È
diventato di uso comune dire che la politica è stata divorata
dall’economia, intendendo con questo che essa non ha più il potere di
decidere su temi economici, come i conti pubblici, i movimenti dei
capitali, l’ingigantimento della finanza, le direzioni di investimento.
Questo è in gran parte vero, a condizione che sia chiaro che essa non è
stata spossessata dei precedenti poteri da una guerra esterna o da
colpo di stato interno, se ne è spossessata per sua scelta, attraverso
regolari leggi dei suoi parlamenti, in genere sollecitate dai suoi
esecutivi. Il primato dell’economico è stato insomma una scelta del
politico, come erano stati gli accordi di Bretton Woods e il
“compromesso capitale-lavoro” dopo la seconda guerra mondiale in Europa.
Va ricordato perché l’antipolitica di destra e di sinistra, nella sua
alterna polemica con i partiti e il notabilato che ne tiene le redini,
ama dimenticarlo. Gran parte delle nuove sigle antipartito che si
presentano sulla scena, non solo italiana, si considerano vergini
dall’influenza del vecchio notabilato nato nel seno dei partiti o dei
sindacati, dando luogo alla corruttela o, quanto meno, ai personalismi
oggi imperanti.
La movenza di Alba “Facciamo esprimere tutti prima di decidere
qualsiasi cosa” e, non troppo differentemente, di tutti i “Cambiare si
può” e della diffidenza di molti movimenti verso qualsiasi forma di
organizzazione dà per scontato che il vizio principale dei partiti o
dei sindacati sia costituito non dai loro programmi ma dai loro vertici
decisionali, anche quando eletti nella forma più democratica.
Ogni potere superiore a un altro, anche se delegato, e dotato di una
durata sia pur transitoria, diventa oppressione, sosteneva Bakunin
contro Marx, che pure al di là di un sistema dei consigli non si
spingeva.
Ma questa tesi, che per Bakunin portava a un anarchismo sistematico,
oggi induce diverse sigle alla consultazione preliminare di tutti
prima di una decisione finale presa per maggioranze, come se una
società altro non fosse che l’addizione dei suoi componenti. Ma
ciascuno di loro può essere bene intenzionato, e tuttavia la somma
delle singole intenzioni non corrisponde all’interesse principale della
società di cui essi sono membri – fra l’individuo e la società di cui
fa parte non si tratta semplicemente di una diversità di grandezza, ma
della distanza fra l’interesse individuale e quello di una collettività
di uguali diritti, ma non di uguali bisogni e desideri.
Di qui la necessità di avere dei corpi intermedi che regolano il
passaggio da bisogni e desideri dei singoli a quelli del gruppo, che si
formano – come del resto anche nel singolo – dall’intessersi di
interessi materiali (di classe, dei proletari e non) e immateriali
(idee di società, ideologie, primato delle aristocrazie o
dell’uguaglianza, in una cultura laica e inscritta nel tempo, o nel
comando invariante di una religione, ecc.). L’abominio che ha colto da
un trentennio a questa parte le idee di società e di giustizia – tutte
catalogate nella formula negativa di “ideologie”– in favore di una
maggioranza matematica dei bisogni o desideri dei più, invece che di
una elaborazione degli uni e degli altri, è alla base dell’attuale
confusione dei linguaggi, cui resta in comune soltanto il rifiuto di
ogni verifica storica e la riduzione della democrazia a somma delle
spontaneità e delle immediatezze individuali. Di qui l’odio del partito
e del sindacato, come di qualsiasi forma di organizzazione che si
assegni un tempo e delle regole, fondandosi da un lato su un bilancio
di esperienza, cioè di storia e cultura, dall’altro su una scala di
valori agganciata a una tradizione più o meno laica o religiosa,
(collegate, ma difficilmente sincroniche.)
Di qui la complessità dei rapporti fra gli io e la società. Essi
sono molteplici e investono soprattutto la sinistra. La destra è sempre
per il principio di inuguaglianza, se non anche politica, di mezzi, di
situazione, di sapere fra una persona e l’altra; anzi, non solo fra
persone, ma fra paesi, il più forte è sempre presentato come quello che
sottometteva il più debole per civilizzarlo. In questi giorni si
celebra il cinquantenario dell’indipendenza dell’Algeria, e tutta la
Francia sente il bisogno di discutere se sia giusto o no scusarsi con
gli algerini per averli oppressi durante quasi un secolo e mezzo.
