1. Perché la Scuola di Francoforte?
L’interesse per la Scuola di Francoforte
oggi, a dispetto di necrologi frettolosi e compiaciuti, va
ridestandosi. Siamo ancora ben lontani dalla pubblicità e dalla
circolazione – per altro parziali e ambigue[1]
– che i temi del pensiero francofortese ha conosciuto negli anni ’60 e
’70 ma si può dire che la rimozione ideologica che il postmodernismo
aveva provocato negli anni ’80 ha subito qualche scossone. Anche in
ambito animalista si registra una qualche sensibilità alle figure dei
francofortesi e in particolare di Theodor W. Adorno – seppure ancora in
forma strumentale e ideologica.[2]
Con questo intervento vorrei specificare perché e in che senso si
debba guardare oggi al pensiero di Adorno, Horkheimer e Marcuse come
l’indispensabile fonte di ispirazione teorica per ripensare il
rapporto uomo-natura o, per essere più precisi, il rapporto che l’uomo
ha con l’animale e, di conseguenza, anche con se stesso.
In particolare, mi sembra di
straordinario interesse il fatto che la “teoria critica” della Scuola di
Francoforte ci permetta di aggirare l’annoso problema del riduzionismo, che
affligge pressoché tutta la letteratura scientifica ed etica che
tratta la questione del rapporto uomo-animale. In poche parole, si
tratta di sottrarsi alla duplice cieca alternativa tra il porre una differenza assoluta che separerebbe l’uomo dal regno animale oppure il predicare un’identità assoluta tra l’animale umano e quello non-umano.
Nel primo caso, all’uomo vengono
attribuite “qualità” che lo distinguerebbero dagli animali, qualità che
possono essere variamente identificate (linguaggio simbolico,
razionalità etc.) ma che ne fanno, in ogni caso, un unicum. Nel secondo caso, l’uomo non avrebbe nulla che
lo differenzierebbe qualitativamente dagli altri animali ed egli
dovrebbe essere studiato in base alle semplici leggi dell’etologia. Ciò
che è in gioco in questa battaglia apparentemente accademica è un
problema cruciale che non può e non deve essere sottovalutato, quello,
cioè, del rapporto tra libertà e necessità. Tutti i
tentativi di salvare la specificità dell’uomo rispetto all’animale
obbediscono infatti all’impulso di non veder sacrificare la libertà
umana (comunque la si concepisca), laddove tra coloro che tendono a fare
dell’uomo un animale sic et simpliciter, è forte la
tentazione di spiegare il comportamento individuale e sociale umano in
base a programmi biologici relativamente rigidi, con tutto ciò che ne
consegue rispetto alle sue pretese emancipative. L’esempio, demodé ma non del tutto sopito, della “sociobiologia” è paradigmatico.[3] Non pochi tra quelli che si preoccupano del destino dei non umani vedono di buon occhio tutto ciò che può annullare ogni
differenza tra uomo e animale, convinti che su tali differenze si
basino i pregiudizi antropocentrici a giustificazione dell’oppressione e
dello sfruttamento della natura.
È un fatto che in questa battaglia ci si trovi di fronte all’alternativa tra il dover sacrificare l’animale per salvare l’uomo[4], o il dover sacrificare l’uomo per salvare l’animale[5]. La Scuola di Francoforte offre gli strumenti teorici per mostrare che questa alternativa è falsa e che possiamo sottrarci a questo duplice sacrificio rituale.
