Bersani pensava di avere sistemato tutto e di avere il pallino in mano.
In effetti si era mosso con abilità. La mossa di fine luglio gli aveva
fruttato un notevole vantaggio. Dicendo a Casini: tu organizza i
moderati che io penso ai progressisti, aveva tacitato d’un botto destra e
sinistra, quella interna e quella esterna. Il clamore e la netta
vittoria alle primarie avevano fatto il resto. Il Pd risultava al centro
di tutto. Vendola non era andato al di là del risultato che aveva avuto
Bertinotti nelle prime primarie con Prodi, l’insidioso attacco di Renzi
era stato rintuzzato e comunque aveva trasformato le primarie di
coalizione in una competizione interna al Pd. Con il risultato
collaterale, ma non trascurabile, soprattutto per il dopo, di rafforzare
l’osservanza alla carta di intenti, più volte ribadita dallo stesso
Vendola in polemica con Renzi. Ovvero Bersani aveva saputo usare i due
suoi competitors, per farli configgere tra loro e trarne il massimo
vantaggio.
Ma c’è sempre un imprevisto in politica. Questo si è presentato con
il volto grigio di Monti. Mossa imprevista e che ha spiazzato lo stesso
leader del Pd. In molti si sono chiesti: chi glielo fa fare a Monti che
tutto sommato ha più di una ragione per potere puntare all’alto colle?
Si è sottovalutata la pressione del Vaticano, che certamente non può
vedere di buon occhio l’alleanza Bersani-Vendola, per quanto la carta di
intenti sia moderatissima persino sui diritti e nulla dica sui
matrimoni gay. Nello stesso tempo il famoso “centro” non riesce a
coagularsi se non ha un punto di riferimento fuori dal pollaio. Infine
non si dimentichi che Monti è uomo della Trilateral Commission, nonché
di altri think thank del capitalismo mondiale, i quali vogliono andare
sul sicuro per quanto riguarda l’Italia. Ovvero preferiscono che Bersani
sia fortemente condizionato e spinto ad un’alleanza postelettorale con
il centro, anziché restare unico padrone del campo.
L’esito di tutto ciò è ancora oscuro, ma è già evidente che il mare
calmo del centrosinistra (che tra l’altro non si chiama neppure così,
visto che il termine sinistra ingenera tremore di per sé) si è
notevolmente increspato. Di fronte a questa situazione il Pd avrebbe di
fronte due possibili strade: o quella della contrapposizione con Monti o
la competizione sul suo stesso terreno. La prima strada comporterebbe
una virata a sinistra. Ma questa non pare proprio nelle corde del gruppo
dirigente del Pd. Del resto la notevole affermazione dei renziani
qualche cosa vorrà pur dire. Resta perciò la seconda che implica un
ulteriore scivolamento su posizioni moderate della coalizione
presumibilmente vincente.
In questo quadro, in parte nuovo e comunque in movimento, l’ipotesi
della costruzione di una lista alternativa e di sinistra non solo
diventa più necessaria, ma anche possibile. Certo non si può pretendere
quello che comunque non potrebbe essere. In pochi giorni non si fa né un
nuovo partito né una solida coalizione. Porsi obiettivi di questa
natura significa ingannare se stessi oppure prepararsi a bypassare
completamente l’appuntamento elettorale lavorando nella prospettiva di
tempi più lunghi. In questo modo però si lascerebbe una prateria ai
grillini e si alimenterebbe l’area dell’astensione.
Conviene perciò fare di tutto per tentare la strada della costruzione
di questa lista. Da quando se ne parla sono già emerse due ipotesi:
quella di una lista dai contenuti nettamente antiliberisti, la cui
collocazione più naturale sarà all’opposizione e quella di una lista più
incentrata su temi concernenti diritti e legalità in posizione
dialogante con i futuri vincitori. A me pare che solo la prima delle due
ipotesi è in grado di avere successo, anche perché l’unica delle due ad
avere la potenzialità di contenere anche l’altra.
In altre parole non si può partire dai dieci punti di Ingroia che
neppure nominano l’Europa, ma dagli elementi programmatici di Cambiare
si può che, per quanto ampliabili e articolabili, segnano una netta
discriminante proprio sul tema europeo e del fiscal compact. In secondo
luogo bisogna che tanto i partiti esistenti (parliamoci chiaro, mi
riferisco alla Fds, segnatamente al Prc, e all’Idv) non pretendano di
mettere il cappello sull’operazione, così come i movimenti non possono
trascurare l’apporto concreto e determinate che queste forze possono e
devono avere per raggiungere un risultato elettoralmente concreto,
ovvero superare il quorum del 4%. Il modo per farlo c’è. Bisogna che le
candidature tengano conto della necessità di essere rappresentative
della sinistra diffusa, dei movimenti, delle nuove esperienze, di
settori della società civile in lotta. Non si tratta di vagheggiare
primarie che non si avrebbe il tempo né la forza per organizzare in modo
serio, ma di unire determinazione, umiltà e buon senso, ovvero senso
della realtà. Non si può sperare di organizzare e rappresentare
movimenti sociali attraverso una tornata elettorale, per giunta dai
tempi convulsi, ma di eleggere figure rappresentative degli stessi sì.
Altrove in Europa si è cominciato così e si è poi saputo proseguire con
buoni esiti. Diamoci da fare. Cambiare si può, a sinistra.
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