Camilla
Barone, semiologa specializzata in analisi di identità visive e
processi creativi. E' intervenuta all'assemblea al Teatro Quirino
presentando idee per il simbolo. Un intervento dunque per iniziare un
cantiere di lavoro e condividere il percorso che aveva ipotizzato.
1. Due parole, Camilla, sulla vostra partecipazione all'assemblea Cambiare si può e al vostro lavoro svolto prima dell'incontro al Teatro Quirino.
1. Due parole, Camilla, sulla vostra partecipazione all'assemblea Cambiare si può e al vostro lavoro svolto prima dell'incontro al Teatro Quirino.
È stato un lavoro matto e disperatissimo. Difficile se non
impossibile trovare un nome e un simbolo capaci di mettere tutti
d’accordo. Sono molte le anime di questo movimento. Il tempo,
pochissimo. È stato difficile anche perché alle prese con tensioni
identitarie divergenti il simbolo non viene vissuto per quello che è,
una convenzione che è solo la parte emergente di pratiche ben più
rilevanti, ma gli viene attribuito un valore sovradimensionato. Abbiamo
fatto il possibile per rispettare le richieste del gruppo di promotori
che ruotavano, essenzialmente, attorno a desideri di espressione dei
valori fondativi, e in più di incisività, rinnovamento, iconicità,
capacità di significare anche per i più giovani e di intercettare
energie non istituzionali né ideologiche, di incarnare un mood positivo e
parlare un linguaggio contemporaneo, semplice, spontaneo “gergale”.
Sono stato poi gli stessi promotori ad aver scelto il simbolo proposto
all’assemblea. È solo uno di quelli che avevamo identificato come
interessanti, i cantieri sono ancora aperti, sia per quel che riguarda
la veste grafica della proposta che abbiamo visto a Roma in forma
provvisoria, sia per la finalizzazione di soluzioni alternative.
2. Seguendo il vostro intervento e il file che è stato
proiettato alla platea è giunto, con molto interesse, un vero lavoro di
rinnovamento nell'ambito della comunicazione elettorale a partire però
da elementi base come la gestualità, le mani, la memoria collettiva, la
possibilità, dunque, di permettere a chiunque "di riprodurre il logo" .
Da dove siete partiti?
Dal presupposto che il momento storico sia piuttosto denso di
tensioni e che il modo più efficace di esprimerle non sia quello di
sovrapporre alla realtà fantasmagorie simboliche o feticismi politici di
varia estrazione. Le persone sono tanto desiderose di cambiare quanto
disilluse. Nessun trucco di sorti luminose e progressive (non stiamo
vendendo un sogno) e nessun arroccamento veteroqualcosa può reggere.
Solo la concretezza e il rispetto dei movimenti reali può valere. A
maggior ragione per cambiare si può. Che proprio sulla centratura sulle
pratiche fa forza. Da ciò l’uso di simboli già in circolazione, come il
cancelletto, ricodificato da pratiche spontanee come il postare foto del
gesto del cancelletto sui social network. Gli stilemi graffitari (non
ancora finalizzati nella proposta vista a Roma) il font a
stencil/mascherina stanno nella stessa logica di un logo che raffigura
un gesto: il gesto può essere replicato e rifatto da chiunque, il logo
può essere riprodotto ovunque. Certo non è possibile che la diffusione
per contagio di un segno sia voluta o pianificata. O va da solo o non
va. Però riprodurre la logica/estetica del contagio spontaneo per noi ha
avuto una valenza etica: proporre un passo indietro a partiti, firme,
proprietà intellettuali ed eredità ideologiche per mettere in primo
piano le persone comuni (al centro della proposta politica di Cambiare
si può) che si possono riappropriare dei segni e dei gesti per inserirli
in pratiche di significazione autogestite. Si tratta insomma di
proporre un lessico grafico e politico se non generato almeno
legittimato dal basso. Forse posso trovare affinità con i metodi
cosiddetti di social innovation… ma non ho avuto, almeno personalmente,
alcuna ambizione di rinnovare il metodo della comunicazione elettorale
in nessun modo. Semplicemente mi sembrava la postura più onesta
possibile per una creatività al servizio del reale. Certo nel mondo dei
sogni, e con 6 mesi di tempo, di segni che condensino “spontaneamente”
significati socialmente rilevanti tanto da essere definiti, come dici
tu, “pezzi d’immaginario collettivo”, tutti insieme ne avremmo potuti
trovare diversi altri, per poi rielaborarli, selezionarli, votarli… ma
la speranza non è l’ultima a morire, non è detto che non si possa
trovare il tempo per fare bene o ancora meglio le cose.
3. Fino ad oggi i partiti hanno utilizzato loghi legati alla
storia, oggi il vostro lavoro esprime un verso bisogno di rinnovamento.
Si va verso questa direzione? Con quale metodo?
Non ho molto da aggiungere rispetto a quanto detto prima. Se non
forse che no, non è una tendenza generale. È stata un’idea singolare.