La concezione dell’animale per i francofortesi, in particolare nel pensiero di Adorno e Horkheimer, può ben essere definita antropopoietica: in tale prospettiva l’animale è essenziale per concepire il farsi dell’uomo e l’ “Uomo” si produce e si definisce solo in rapporto all’ “Animale”. Ciò non va però inteso nel senso semplicemente empirico, darwiniano, secondo cui saremmo “creati dagli animali”[6], senso che, nella sua irrefutabile evidenza, lascia scoperto e inspiegato l’effetto che la differenza tra uomo e animale ha nel costituirsi dell’opposizione natura/cultura; e nemmeno si dovrebbe tentare di spiegare questo effetto di “antropopoiesi” nel senso generico della cosiddetta “zooantropologia”[7], che si limita a riconoscere l’importanza “simbolica” dell’animale nelle culture umane. La concezione di Adorno e Horkheimer, espressa soprattutto nella loro ricostruzione critica dell’illuminismo [Aufklärung[8], intende invece questo rapporto in un senso molto determinato, che coniuga e trasforma questi due aspetti, cioè in una teoria dialettica dell’animale. Essa concepisce il farsi dell’uomo come negazione dell’animale. Nel rapporto tra umano e non-umano, cioè, il “non” è concepito come un’alterità generativa dell’umano e del senso della sua esperienza: esso genera il Sé dell’uomo attraverso l’attiva negazione dell’altro-da-sé, una negazione che è al tempo stesso simbolica e reale, legata al dominio sulla natura. Nel seguito si mostrerà concretamente in che cosa consista questo paradossale rapporto di negazione/generazione.
La concezione dell’animale per i francofortesi, in particolare nel pensiero di Adorno e Horkheimer, può ben essere definita antropopoietica: in tale prospettiva l’animale è essenziale per concepire il farsi dell’uomo e l’ “Uomo” si produce e si definisce solo in rapporto all’ “Animale”. Ciò non va però inteso nel senso semplicemente empirico, darwiniano, secondo cui saremmo “creati dagli animali”[6], senso che, nella sua irrefutabile evidenza, lascia scoperto e inspiegato l’effetto che la differenza tra uomo e animale ha nel costituirsi dell’opposizione natura/cultura; e nemmeno si dovrebbe tentare di spiegare questo effetto di “antropopoiesi” nel senso generico della cosiddetta “zooantropologia”[7], che si limita a riconoscere l’importanza “simbolica” dell’animale nelle culture umane. La concezione di Adorno e Horkheimer, espressa soprattutto nella loro ricostruzione critica dell’illuminismo [Aufklärung[8], intende invece questo rapporto in un senso molto determinato, che coniuga e trasforma questi due aspetti, cioè in una teoria dialettica dell’animale. Essa concepisce il farsi dell’uomo come negazione dell’animale. Nel rapporto tra umano e non-umano, cioè, il “non” è concepito come un’alterità generativa dell’umano e del senso della sua esperienza: esso genera il Sé dell’uomo attraverso l’attiva negazione dell’altro-da-sé, una negazione che è al tempo stesso simbolica e reale, legata al dominio sulla natura. Nel seguito si mostrerà concretamente in che cosa consista questo paradossale rapporto di negazione/generazione.
2. La struttura del dominio
La Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer è un testo che ricostruisce l’intera storia della civiltà come storia del dominio [Herrschaft]. La storia umana, a partire al più tardi dalle prime società stanziali, si svolgerebbe in altre parole in un circolo,
poiché non sarebbe altro che il continuo perpetuarsi, sotto forme
fenomeniche diverse, di determinati rapporti di dominio che strutturano
queste società umane. Il dominio è inteso da Adorno e Horkheimer in
modo essenzialmente triplice:
- Il dominio sulla natura, che si articola in
(a) dominio sulla natura esterna all’uomo;
(b) dominio sulla natura interna dell’uomo; - Il dominio sull’uomo stesso, ovvero il dominio di classe;
- La divisione tra lavoro spirituale e lavoro materiale (tra lavoro intellettuale e fisico etc.)[9].
