od il presupposto del loro futuro benessere. E non c’è bisogno di evocare la Grecia per rendersene conto, basta guardare in casa propria.
E se ciò sta accadendo, è potuto accadere, è perché la “funzione politica” in Europa è ormai transitata dai governi e dai parlamenti alle burocrazie finanziare: oggi in Europa la politica economica la fa più la Bce che i governi nazionali e la stessa Commissione.
Come ha fatto correttamente osservare Mario Tronti, in suo libro intitolato La politica al tramonto, il tratto distintivo della politica moderna è stata la sua autonomia, il suo rapporto “agonico”, conflittuale, con l’economia e le sue leggi. Ma anche la sua capacità di scendere a compromessi, di trovare forme di mediazione col potere economico. Proprio quello che manca oggi, nel contesto di sostanziale esautoramento della politica da parte di organismi non democratici per definizione.
Ma chiediamoci: cos’è la politica senza conflitto? Qual è la sua funzione senza dialettica tra distinte opzioni programmatiche e visioni del futuro, senza l’appartenenza ad un campo anziché ad un altro? La risposta è semplice: né più né meno che sterile politicantismo, carrierismo, fredda amministrazione della cosa pubblica, subalternità al potere economico.
Esattamente quello che succede oggi nelle nostre società, dove, con la politica al crepuscolo, le differenze tra le varie soggettività in campo sono assolutamente fittizie, tutte facilmente ricomponibili nell’ambito della comune appartenenza al partito della conservazione dell’esistente.
Da questo punto di vista  la vicenda del governo Monti è stata proverbiale, chiarificatrice. Partiti e movimenti che per anni si sono combattuti aspramente si sono poi ritrovati insieme a comporre la maggioranza del nuovo governo dei professori. Forse perché hanno cambiato idea sulle loro vecchie posizioni? No, è tutta un’altra questione: ciò su cui per anni si sono divisi non costituiva nulla di dirimente rispetto agli attuali assetti economici e sociali, italiani ed europei. La lotta era condotta esclusivamente su un terreno che potremmo definire “politicista”: è stato un rinfacciarsi continuo di cose che, in linea generale, nulla avevano a che vedere con visioni contrapposte della realtà, con la prospettazione di diversi modelli di sviluppo per le nostre società. Per questo si sono potuti ritrovare insieme, a sostenere senza troppi sacrifici le misure proposte dal governo Monti.
Il grande tema di oggi è dunque l’autonomia della politica. Ma una politica autonoma ha bisogno, oltre che di forme organizzative adeguate e chiari punti di vista sulle questioni dirimenti dell’attualità, anche di una visione generale dei rapporti di forza in campo e di un’idea condivisa della prospettiva storica. Non sto proponendo un ritorno ad ideologie escatologiche, che andrebbero ad ingabbiare l’azione degli attori politici in visioni astratte della realtà, senza aderenza alle condizioni oggettive dell’economia e della società. No. Ciò di cui sto parlando è l’auspicio che nella nostra società possano trovare spazio, svilupparsi, nuove culture critiche della realtà, capaci di sostenere l’azione di partiti e movimenti realmente alternativi al modello capitalistico oggi dominante.
In questo senso lasciano ben sperare certe forme di movimentismo che stanno cercando di farsi strada nelle nostre società, promuovendo una critica dal basso degli attuali assetti di potere in Europa e delle folli politiche di austerità che gli stati membri stanno pervicacemente adottando. Essi, al di là delle rivendicazioni contingenti, possono contribuire a scuotere il palazzo ed un sistema politico anchilosato, ripiegato su se stesso, del tutto autoreferenziale. Possono contribuire a riformare le nostre democrazie, perché la questione dell’autonomia della politica, diciamolo chiaramente, ha molto a che fare con la loro qualità.
D’altronde sarebbe sbagliato considerare la democrazia  solo un insieme di regole a presidio della libertà dei cittadini. La sua vera essenza risiede nel dare rappresentanza e forza di governo alle idee che promanano dalla società, attraverso la mediazione delle forze politiche e delle organizzazioni di massa. Cosa succede oggi nelle nostre democrazie? L’azione dei governi è realmente l’espressione della volontà popolare? Il potere decisionale risiede effettivamente nel parlamento e nei governi nazionali? Chi afferma questo dice il falso, evidentemente. La crisi della politica risiede sempre più nella sua inutilità, essendo la sua attuale funzione quella di dare il crisma dell’ufficialità e della cogenza a decisioni prese in altre sedi.

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