La crisi economica è molto grave: questo
lo sanno tutti, e la cura, che riguarda quasi tutti i paesi, e in
particolare quelli con forte debito pubblico, consiste in una severa
austerità, il cui scopo è quello di ridurre deficit e debito, fino a
raggiungere – in futuro – il pareggio di bilancio. Purtroppo,
l’austerità crea un killer silenzioso: poiché riduce la domanda
complessiva, sia in ciascun paese, sia nell’economia mondiale, tende a
ridurre il gettito tributario e, per questa via, ad aumentare il
deficit.
Se a questo circolo vizioso si aggiunge
il comportamento delle banche, sollecitate da regole decise in sede
burocratica (Basilea II e, tra poco, Basilea III), che restringono il
credito alle imprese al crescere delle sofferenze, anche in presenza di
liquidità offerta quasi gratuitamente dalle banche centrali, è ovvio che
la crescita economica sia assente e che l’intera struttura produttiva
di ciascun paese possa essere scossa fin dalle fondamenta. È il caso di
Grecia, Portogallo e Spagna, ma anche dell’Italia, dove molte imprese
industriali chiudono o traslocano verso siti che si presumono meno
costosi, le catene commerciali vedono diminuire i fatturati, il turismo è
in calo, il settore delle costruzioni è in profondo rosso.
Da questo tornado economico si salvano
soltanto alcune imprese pubbliche, grandi oligopoli finanziari (ma con
cadute anche epocali), settori di rendita o che offrono beni e servizi
di sussistenza. Tutto il resto della produzione è a rischio. Quando tali
situazioni si presentano – ed è evento tanto raro quanto distruttivo –
sembra che i governi alzino le mani. Del resto, la cultura economica
dominante è stata sorpresa dalla crisi, ma, riavutasi, non ha cambiato
le proprie sicurezze, e le comunica ai governi; tanti “ponzi pilati”
attribuiscono così la crisi, le chiusure e la perdita di capacità
produttiva e di forza lavoro, a qualche difetto in genere poco
definibile: lo spreco, la pigrizia dei lavoratori, la bassa produttività
(sempre e solo del lavoro).
I più allenati attribuiscono il disastro
alle politiche europee, agli speculatori, alla difesa di valori
tradizionali e ormai desueti (come la giustizia sociale, i diritti
civili, lo Stato sociale universale, per non parlare della piena
occupazione ecc.): lo scopo è sempre quello di allontanare dai governi
la responsabilità della crisi, scaricandola sui propri cittadini o su
governi di altri paesi.
La crisi è di domanda
Nessuna delle componenti che muovono il prodotto nazionale è realmente attiva: le esportazioni languono, perfino nei paesi emergenti, anche perché le importazioni sono frenate dalla caduta dei redditi; gli investimenti sono quasi fermi, perché le imprese non vedono aumenti di domanda per i loro prodotti e servizi; la spesa pubblica è in declino, per le misure di austerità; i consumi calano meno del reddito disponibile delle famiglie, ma ciò riduce la propensione al risparmio e, con questa, anche la propensione ad investire da parte delle famiglie.
Nessuna delle componenti che muovono il prodotto nazionale è realmente attiva: le esportazioni languono, perfino nei paesi emergenti, anche perché le importazioni sono frenate dalla caduta dei redditi; gli investimenti sono quasi fermi, perché le imprese non vedono aumenti di domanda per i loro prodotti e servizi; la spesa pubblica è in declino, per le misure di austerità; i consumi calano meno del reddito disponibile delle famiglie, ma ciò riduce la propensione al risparmio e, con questa, anche la propensione ad investire da parte delle famiglie.
In alcuni paesi la situazione è migliore
(Nord Europa), ma anche lì la crisi si fa sentire, perché nessun paese
vive isolato dal resto del mondo. Se le componenti della domanda sono
frenate, e le politiche sono di offerta, come l’austerità, è difficile
vedere “la luce alla fine del tunnel”.
Le nazionalizzazioni
Esistono, tuttavia, politiche che riguardano l’offerta che possono avere un effetto sulla domanda: le occasioni non sono numerose, ma alcune sono state individuate già all’indomani dello scoppio della crisi, come la cosiddetta riconversione ecologica dell’economia. Il progresso su questo fronte, però, dopo un’iniziale intensità, è andato calando, sia perché non vi era una strategia applicabile alla realtà dei diversi paesi, sia per l’impatto di queste politiche sulla finanza pubblica. Quella della green economy è solo una delle possibilità. Ne esiste un’altra che attende solo di trovare gli occhi aperti per afferrarla. Consiste, in particolare, nel nazionalizzare tutte quelle imprese che stanno contribuendo a far diventare più profonda la crisi, e a renderle, proprio attraverso l’investimento per la loro trasformazione, sia un elemento della nuova domanda effettiva, sia un ostacolo all’approfondimento della crisi, attraverso la salvaguardia dell’occupazione.