Si può far risalire il dominio sulla natura esterna, appunto, al sorgere delle prime società stanziali che praticarono l’allevamento di animali e l’agricoltura [1a]
. È qui che, fuoriscendo dall’universo di riproduzione semplice delle
società nomadiche di raccolta e caccia, comincia ad esercitarsi un
controllo sulle risorse naturali che assume la forma dell’asservimento
dei cicli naturali ad un’istanza ad essa, in qualche modo, esterna. Ma
il dominio sulla natura esterna non è scindibile da quello sulla natura
interna all’uomo, ovvero al sorgere di un’istanza di controllo degli istinti e dei moti interiori [1b]:
già la disciplina del lavoro imposta dal passaggio da un’economia di
raccolta ad un’economia agricola è segno di una maggiore coercizione che
l’uomo esercità su di sé. A questa trasformazione, per così dire,
“economica”, si accompagna una trasformazione “politica”, cioè il gerarchizzarsi delle società umane [2],
la nascita di strati sociali dediti ad attività non immediatamente
volte alla riproduzione materiale (èlite politiche e religiose: [3]). È
in questo senso che Adorno e Horkheimer possono scrivere: “nel dominio
sulla natura è incluso il dominio sull’uomo. Ogni soggetto non solo
deve cooperare con gli altri per soggiogare la natura esterna, umana e
non umana, ma per fare questo deve soggiogare la natura dentro di sé”.[10]
La struttura del dominio è cioè essenzialmente circolare e a spirale:
è vero che il dominio sulla natura ha reso possibile l’accumulo del
“surplus sociale” necessario alla nascita della gerarchia politica e
della schiavitù, ma è altresì vero che la divisione sociale del lavoro
(tra sacerdoti e popolo prima, tra intellettuali e lavoratori poi) ha
reso possibile l’elaborazione del sapere necessario ad un sempre più intenso sfruttamento della natura. Estraneazione dalla natura e dominio sulla natura fanno qui tutt’uno (“gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano”[11]) e ad essa corrisponde una struttura cognitiva dell’oggettività che
è, per così dire, il portato logico-concettuale del dominio di classe:
“il distacco del soggetto dall’oggetto, premessa dell’astrazione, è
fondato nel distacco dalla cosa, a cui il padrone perviene mediante il
servitore”.[12]
In quest’ottica, non esiste un “peccato originale”, un atto di dominio
originario e sovraordinato rispetto agli altri: dominio sugli animali,
dominio di classe, coercizione al lavoro, spiritualizzazione ed
estraneazione dalla natura etc. sono tutti fenomeni tra loro
strettamente intrecciati.
È però vero che il salto storico
qualitativo è qui dato dal passaggio dalle società nomadi dedite alla
raccolta e caccia – chiuse nel loro universo magico e mimetico, in cui
la natura e l’uomo sono ancora visti come attraversati da forze numinose
– alle società stanziali agricole, che si dotano progressivamente di
una religione centralizzata e, col passaggio dalle religioni notturne e
matriarcali alle religioni solari e patriarcali, sanciscono il dominio
sulla natura e sull’uomo come opera di uno spirito progressivamente
autonomo e dominatore. In tal senso, Adorno afferma che il concetto
“enfatico” di società – ovvero il concetto in senso pregnante del
termine – si può applicare solo alle società in cui la vita del singolo è
avviluppata e determinata da questo processo di “socializzazione” [Vergesellschaftung].[13]
Nelle prime fasi, ancora nomadi, i
membri della tribù prendono ancora parte autonoma all’azione esercitata
sul corso naturale. Gli uomini scovano la selvaggina, le donne svolgono
il lavoro che può aver luogo senza un rigido comando. Quanta violenza
abbia preceduto l’assefuazione anche a un ordine così semplice, è
impossibile stabilire.Già in esso il corso naturale.è elevato a norma
che esige sottomissione. Ma se il selvaggio nomade, nonostante ogni
sottomissione, prendeva ancora parte all’incantesimo che la delimitava, e
si travestiva da selvaggina per sorprenderla, in epoche successive il
commercio con gli spiriti e la sottomissione sono ripartiti tra classi
diverse dell’umanità: il potere da un parte, l’obbedienza dall’altra. I
processi naturali, eternamente uguali e ricorrenti, vengono inculcati
ai sudditi – da tribù straniere o dalle proprie cricche dirigenti –
come tempo o cadenza lavorativa, al ritmo della clava e del randello,
che risuona in ogni tamburo barbarico, in ogni monotono rituale.[14]
Si potrebbe dire che il mondo della magia e del nomadismo è un mondo in cui regnano rapporti orizzontali sia in senso sociale (tendenziale egualitarismo economico e politico), sia nel rapporto con la natura esterna (ricambio organico società/natura senza asservimento dei cicli naturali ai bisogni umani) sia, come diremo, nel rapporto con la natura interna. Ciò si manifesta a livello simbolico:
l’elemento “spirituale” è qui, per così dire, ancora fuso e trasfuso
in una natura animata e vivente in cui ogni confine è labile, ogni
trasformazione possibile. La simbiosi con l’animale è totale, anche nel
senso di un’identificazione mistica con esso[15].
