Ecco s’avanza uno strano progetto.
Parafrasando un’antica canzone popolare, si può così definire la
proposta “cambiare si può”, che in queste settimane sta attraversando la
sinistra italiana, da una trincea all’altra, da una riunione a
un’assemblea, da una chiacchiera a un ragionamento. Viene da pensare,
ancora prima di valutare politicamente tutto ciò, che come al solito si
sta stratificando un eccesso di discussione, un estenuante confronto
(formale e informale), insomma un’ansiosa, esagerata dialettica.
Va bene o non va bene? Dove andiamo, ma
dobbiamo per forza andare da qualche parte? Chi siamo, ma poi siamo
davvero qualcosa oppure ci stiamo autoingannando? E’ qui la sinistra o
ci stiamo arrovellando intorno a uno stato d’animo? Ma poi, è proprio
obbligatorio quest’arancione?
In attesa di rispondere a tutti questi
interrogativi, cosa che potrebbe andare avanti per lungo tempo, oltreché
non riuscire a trovare approdi certi, ci si potrebbe intanto affidare a
Bob Dylan, che già quarant’anni fa sosteneva che “la risposta è nel
vento”. Lasciando che gli arrovellatori si arrovellino, è bene comunque
esplorare questa nuova occasione che ci viene offerta. E non perché, di
questi tempi così avari e avversi, appare come l’unica possibilità di
non restare schiacciati nei nostri angoletti minoritari. Sarebbe davvero
avvilente, se (solo) così fosse.
In questo progetto c’è molto altro: c’è
un sistema critico e una visione culturale che insieme compongono
un’alternativa possibile. Un combinato di contenuti politici che allude a
un orizzonte raggiungibile: beninteso, attraverso l’opera di contrasto e
l’azione di lotta contro il pensiero unico panfinanziario che ci domina
e condiziona. Mai prima d’ora si era registrata un’omogeneità, un
consenso tanto larghi intorno a un comune sentire che di fatto è già
diventata una piattaforma politica. Il lavoro, lo stato sociale, il
modello economico, la cultura, l’ambiente, i diritti civili, le libertà.
In sostanza, tutto quello che il sistema politico dominante nega o
mistifica.
C’è dunque da far vivere tutto ciò in
una concreta prospettiva, che riunisca forze e intelligenze in grado di
animarla e gestirla. Un passaggio difficile perché sappiamo quanto le
nostre soggettività (singole e collettive) siano alquanto restie a
confondersi e contaminarsi. Non per diffidenza o, peggio, sfiducia
nell’altro, ma perché siamo l’esito, piaccia o non piaccia, di storie e
culture non proprio leggerissime, che spesso c’imprigionano e ci
accartocciano. E siccome a nessuno permetteremmo di usare la carta
vetrata per smussare i nostri spigoli, ecco che questo transito lo
dobbiamo attraversare volontariamente. Lasciando lungo la strada qualche
certezza e raccogliendo più d’un dubbio.
Del resto, sarebbe sbagliato per
chiunque ritenersi depositario di verità inconfutabili da brandire come
un primato egemonico. Né, d’altra parte, si può rinunciare al
consolidato di esperienze che comunque agiscono e sono presenti.
E’ che siamo, tutti e tutte, una
parzialità, un’insufficienza. E che dunque abbiamo bisogno degli altri e
delle altre. Si tratta allora di riconoscersi reciprocamente partecipi
di una battaglia comune, attribuirsi pari dignità e predisporci a
imparare piuttosto che a insegnare.
Non è un appello stucchevole al
vogliamoci bene, ai buoni sentimenti, poiché sappiamo che in fondo
nessuno è disponibile a rinunciare a se stesso. E’ anche, indubbiamente,
un esercizio di generosità. Ma è soprattutto l’unica condizione che può
permettere di realizzare quanto intendiamo raggiungere. Se poi, lungo
questo itinerario, riuscissimo anche a tratteggiare un modo diverso di
stare insieme, di costruire un’organizzazione senza gerarchie né
burocrazie, chissà, potremmo perfino contribuire a definire quella nuova
forma della politica che ci permetterebbe di affrancarci dal nostro
passato. Senza rimorsi né rimpianti.
lavorincorsoasinistra.it
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