Il 15 ottobre a Roma, nella rivoluzione in Val di Susa, nelle
battaglie dei precari della scuola, dentro un centro sociale minacciato
da uno sgombero, nelle occupazioni delle scuole e delle università, in
centinaia di manifestazioni abbiamo sempre camminato accanto a coloro
che, per opporsi al Sistema, hanno disobbedito allo Stato e alle sue
leggi. Le leggi che ti perseguitano se fai un blocco stradale ma non
colpiscono un padrone che licenzia, che ti inseguono quando occupi una
scuola ma non puniscono chi taglia miliardi all'istruzione pubblica, che
ti impediscono di usare uno spazio come luogo di aggregazione ma non
costringono le istituzioni a non trasformare interi quartieri in deserti
della socialità. In tanti anni abbiamo sempre visto la legge difendere i
più forti e condannare gli ultimi. Polizia, carabinieri e magistratura
da una parte, diritti e dignità dall'altra.
Eppure, a sparigliare le carte, a scardinare il semplicismo di alcuni
ragionamenti, a compromettere la logica manichea dei buoni e dei
cattivi, negli ultimi anni è stata la lotta alla mafia. La battaglia
difficile, troppo spesso osteggiata, contro la borghesia mafiosa, gli
assassini in cravatta, i corruttori in doppio petto, gli spacciatori col
SUV. Mentre alcuni combattevano il berlusconismo per le sue
ripercussioni economiche e sociali, altri lo attaccavano per i suoi
legami con la criminalità organizzata, per il sistema di corruzione e
clientele che lo alimentava, per il danno irreversibile che stava
causando alla democrazia del Paese. Allo stesso modo il Governo
Monti-Napolitano ha visto due opposizioni, solidali ma divise, sui temi
sociali, sulla democrazia, sull'economia e sull'antimafia.
Queste battaglie, queste opposizioni hanno scaturito, entrambe,
l'esigenza politica e sociale di costruire una presenza
politico-elettorale alternativa al Governo Monti, al berlusconismo, a
tutti coloro che hanno sostenuto, ieri e oggi, il sistema di potere che
ha governato l'Italia negli ultimi anni.
Non è scontato però che rivendicazioni, storie, culture diverse, pur
con nemici comuni possano e debbano incontrarsi. Cosa c'entra un
magistrato con un occupante di un'Università? Cosa possono avere in
comune un manifestante anti G8 e un uomo dello Stato che a Genova si è
schierato con chi ha insabbiato la Costituzione repubblicana? Cosa può
unire il sogno di un mondo senza sfruttamento con l'idea di
rivoluzionare la giustizia in Italia?
La risposta univoca e assoluta a queste domande, dense di
contraddizioni, non può esistere. Può tuttavia proporsi, nel dibattito
politico italiano, nel solco della “rifondazione” comunista, nella
discussione orizzontale sulla ricostruzione della sinistra, una nuova
ambizione, un nuovo tentativo di sintesi. Un impegno arduo, certamente
agevolato dalle leggi elettorali, che tuttavia può volgere la
discussione politica su percorsi ben più interessanti e utili della
semplice contesa sul posizionamento elettorale e sulle alleanze.
Argomento certamente importante ma che ha inebetito l'intellettuale
collettivo per troppi anni.
Non soltanto la sfida elettorale con Berlusconi, Monti e Bersani è
obiettivo della candidatura di Ingroia e della lista della “Rivoluzione
civile”, c'è dell'altro. C'è il tentativo, importante, di un'impresa
costituente che crei una comune idea di società. Abbiamo imparato da un
popolo rivoluzionario a “camminare domandando”, non possiamo essere noi a
rifiutare questa sfida.
La coesistenza di due percorsi, finora distinti, all'interno di una
proposta politico-elettorale unitaria richiede uno sforzo comune, una
cessione di sovranità reciproca, una messa in discussione trasversale.
Né l'arroganza di chi crede che alcuni siano inutili, né la pretesa di
avere sempre e comunque l'unica formula per la liberazione.
La sfida attuale è mettere insieme legalità e giustizia sociale,
lotta alla corruzione e lotta allo sfruttamento, riforma della giustizia
e abolizione della precarietà. Scindere disobbedienza e illegalità,
legalità e giustizialismo. Rendere compatibile la sacrosanta lotta per
la dignità e i diritti nelle carceri, con l'esigenza di assicurare la
reintegrazione sociale di chi delinque.
La “Rivoluzione civile” deve unire Peppino Impastato e Giovanni
Falcone, chi è in trincea sul tetto di una fabbrica e dentro un palazzo
di giustizia. Per questo Antonio Ingroia non basta, servono i soggetti
che in questi anni hanno rappresentato un'alternativa allo stato di cose
presente, gli eroi anonimi che hanno animato il conflitto sociale nelle
città italiane, nei luoghi di studio e di lavoro. Servono le donne e
gli uomini che non si sono arrese/i quando eliminavano diritti,
licenziavano, perseguitavano e ghettizzavano.
Con Antonio Ingroia ci devono essere le lotte, i conflitti, l'idea di
un mondo diverso. Altrimenti resta solo un magistrato, troppo simile a
chi in questi anni ci ha represso, arrestato, criminalizzato. Sappiamo
che può esserci una strada diversa, inclusiva e unitaria, l'abbiamo
chiamata “Rivoluzione Civile”. Ora basta soltanto percorrerla. Senza
lasciare niente e nessuno indietro.
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