L’uomo non può porsi come dominatore dell’altro-da-sé in un mondo in
cui egli di fatto non vede, né può pensare questo altro-da-sé.
È appunto la posizione di questo altro che è costitutivo delle culture delle società stanziali che inagurano meccanismi di controllo sulla natura e aprono la strada alle società di classe. Qui si inaugurano, a tutti i livelli, rapporti che possiamo definire, in contrapposizione a quanto osservato finora, verticali, cioè gerarchizzati. Qui, nel regno delle prime società classiste che è anche il regno delle prime mitologie e delle prime religioni istituzionali, si pone quella capacità di distinzione che è il riflesso simbolico di una forza che opera nella realtà dei rapporti naturali e sociali e li coarta in senso verticistico. La scissione e la progressiva contrapposizione tra uomo e animale è cioè il riflesso ideologico di una scissione e contrapposizione che ha la sua base reale nel dominio sui processi naturali e nella progressiva gerachizzazione dei rapporti sociali.
È appunto la posizione di questo altro che è costitutivo delle culture delle società stanziali che inagurano meccanismi di controllo sulla natura e aprono la strada alle società di classe. Qui si inaugurano, a tutti i livelli, rapporti che possiamo definire, in contrapposizione a quanto osservato finora, verticali, cioè gerarchizzati. Qui, nel regno delle prime società classiste che è anche il regno delle prime mitologie e delle prime religioni istituzionali, si pone quella capacità di distinzione che è il riflesso simbolico di una forza che opera nella realtà dei rapporti naturali e sociali e li coarta in senso verticistico. La scissione e la progressiva contrapposizione tra uomo e animale è cioè il riflesso ideologico di una scissione e contrapposizione che ha la sua base reale nel dominio sui processi naturali e nella progressiva gerachizzazione dei rapporti sociali.
3. L’animale dialettico
3.1. “Il trionfo e il fallimento della cultura”
Il dominio sulla natura e sull’uomo si impone da questo momento in poi come legge naturale della
società e i singoli sono costretti ad adeguarvisi, pena l’esclusione.
L’immagine dell’uomo dominatore diventa l’idolo a cui si sacrifica
tutto: rapporto con la natura, con i propri simili e con se stessi. Il
dominio su di sé cui l’essere umano viene addomesticato in ogni società è
la conditio sine qua non del suo essere “sociale”, il presupposto del dominio sull’altro che la società umana esercita come totalità.
L’estraneazione degli uomini dagli
oggetti dominati non è il solo prezzo pagato per il dominio: con la
reificazione dello spirito sono stati stregati anche i rapporti interni
fra gli uomini, anche quelli di ognuno con se stesso. Il singolo si
riduce a un nodo o crocevia di reazioni e comportamenti convenzionali
che si attendono praticamente da lui. L’esistenza naturale, animale e
vegetativa, era per la civiltà l’assoluto pericolo.Il ricordo vivo della
preistoria, già delle fasi nomadi, e tanto più delle fasi propriamente
prepatriarcali, è stato estirpato dalla coscienza degli uomini, in
tutti i millenni, con le pene più tremende.L’umanità ha dovuto
sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si
consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e
qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia.[16]
La reificazione [Ver-dinglichung], cioè la riduzione a “cosa” [Ding], a oggetto disponibile, possedibile e manipolabile, di ogni rapporto vivente include anche il rapporto di ognuno con l’animale che egli stesso è.
