Nel conflitto tra finanza e politica, cruciale è demolire l'apparato
cultural-mediatico che mette sul trono la prima e toglie alla seconda
il ruolo di ordinatrice dei rapporti sociali Per comprendere le
ragioni che permettono alla finanza - nonostante la crisi attuale - di
condizionare sviluppo economico e progresso sociale occorre prestare
attenzione a due questioni: il ruolo della finanza nello sviluppo
industriale e il rapporto tra Stato e capitalismo.
Per quanto riguarda il ruolo della finanza, il capitalismo è capitalismo finanziario o non è. In tutte le esperienze di sviluppo produttivo, per quanto in modo diverso, la crescita industriale si è sempre intrecciata a una presenza incisiva della finanza. In un contesto produttivo tendenzialmente "anarchico" per la presenza di grandi imprese operanti su mercati oligopolistici è importante la funzione svolta dalla finanza di programmare, coordinare e monitorare gli sviluppi interni del capitale industriale. Senza tale intervento, il quadro macroeconomico difficilmente presenterebbe quel grado di stabilità necessario a garantire l'espansione dei profitti. Di fatto, le classi dirigenti affidano alla finanza il compito di dare coerenza all'anarchismo delle strategie industriali e di favorire la crescita complessiva nella direzione scelta dai poteri egemoni.
Il problema è che, pur in una realtà di produzioni a scala globale, il reddito da capitale estraibile dall'attività produttiva è insufficiente a remunerare l'ingente volume delle attività finanziarie esistenti alle condizioni richieste dalla finanza. Di qui la fragilità della situazione attuale e l'incapacità della finanza di garantire crescita industriale e stabilità macroeconomica.
Per quanto riguarda il secondo punto, il rapporto tra Stato e finanza, la stessa posizione "centrale" dell'intermediazione finanziaria tra industria e rentier le conferisce una funzione strutturale. Per coordinare efficacemente le strategie industriali essa deve gestire i rapporti con i soggetti che le forniscono i fondi. Si tratta di settori sociali molto variegati - imprenditori e proprietari, grandi e piccoli, ceti professionali diversi, appartenenti a differenti aree sociali e territoriali - che la finanza deve tener aggregati attorno agli interessi della finanza e dell'industria, prospettando loro una redditizia partecipazione al reddito da capitale e sostenendo che il loro consumo (a credito) e i benefici del "welfare finanziario" (casa, sanità istruzione, pensioni offerte da assicurazioni provate) sono meglio garantiti dai mercati finanziari.
La funzione di raccordo sociale svolta dalla finanza è esplicitamente in alternativa alla concorrente funzione di organizzazione politica della società attribuita normalmente alla sfera pubblica e alla politica. Il rapporto tra finanza e Stato presenta storicamente una varietà di equilibri e, attualmente, è indubbia la netta subordinazione del secondo alle direttive di una finanza gestita da una classe dirigente globale e per obiettivi economici sovranazionali. Non è una condizione inevitabile dato che in alcune fasi storiche si è registrato il predominio degli interessi economici sui bisogni sociali, ma in altri momenti gli interessi economici sono stati imbrigliati da una pressione sociale favorita dall'affermarsi di un orientamento (keynesiano) verso maggiori tutele sociali. L'emergere di uno o dell'altro equilibrio è la risultante dei rapporti di forza che si affermano nella società e che si traducono nella capacità di sollecitare comportamenti e di realizzare istituzioni che trovano espressione in uno specifico equilibrio tra necessità sociali ed esigenze economiche.
Il compromesso che si realizza tra economia e società è stabile se è sostenuto da un corrispondente apparato culturale che si avvale di argomentazioni (dell'economia, della sociologia, della politica) su cosa è la realtà sociale, come si struttura e come si deve evolvere e che, veicolata dai media, diviene l'ideologia dominante produttrice di senso comune diffuso. La stretta corrispondenza tra gli strumenti di politica economica messi in campo e l'ideologia che permette di acquisire il consenso nei confronti di tali politiche è il frutto di un'operazione di lunga lena. Per diventare egemone una visione economico-politica prende necessariamente tempo per definirsi e consolidarsi, ma anche la sua messa in discussione quando dovesse dimostrarsi incapace di soddisfare le aspettative di benessere e di civiltà da essa suscitate prende tempo prima di essere superata da un progetto alternativo. Nella fasi intermedie di conflitto tra posizioni alternative, l'instabilità politica e sociale può assumere i contorni preoccupanti di un dominio economico svincolato da realistiche prospettive di progresso sociale e civile e nel quale non è raro che la ricerca di consenso sia sostituita dalla sua imposizione.
Se l'attuale capitalismo finanziario non è in grado di estrarre dall'attività produttiva un valore sufficiente a soddisfare gli impegni finanziari nei confronti dei rentier e il mantenimento dei livelli di welfare del mondo occidentale, si prospetta inevitabilmente una drastica alternativa: o il ridimensionamento della preminenza sociale della finanza, aprendo a una società più equilibrata, o il ridimensionamento delle attese di civiltà con l'imposizione di un contesto di obbedienza e disciplina.
Di fronte a un compromesso fra politica e finanza che vede la subordinazione materiale e culturale della prima alla seconda, non è sufficiente, anche se necessario, prospettare un progetto alternativo di politica economica che introduca istituzioni e regole che limitino l'azione della classe dirigente globale. E' necessario accompagnare questa alternativa con una pratica diffusa che rivendichi la necessità culturale e l'attendibilità politica di un radicale riorientamento del governo della cosa pubblica. Diventa prioritario promuovere - nelle teste delle persone e quindi nel senso comune e nella politica - la convinzione che una società con più uguaglianza e protezione sociale sia giusta, possibile e conveniente e che, per arrivarci, è indispensabile ridimensionare l'attuale potere, anche culturale, della finanza e ricondurla alla sua funzione di sostegno del progresso sociale e civile.