Nella quale credo. Non tanto per l’esigenza di “rottamare” i simboli. Mi
da fastidio solo scriverlo. Tutti sappiamo quanto possono fare una
stella o un pugno. È stata più che altro l’esigenza di elaborare un
linguaggio trasversale alle diverse identità. Mi spiego meglio. C’è una
forza coesiva nella crisi che stiamo attraversando. Non è solo la fede
in un incremento positivo ed esponenziale della ricchezza ad essere in
discussione, lo sono anche le autorappresentazioni. L’idea che non ci
sia un modello economico o sociale prestabilito ad orientare pensieri ed
azioni può essere disorientante, ma nello stesso tempo concentra le
prospettive, fa campo libero. E la possibilità di costruire una società
diversa ricomincia da qui. In questa nuovo spazio libero, in questa
pausa forzata credo possano emergere meglio soluzioni reali, persone
concrete, pratiche “virtuose”… basta mettersi in ascolto. Ecco forse
l’unico metodo che mi sembra necessario al momento è l’ascolto. Le
persone che ci parlano, la cronaca, la piazza, le statistiche, le
chiacchiere al bar, i post, le manifestazioni… è pieno di “punti di
presa” sulla realtà che ci consentono di intercettare la posta in
gioco. La responsabilità di una proposta come cambiare si può, è enorme.
Il disagio è diffuso e cresce. Il bisogno di una modalità per
articolare il pensiero sul futuro è bruciante. Coglierlo e interpretarlo
è più che necessario, oltre che sufficiente. Insomma in fondo il
cancelletto dovrebbe stare solo per “canale di aggregazione attorno a
tematiche di cui la rete degli utenti stabilisce la priorità” e sta per
“canale d’ascolto”.
4. Le innovazioni da voi proposte possono essere anche
introdotte nell'ambito dell'informazione nell'ambito del movimento
durante le assemblee e nei casi in cui è importante l'utilizzo della
simbologia?
Come dicevo, non so se si sia trattato di innovare un metodo – in
realtà forse si è trattato di applicare qualche tecnica di osservazione
del reale e delle nostra cultura tipica della ricerca socio-semiotica.
Niente a che fare con il marketing politico o lo spin doctoraggio, per
intendesi. Si tratta di una forma mentis che ha molto a che fare con
l’ascolto, semplicemente, e la voglia di provare a capire il più
possibile il contesto reale. La cultura elabora costantemente nuovi
segni e cambia i significati di quelli già in circolazione. Ci vuole un
po’ di allenamento e di attenzione per capire quali sono quelli
“emergenti” e in grado di condensare pezzi d’immaginario. Tutto qui. Non
è che l’immaginario, ribadisco, lo si possa creare. Si può solo
intercettarlo e prenderlo in prestito. Credo che l’epoca dei cieli
azzurri e delle bandiere sventolanti, per intenderci, non potrebbe più
darsi a prescindere dalla fede politica d’appartenenza
5. Il logo da voi proposto sembra rivolto a tutta quella
parte di elettorato che ha la possibilità di stare sul web. Bisogna
tuttavia non dimenticare tutta quella parte di elettorato che non ha la
possibilità di navigare e che va comunque informata e coinvolta. Quale
metodo risulta più adatto per non escludere né l'uno né l'altro?
A riuscirci - e non è semplice – credo che il metodo più adatto sia
quello di progettare segni che consentano più livelli di
lettura. Bisogna partire dal presupposto che nessun segno dice a tutti
la stessa cosa. Pensare che se ne possa trovare uno è pura utopia.
Persino un singolo colore, il bianco, per esempio, non significa la
stessa cosa per me e per la persona che mi sta al fianco chiunque questa
sia. Siamo obbligati a scegliere a chi vogliamo parlare, sapendo che
questi rappresenteranno solo una parte della popolazione. Non possiamo
parlare a tutti. Possiamo solo scegliere di concentrare i nostri sforzi
per farci capire da quella parte della popolazione che per noi è la più
importante. In questo caso, per Cambiare si può, erano le persone più
giovani o alfabetizzate informaticamente. Perché il movimento stesso ha
usato la rete per esprimersi dal principio, e perché sono i più giovani
che sfuggono maggiormente alle capacità interpretative delle proposte
politiche attuali, e che hanno sempre più bisogno di nuove prospettive e
di coinvolgimento diretto. E perché sono loro che più di tutti sanno
insegnare come fare rete, e non solo in rete, soprattutto sul
territorio. Sono loro che potranno trainare il cambiamento, e poi
raccontarlo e coinvolgere altri. Scegliere i più giovani come
destinatari elettivi è una cosa, però. Che non significa in nessun modo
escludere gli altri. Questo è importante. Abbiamo cercato di arrivare a
un segno che potesse parlare anche a persone completamente
diverse.Bisogna fare in modo che un hashtag, se non viene riconosciuto
come tale, possa dire qualcos’altro di ugualmente importante a chi lo
leggerà a un altro livello di lettura. Un intreccio ad esempio, una
figura reticolare che racconta di per sé collaborazione e condivisione. E
poi mani, che sono segno si umanità e concretezza. E per finire un
doppio segno di vittoria. Insomma non so se il segno che abbiamo
proposto rispondesse perfettamente a questo requisito. Anche altri
proposti andavano nella medesima direzione. Ma credo che sì, la coerenza
di più livelli di lettura sia fondamentale.
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