La reificazione del Sé è il processo che accompagna tutta la storia
della civiltà come un’ombra e che, al tempo stesso, ne accelera la
potenza distruttiva nei confronti della natura. La pietra angolare della
reificazione del Sé è, per Adorno e Horkheimer, proprio la violenza
sull’animale che è sempre, anche, implicita violenza dell’uomo
sull’animale umano. Scrive Adorno nella Dialettica negativa:
“un proprietario di albergo, di nome Adamo, uccideva con un bastone i
topi che uscivano da fori nel cortile davanti agli occhi del figlio, che
gli voleva bene; a sua immagine il bambino si è fatta quella degli
altri uomini. Il fatto che ciò venga dimenticato, che non si capisca più
quel che si è provato un tempo davanti alla macchina
dell’accalappiacani, è il trionfo, e il fallimento, della cultura”.[17]
È importante che si comprenda bene questo rapporto che è, ancora una volta dialettico, cioè fondato su un processo antinomico e
che può essere espresso logicamente solo in forma contraddittoria:
l’affermazione del Sé è determinata dalla negazione dell’altro-da-sé e
questo processo – che accompagna e sostiene, a un tempo, il processo di
civilizzazione in senso ontogenetico e filogenetico – deve essere letto
come trionfo e fallimento della cultura. Laddove
questa infatti riesce ad estirpare ogni ricordo della natura da cui
proviene, la cultura trionfa. Ma proprio in quanto rimuove – in senso
psicoanalitico – il ricordo di ciò che essa, nonostante tutto, ancora è,
fallisce il suo scopo: la costruzione di una società “umana”, laddove
l’umano ha qui il senso di “civile”, cioè “non bestiale”. Proprio nel
rapporto con la natura e, in particolare, con gli animali la società
umana dimostra di non essersi affatto emancipata dal contesto di
“bestialità” cui ideologicamente si contrappone.
3.2. Le false alternative della civilità
Sulla base di questa lettura della storia della civiltà, si comprende in che senso Adorno e Horkheimer possano scrivere:
L’idea dell’uomo, nella
storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con
l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo.
Questa antitesi è stata predicata con tale costanza e unanimità da
tutti gli antenati del pensiero borghese – antichi ebrei, stoici e
padri della Chiesa – e poi attraverso il Medioevo e l’età moderna, che
appartiene ormai, come poche altre idee, al fondo inalienabile
dell’antropologia occidentale. Essa è ammessa anche oggi. I
behavioristi [cioè coloro che studiano la psicologia umana in modo
"etologico", cioè osservando i comportamenti esterni senza ricorrere ad
ipotesi sull'interiorità umana, M.M.] se ne sono scordati solo in
apparenza. Che essi applichino agli uomini le stesse formule e i
risultati che essi stessi, liberi da catene, ottengono, nei loro
orrendi laboratori fisiologici, da animali indifesi, conferma la
differenza in forma particolarmente malvagia. La conclusione che essi
traggono dai corpi mutilati degli animali non si adatta all’animale in
libertà, ma all’uomo odierno. Egli prova, facendo violenza all’animale,
che egli, ed egli solo in tutta la creazione, funziona – liberamente e
di sua propria volontà – con la stessa cieca e automatica meccanicità
dei guizzi convulsi delle vittime incatenate che il tecnico utilizza ai
propri scopi. Il professore alla tavola anatomica li definisce
scientificamente riflessi, l’aruspice all’altare li aveva stamburati
come segni degli dei.[18]
È possibile leggere la storia della
civiltà grazie a questo schema concettuale perché esso non è
semplicemente uno “schema” ma deriva da strutture di dominio storiche
che hanno avuto un’origine nel processo evolutivo e che ancora oggi determinano
le strutture politiche, economiche e culturali delle società umane
classiste e speciste. Esse diventano oggi talmente scoperte ed evidenti
da permettere di leggere come un tutto la storia passata e qualificarla come storia del dominio.