Per quanto riguarda il ruolo della finanza, il capitalismo è capitalismo finanziario o non è. In tutte le esperienze di sviluppo produttivo, per quanto in modo diverso, la crescita industriale si è sempre intrecciata a una presenza incisiva della finanza. In un contesto produttivo tendenzialmente "anarchico" per la presenza di grandi imprese operanti su mercati oligopolistici è importante la funzione svolta dalla finanza di programmare, coordinare e monitorare gli sviluppi interni del capitale industriale. Senza tale intervento, il quadro macroeconomico difficilmente presenterebbe quel grado di stabilità necessario a garantire l'espansione dei profitti. Di fatto, le classi dirigenti affidano alla finanza il compito di dare coerenza all'anarchismo delle strategie industriali e di favorire la crescita complessiva nella direzione scelta dai poteri egemoni.
Il problema è che, pur in una realtà di produzioni a scala globale, il reddito da capitale estraibile dall'attività produttiva è insufficiente a remunerare l'ingente volume delle attività finanziarie esistenti alle condizioni richieste dalla finanza. Di qui la fragilità della situazione attuale e l'incapacità della finanza di garantire crescita industriale e stabilità macroeconomica.
Per quanto riguarda il secondo punto, il rapporto tra Stato e finanza, la stessa posizione "centrale" dell'intermediazione finanziaria tra industria e rentier le conferisce una funzione strutturale. Per coordinare efficacemente le strategie industriali essa deve gestire i rapporti con i soggetti che le forniscono i fondi. Si tratta di settori sociali molto variegati - imprenditori e proprietari, grandi e piccoli, ceti professionali diversi, appartenenti a differenti aree sociali e territoriali - che la finanza deve tener aggregati attorno agli interessi della finanza e dell'industria, prospettando loro una redditizia partecipazione al reddito da capitale e sostenendo che il loro consumo (a credito) e i benefici del "welfare finanziario" (casa, sanità istruzione, pensioni offerte da assicurazioni provate) sono meglio garantiti dai mercati finanziari.
La funzione di raccordo sociale svolta dalla finanza è esplicitamente in alternativa alla concorrente funzione di organizzazione politica della società attribuita normalmente alla sfera pubblica e alla politica. Il rapporto tra finanza e Stato presenta storicamente una varietà di equilibri e, attualmente, è indubbia la netta subordinazione del secondo alle direttive di una finanza gestita da una classe dirigente globale e per obiettivi economici sovranazionali. Non è una condizione inevitabile dato che in alcune fasi storiche si è registrato il predominio degli interessi economici sui bisogni sociali, ma in altri momenti gli interessi economici sono stati imbrigliati da una pressione sociale favorita dall'affermarsi di un orientamento (keynesiano) verso maggiori tutele sociali. L'emergere di uno o dell'altro equilibrio è la risultante dei rapporti di forza che si affermano nella società e che si traducono nella capacità di sollecitare comportamenti e di realizzare istituzioni che trovano espressione in uno specifico equilibrio tra necessità sociali ed esigenze economiche.
Il compromesso che si realizza tra economia e società è stabile se è sostenuto da un corrispondente apparato culturale che si avvale di argomentazioni (dell'economia, della sociologia, della politica) su cosa è la realtà sociale, come si struttura e come si deve evolvere e che, veicolata dai media, diviene l'ideologia dominante produttrice di senso comune diffuso. La stretta corrispondenza tra gli strumenti di politica economica messi in campo e l'ideologia che permette di acquisire il consenso nei confronti di tali politiche è il frutto di un'operazione di lunga lena. Per diventare egemone una visione economico-politica prende necessariamente tempo per definirsi e consolidarsi, ma anche la sua messa in discussione quando dovesse dimostrarsi incapace di soddisfare le aspettative di benessere e di civiltà da essa suscitate prende tempo prima di essere superata da un progetto alternativo. Nella fasi intermedie di conflitto tra posizioni alternative, l'instabilità politica e sociale può assumere i contorni preoccupanti di un dominio economico svincolato da realistiche prospettive di progresso sociale e civile e nel quale non è raro che la ricerca di consenso sia sostituita dalla sua imposizione.
Se l'attuale capitalismo finanziario non è in grado di estrarre dall'attività produttiva un valore sufficiente a soddisfare gli impegni finanziari nei confronti dei rentier e il mantenimento dei livelli di welfare del mondo occidentale, si prospetta inevitabilmente una drastica alternativa: o il ridimensionamento della preminenza sociale della finanza, aprendo a una società più equilibrata, o il ridimensionamento delle attese di civiltà con l'imposizione di un contesto di obbedienza e disciplina.
Di fronte a un compromesso fra politica e finanza che vede la subordinazione materiale e culturale della prima alla seconda, non è sufficiente, anche se necessario, prospettare un progetto alternativo di politica economica che introduca istituzioni e regole che limitino l'azione della classe dirigente globale. E' necessario accompagnare questa alternativa con una pratica diffusa che rivendichi la necessità culturale e l'attendibilità politica di un radicale riorientamento del governo della cosa pubblica. Diventa prioritario promuovere - nelle teste delle persone e quindi nel senso comune e nella politica - la convinzione che una società con più uguaglianza e protezione sociale sia giusta, possibile e conveniente e che, per arrivarci, è indispensabile ridimensionare l'attuale potere, anche culturale, della finanza e ricondurla alla sua funzione di sostegno del progresso sociale e civile.
La versione completa di quest'articolo è disponibile sul sito www.sbilanciamoci.info
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