Esistono, tuttavia, politiche che riguardano l’offerta che possono avere un effetto sulla domanda: le occasioni non sono numerose, ma alcune sono state individuate già all’indomani dello scoppio della crisi, come la cosiddetta riconversione ecologica dell’economia. Il progresso su questo fronte, però, dopo un’iniziale intensità, è andato calando, sia perché non vi era una strategia applicabile alla realtà dei diversi paesi, sia per l’impatto di queste politiche sulla finanza pubblica. Quella della green economy è solo una delle possibilità. Ne esiste un’altra che attende solo di trovare gli occhi aperti per afferrarla. Consiste, in particolare, nel nazionalizzare tutte quelle imprese che stanno contribuendo a far diventare più profonda la crisi, e a renderle, proprio attraverso l’investimento per la loro trasformazione, sia un elemento della nuova domanda effettiva, sia un ostacolo all’approfondimento della crisi, attraverso la salvaguardia dell’occupazione.
Vorrei fare una breve classifica dei
candidati:
• le imprese che inquinano e non sono affidabili nel
realizzare un processo di risanamento;
• quelle che sopravvivono
soltanto sfruttando la forza lavoro o utilizzando manodopera
clandestina, o non retribuendo i lavoratori;
• quelle che evadono il
fisco e gli oneri sociali;
• quelle con forte grado di monopolio, che
profittano del dumping ambientale in altri paesi e chiudono gli
impianti;
• quelle monopolistiche che trasferiscono altrove impianti e
controllo dei mercati per profittare del dumping sociale;
• quelle che
hanno carattere strategico sul mercato mondiale e non hanno capacità
finanziarie sufficienti per conservare capacità e occupazione;
• quelle
che, per difficoltà finanziarie, non sono in grado di aggiornare
impianti e professionalità;
• quelle non strategiche, ma che operano in
settori strategici, cui manca il credito di esercizio o la cui
condizione finanziaria è negativa;
• quelle acquistate e/o salvate da
imprenditori incapaci o appartenenti alla criminalità organizzata, o da
semplici truffatori;
• quelle che hanno corrotto amministratori e
funzionari pubblici;
• quelle che non rispettano gli impegni
sottoscritti quando hanno ottenuto incentivi;
• quelle, pubbliche e
private, di servizio locale responsabili di aumenti tariffari derivanti
da imperizia, corruzione, mancata manutenzione (e queste stesse imprese
quando non rispettano gli obiettivi dei contratti di servizio);
•
quelle, infine, cui è stata attribuita la responsabilità per la
produzione di beni pubblici, di merito, sociali, e non rispettano gli
obblighi pubblici.
Se guardiamo alla realtà dei processi di
dismissione in Italia, possiamo immaginare una serie anche più ampia di
casi. Il lettore, a sua volta, può esercitarsi a scrivere il nome di
imprese che conosce accanto a ciascuna delle categorie indicate nella
lista (cominciando con Ilva di Taranto, Alcoa di Portovesme e Lucchini
di Piombino). Interessano, naturalmente, soprattutto quelle imprese che
nelle condizioni indicate hanno effetti negativi moltiplicativi –
sull’indotto, la subfornitura, il territorio, la ricerca, l’innovazione,
l’ambiente – e le cui dimensioni rischiano di mettere in difficoltà la
bilancia dei pagamenti.
I problemi
Vi sono molte difficoltà nel realizzare nazionalizzazioni. Uscire dalle politiche tradizionali implica cambiare mentalità sul rapporto tra settore privato e pubblico, senza abbandonare i principi del mercato – un esercizio complesso quando l’impresa privata è considerata capace di risolvere, meglio di quella pubblica, tutti i problemi posti dal mercato, anche se la crisi dimostra il contrario –. E d’altro canto, le imprese pubbliche sono ancora presenti, soprattutto nell’Europa dell’Unione, e in genere riguardano realtà che si considerano strategiche. Benché una definizione di cosa sia strategico manca, dopo tanti anni di poca attenzione alla programmazione, le istituzioni esistono; in Italia, la Cassa depositi e prestiti è stata il luogo di raccolta delle partecipazioni azionarie dello Stato nel settore energetico e in quello meccanico.
Vi sono molte difficoltà nel realizzare nazionalizzazioni. Uscire dalle politiche tradizionali implica cambiare mentalità sul rapporto tra settore privato e pubblico, senza abbandonare i principi del mercato – un esercizio complesso quando l’impresa privata è considerata capace di risolvere, meglio di quella pubblica, tutti i problemi posti dal mercato, anche se la crisi dimostra il contrario –. E d’altro canto, le imprese pubbliche sono ancora presenti, soprattutto nell’Europa dell’Unione, e in genere riguardano realtà che si considerano strategiche. Benché una definizione di cosa sia strategico manca, dopo tanti anni di poca attenzione alla programmazione, le istituzioni esistono; in Italia, la Cassa depositi e prestiti è stata il luogo di raccolta delle partecipazioni azionarie dello Stato nel settore energetico e in quello meccanico.