Il riferimento all’identità tra la vivisezione e il sacrificio dell’aruspice appare perciò perfettamente giustificato dal punto di vista della storia del dominio e non è affatto una boutade o uno scherzo di cattivo gusto, come qualcuno ha pensato. Si tratta, oggi come allora, di esercitare un controllo sul vivente ai fini dell’uomo. L’asettica verità di cui va fiera la scienza, la definizione formalmente ineccepibile del soggetto e dell’oggetto di un esperimento, è solo un altro modo di dire l’estraneazione tra uomo e natura che è la quintessenza ideologica del dominio che il primo esercita sulla seconda. Cambia, è vero, la forma di questo dominio: esso non è più esercitato dal sacerdote per conto di una divinità trascendente, ma è totalmente nelle mani dell’uomo-scienziato che si dichiara magari – oltre al danno la beffa! – un essere interamente naturale, guidato da una visione del mondo materialista, emancipato dalla trascendenza teologica etc. Ma questa immanentizzazione del dominio ripete, in forma particolarmente malvagia e con la falsa coscienza di un sapere “neutrale” e “disinteressato”, il dominio di sempre, solo in forma più perfetta e con meno scrupoli.
Il riferimento all’identità tra la vivisezione e il sacrificio dell’aruspice appare perciò perfettamente giustificato dal punto di vista della storia del dominio e non è affatto una boutade o uno scherzo di cattivo gusto, come qualcuno ha pensato. Si tratta, oggi come allora, di esercitare un controllo sul vivente ai fini dell’uomo. L’asettica verità di cui va fiera la scienza, la definizione formalmente ineccepibile del soggetto e dell’oggetto di un esperimento, è solo un altro modo di dire l’estraneazione tra uomo e natura che è la quintessenza ideologica del dominio che il primo esercita sulla seconda. Cambia, è vero, la forma di questo dominio: esso non è più esercitato dal sacerdote per conto di una divinità trascendente, ma è totalmente nelle mani dell’uomo-scienziato che si dichiara magari – oltre al danno la beffa! – un essere interamente naturale, guidato da una visione del mondo materialista, emancipato dalla trascendenza teologica etc. Ma questa immanentizzazione del dominio ripete, in forma particolarmente malvagia e con la falsa coscienza di un sapere “neutrale” e “disinteressato”, il dominio di sempre, solo in forma più perfetta e con meno scrupoli.
Nella magia la sostituibilità è
specifica. Ciò che accade alla lancia del nemico, ai suoi capelli, al
suo nome, è fatto anche alla persona; la vittima sacrificale viene
massacrata al posto del dio. La sostituzione nel sacrificio è un
progresso verso la logica discorsiva. Anche se la cerva che bisognava
sacrificare per la figlia, o l’agnello che bisognava offrire per il
primo nato, dovevano avere ancora qualità specifiche, rappresentavano
però già la specie, avevano già l’accidentalità arbitraria del campione.
Ma il carattere sacro dell’hic et nunc, l’unicità
dell’eletto, che anche il sostituto viene ad assumere, lo distingue
radicalmente, lo rende, anche nello scambio, insostituibile. A ciò
mette fine la scienza. Non c’è, in essa, sostituibilità specifica:
vittime sì, ma nessun dio. La sostituibilità si rovescia in fungibilità
universale. Un atomo non è disgregato in sostituzione, ma come specimen della materia, e non è in luogo, o in rappresentanza, ma frainteso come mero esemplare, che il coniglio percorre la via crucis del laboratorio.[19]
Lo spirito, e tutto ciò che vi è di buono, è – nella sua origine e
nella sua esistenza – irretito senza scampo in questo orrore. Il siero
che il medico somministra al bambino malato, è dovuto all’aggressione ad
una creatura inerme.[20]
Sia chiaro: la rottura dell’incanto
magico e l’imporsi della distinzione concettuale, del Sé stabile etc.