Quando mai! Al più si può riconoscere che non bisognava affamarli,
l’atto di prepotenza della colonizzazione ha mille ragioni, niente
scuse e pentimenti. E poi neanche gli algerini sono stati gentili nel
liberarsi da chi li aveva fatti, per oltre un secolo, schiavi e quando
si sono ribellati ci sono stati otto anni di una guerra sporca.
Ma torniamo alla sinistra, che si rifà invece a un principio di
uguaglianza di diritti, e – almeno in linea di possibilità – di
proprietà e di valori (il rispetto interculturale). Similmente al
mercato, che poggia su dati quantitativi, anch’essa si dice che la
somma dei desideri dei singoli realizzerebbe quello della “società”. Al
partito più partito di tutti, che è stato quello comunista del
Novecento, va sostituita la maggioranza di quelli che si definiscono
democratici o simpatizzanti, sono le famose primarie, ed è ovvio che
non sono più l’affare interno di un gruppo politico preciso
nell’analisi e nel programma, ma di chiunque si dica vagamente
interessato ad esso.
Da dove è venuta questa svolta? Sicuramente dalla insufficienza di
regole democratiche nei partiti, mancanza della quale peraltro non
viene indicata né l’origine né la storia. Tra il partito comunista,
abominato per la sua gerarchia immutabile e il Pd, concepito come
assolutamente democratico, è sicuro che malgrado il fatale “centralismo
democratico” il primo implicasse un flusso dal centro alle periferie, e
dalle periferie al centro, sicuramente più consistente di quello nel
partito attuale, che manca del tutto. Il sedicente “centralismo
democratico” era detestabile, senonché non è stato sostituito dalla
messa in atto di regole strette a garanzia dei diritti del singolo
iscritto, ma dalla vaghezza di confini e regole di un partito
d’opinione; non tenuto a nessun programma preciso. L’essere, anche,
simile a un esercito in guerra – guerra di classe – lo “proteggeva” da
troppe procedure che ne avrebbero diminuito l’efficacia… argomenti che
conosciamo.
Ma non si è andati verso un esame più attento delle procedure, si è
andati alla liquidazione del progetto di società nella quale un partito
si identificava, per il quale vi si aderiva o no. Più a fondo, la
preminenza che esso dichiarava al programma di società rispetto alla
persona, giungendo fino a negarne la specificità, ha indotto per primo
il movimento del ’68 a spostare l’accento sulla persona, finanche sulla
maggiore responsabilizzazione della persona rispetto al partito o alla
società. Raramente un partito socialista o comunista ha visto emergere
di colpo i suoi leader carismatici come è successo ai gruppi
extraparlamentari degli anni ’70. Una parte della, peraltro
transitoria, simpatia suscitata da Mario Segni veniva da questo ordine
di argomentazione. Via il progetto, l’idea, l’ideologia, quelli che
contano sono lui o lei, amati e rispettati o incolpabili e punibili.
Siamo arrivati all’estremo dei vizi della democrazia rappresentativa.
La critica alla forma partito ha portato alla superfetazione di
qualcuno che non è né l’io né il noi d’un perimetro sociale, ma un
personaggio costruito in gran parte sull’immagine ed espresso più da
sensazioni ed emozioni che da un ragionare su concetti ben esaminati,
voltati e rivoltati.
Che in Italia questa demonizzazione della politica abbia portato
tutto il parlamento ad affidarsi alla “tecnicità” del governare, a
mettere al primo posto le cifre, su comando dei parametri europei, non
può dunque stupire. È il reciproco dell’opinione, una politica tutta
contabile e monetaria: che cosa c’è di più indiscutibile che un
bilancio in pareggio? Se questo comporta una devastazione nei servizi
che aiutano i meno fortunati a vivere, spostarsi o curarsi, e tutti i
giovani a istruirsi, non è cosa che riguardi le matematiche e il saldo
finale dopo le sottrazioni. Di addizioni in entrata il bilancio
pubblico ne ha poche in tutta Europa, come documentava ieri Mario
Pianta (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Economia-europea-sono-pessime-quelle-previsioni-16018).
Se quel che è sottratto al pubblico è ceduto a poco prezzo al privato,
questo ai fini contabili può apparire perfino un arricchimento del
pubblico, confuso di regola con lo stato. La corposità delle vite, la
fatica, il poco spazio che resta per la salute o il riposo,
l’arretramento culturale non sono voci di bilancio e con la sua qualità
“tecnica” non hanno a che vedere. È un’altra idea della politica
rispetto a questa innovazione che la sta liquefacendo nell’effimero
dell’immagine o nell’astratto della contabilità.
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