I problemi che fa nascere una politica
di nazionalizzazioni, piuttosto che interventi sporadici, dettati dalle
circostanze, sono essenzialmente quattro. Il primo è la necessità di una
legge sugli espropri per ragioni collettive; è vero che per la
Costituzione le imprese devono avere un fine sociale, e chi non lo ha o
l’ha perduto sarebbe espropriabile, ma in genere un dettame della
Costituzione diventa effettivo con una legge e ciò richiede un
Parlamento in attività e tempi in linea con l’urgenza dettata dalla
crisi.
Il secondo problema sta nell’eventuale
obiezione dell’Unione europea, che riterrebbe la nazionalizzazione,
specie se santificata in una norma nazionale, una rottura delle regole
del libero mercato. Qui, insieme al buon senso, va invocato lo stato di
necessità e, insieme, una politica europea sui salvataggi, da applicare
in tutti i paesi dell’Ue. Quest’ultima non è un’ipocrisia:
nell’ossessione per la sacralità della proprietà privata, manca una vera
e propria legislazione europea sulle proprietà pubbliche. Queste
appaiono residuali, fonti di mero protezionismo, una distorsione da
estirpare: che si tratti di ideologia è più che palese.
Il terzo problema è rappresentato
dall’assenza, nello Stato, di strutture tecniche e di dirigenza capaci
di condurre in porto le singole operazioni di trasformazione. In parte,
la dirigenza originaria della singola impresa può essere riutilizzata,
se non è compromessa con il fallimento o lo sviamento degli obiettivi
dell’impresa. In parte, le grandi imprese oggi già pubbliche possono
fornire sia le capacità tecniche, sia parte dei fondi necessari alla
trasformazione.
Il quarto problema sta nel costo, a
carico dello Stato, dell’operazione di salvataggio e trasformazione,
oltre all’eventuale compensazione per l’espropriato. È però vero che il
patrimonio pubblico cresce e che si tratta di spese di investimento, il
cui scopo è di ottenere una nuova redditività: ne deriva che il
finanziamento può essere ottenuto da prestiti. Certo, si aggrava il
deficit pubblico a breve, ma l’effetto sull’economia nel suo complesso,
se non si tratta solamente di operazioni occasionali, dovrebbe essere
positivo e riflettersi in maggiori entrate tributarie. Tutto sarebbe più
facile se si applicasse la regola aurea (golden rule) per la quale si
esclude dai parametri di Maastricht la spesa per investimenti, per il
momento osteggiata dalla Germania. Non è fuori della realtà, infine, che
sia possibile trovare finanziamenti nella forma di project finance,
associando lo Stato a società d’investimento private, capaci anche di
selezionare una dirigenza, pur temporanea, sostitutiva di quella
originaria.
Conclusione
Si tratta di problemi che implicano procedure lunghe e faticose, tra interessi collettivi e individuali: ne segue che le nazionalizzazioni devono poter essere attuate nel momento nel quale l’impresa si rende responsabile di licenziamenti di massa o di abbandono del territorio nazionale. Poiché ad impossibilia nemo tenetur, per convincere chi solleverà questi problemi fino a rappresentarli come ostacoli insuperabili, e per giustificare l’intervento pubblico di salvataggio, è allora forse soltanto necessario dimostrare, con un calcolo apposito, il danno derivante all’Italia (e all’Europa) dai licenziamenti, dalla riduzione della capacità, dalla chiusura o l’abbandono degli impianti, dal deserto territoriale conseguente.
Si tratta di problemi che implicano procedure lunghe e faticose, tra interessi collettivi e individuali: ne segue che le nazionalizzazioni devono poter essere attuate nel momento nel quale l’impresa si rende responsabile di licenziamenti di massa o di abbandono del territorio nazionale. Poiché ad impossibilia nemo tenetur, per convincere chi solleverà questi problemi fino a rappresentarli come ostacoli insuperabili, e per giustificare l’intervento pubblico di salvataggio, è allora forse soltanto necessario dimostrare, con un calcolo apposito, il danno derivante all’Italia (e all’Europa) dai licenziamenti, dalla riduzione della capacità, dalla chiusura o l’abbandono degli impianti, dal deserto territoriale conseguente.
Del resto, non è importante che la
proprietà risalga allo Stato: la nazionalizzazione può ben essere
temporanea, fino al risanamento dell’impresa e la ripresa dell’economia.
Si può obiettare che il calcolo del danno implica un moral hazard,
poiché è facile alterare la realtà dei conti perché favoriscano o
l’esproprio o la chiusura, data la forza degli interessi in gioco (del
sindacato, per evitare la disoccupazione, dell’impresa che vuole
fuggire). Ne deriva la necessità di un organo consultivo indipendente,
capace di dar ragione delle decisioni in merito all’impianto da salvare.
rassegna.it
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