sono senz’altro delle forme di progresso cui Adorno e Horkheimer non
intendono rinunciare, né essi intendono equiparare astrattamente il
sapere magico e il sapere scientifico e annullare così ogni idea di
sviluppo nella conoscenza naturale. Essi però non intendono nemmeno
rinunciare alla possibilità di leggere questo processo anche come processo di distruzione. Ciò che mettono assolutamente in discussione è la filosofia della storia implicita nell’ideologia del progresso,
ovvero il fatto che i rapporti di dominio (sull’uomo e sull’animale)
vengano filosoficamente giustificati in nome di una astratta metafisica
che dispone il tempo storico in una linearità orientata “verso il
meglio”. Essi non negano che questa linearità ci sia, poiché è effetto della circolarità che abbiamo visto all’inizio: tutte le società che realizzano il dominio sulla natura e quello sull’uomo tendono a svilupparsi in forza di
questo dominio, allargandone sempre più il potere. Negano però che la
civiltà muova inesorabilmente verso “il meglio”. Proprio la
consapevolezza materialistica di ciò che agisce nascostamente nel
processo di civilizzazione permette loro infatti di sbugiardare
l’ideologia ufficiale della “civiltà”: “non c’è una storia universale
che conduca dal selvaggio all’umanità, ma certo una che porta dalla
fionda alla bomba atomica”.[21]
Si rinfaccia solitamente ad Adorno e
Horkheimer una “contraddizione”, poiché essi criticherebbero la ragione
senza voler rinunciare alla ragione.[22]
Ma qui si vede bene come i critici ragionino con un concetto statico e
unilaterale di ragione, laddove i francofortesi articolando il
rapporto tra ragione e natura ne mostrano l’implicazione reciproca e la
storicità immanente. La contraddizione è qui oggettiva, è
intrinseca al rapporto ragione/natura e non può essere certo attribuita
a chi cerca di padroneggiarla concettualmente e di indicarne le
possibili soluzioni. Le obiezioni di “irrazionalismo” rivolte alla
Scuola di Francoforte echeggiano – non a caso – quelle rivolte
solitamente a chi afferma di non poter sopportare lo sterminio
insensato di animali per la ricerca scientifica: “ma allora sei
contro il progresso della scienza!”. La razionalità che si è costruita
nella storia e che trionfa (apparentemente) nelle società opulente,
sembra essere un processo totalmente oggettivo, cui non è più possibile
sottrarsi e su cui non si può intervenire attivamente. La logica di
questa forza inarrestabile che trascina gli individui e su cui essi non
hanno, di fatto, alcun potere è interamente binaria: sì/no,
ragione/follia, progresso/reazione, scienza/magia. Chi tentenna di
fronte alle sue alternative, chi prova a interrogarsi sulla genesi di
queste alternative è automaticamente scomunicato ed espulso dalla
cerchia delle persone (ben) pensanti. Ciò assomiglia molto al
“benepensiero”, cioè al linguaggio – immaginato da Orwell in 1984
– che non permette di pensare e dire ciò che si contrappone al sistema
vigente, piuttosto che ad un processo argomentativo razionale.
Non meno unilaterali sono le accuse che i
veri irrazionalisti e apocalittici rivolgono alle pretese
francofortesi di leggere attraverso il concetto la dialettica della
civiltà, di vedere in questa non una semplice “caduta” dall’età
dell’oro, quanto un processo ancora in corso che esprime,
anche nella lacerazione e nell’orrore, delle potenzialità e delle
speranze che si tratta di realizzare e non negare astrattamente. Anche
quella degli irrazionalisti è una visione fatta di false alternative,
come quella tra uomo o natura. Essa si iscrive così nella
stessa logica della civiltà che pretende criticare, in quanto nasce
come negazione astratta di questa, come un rifiuto unilaterale che non
comprende la legge di sviluppo interno della civiltà stessa. Predicare
il rifiuto della civiltà o, magari, l’estinzione dell’umanità significa
riproporre in forma opposta ma speculare l’idea di una “trascendenza”
dell’uomo rispetto al cosmo, giacché se la natura avesse comesso un
“errore” facendo sorgere la specie homo, occorrerebbe anche
spiegare come ciò sia stato possibile. E allora delle due l’una: o
l’effetto distruttivo della civiltà è spiegabile in termini di processi
naturali – e, dunque, l’uomo non solo non può essere definito un
errore della natura ma tutto ciò che fa è interno ad essa –
oppure esso è una deviazione dal corso naturale – e, dunque, l’uomo è
sì un caso innaturale ma che abbisogna di un principio di spiegazione
posto al di là della natura.
Adorno e Horkheimer avevano per altro
chiaro già negli anni ’40 che tali alternative “ineluttabili” sono in
realtà parte stessa del problema ed espressione della malattia sociale
che affligge la ragione. “I fronti sono chiaramente segnati; chi lotta
contro Hearst e Göring è con Pavlov e per la vivisezione; chi esita è un
bersaglio per entrambe le parti”[23].
Come vedremo fra breve, la prospettiva francofortese riesce a
decostruire sia le alternative ineluttabili del progresso, sia le
contraddizioni dell’idea reazionaria di natura.
4. Il materialismo solidale
La ricostruzione della Dialettica dell’illuminismo vuole essere una teoria materialistica della cultura che
tenta di ricondurre le false opposizioni e le false alternative
ideologiche della civiltà alla loro base reale, ovvero allo sfruttamento
del vivente umano e non umano ai fini della riproduzione della
società. L’ideologia scientista del “Progresso” appare qui come l’altra
faccia di un pensiero metafisico e reazionario con cui condividerebbe
l’idea di un’indipendenza del pensiero dal suo sostrato sociale e
naturale, cioè dal dominio.
La “ragione totale” come “principio
dell’umanità”, scrive Adorno, è fondata sul dominio della natura che si
esprime “nella tradizione di sfruttamento e maltrattamento degli
animali”.[24] L’animale funge qui da Shibboleth di
ogni spiritualismo suprematista: “per il sistema idealistico gli
animali hanno virtualmente lo stesso ruolo degli ebrei per quello
fascista”.[25]
L’accoglimento dell’animale nel progetto di liberazione umana
costituisce il tratto caratteristico del materialismo francofortese che
lo distingue tanto dal naturalismo positivista (che riconosce
l’animalità dell’uomo ma non intende affatto accogliere l’animale
nell’ambito della considerazione etica), quanto dallo spiritualismo (che
anche laddove mostra “pietà” verso gli animali nega la natura animale
dell’uomo stesso). Solo riconoscendo il ruolo di medizione (simbolica
e reale) che l’animale ha nel rapporto tra l’uomo e la natura si
guadagna il punto di vista corretto per intendere la dialettica della
civiltà. Laddove ciò non accade lo sguardo sulla civiltà sarà
necessariamente sfuocato e la cattiva coscienza dell’osservatore lo
porterà ad ogni sorta di confusioni. Non è un caso, dunque, che il
pensiero francofortese sia stato così spesso frainteso e rifiutato,
accusato al tempo stesso da parti opposte di irrazionalismo e di
razionalismo, di materialismo e idealismo etc.
Anche in campo marxista i
fraintendimenti non furono pochi. È infatti alla luce di un possibile
diverso rapporto con l’animale – basato sulla compassione e sulla
solidarietà con il vivente che soffre – che Adorno, Horkheimer e Marcuse
hanno potuto ravvisare i tratti “idealistici” nel materialismo
marxiano, da essi, peraltro, assunto pienamente come unica possibile
analisi critica del capitalismo. Storicamente, a Marx mancava
l’esperienza degli sviluppi alienanti e distruttivi che il dominio
dell’uomo sulla natura mostra nella società attuale. Ma la fiducia
incrollabile di Marx ed Engels nella sostanziale bontà e razionalità di
tale dominio svela anche un’incapacità teorica di concepire il limite intrinseco dell’appropriazione umana della natura, limite che li avrebbe costretti a riconoscere anche alla natura lo status di soggetto.
Ciò era loro precluso dall’idea che proprio spezzando il legame mistico, il “cordone ombelicale” [26]
con la natura – che si esprime a livello simbolico e ideologico in una
serie di proiezioni antropomorfiche – l’uomo potesse emanciparsi. Come
mostra la Dialettica dell’illuminismo, tale squalificazione
dell’animale e la sua riduzione ad oggetto è parte integrante del
processo emancipativo dell’uomo; condotto, tuttavia, oltre un certo
segno, tale processo si è rivolto contro l’uomo stesso e la de-antropomorfizzazione del mondo si è rovesciata nello stato della disumanità assoluta:
essa ha prodotto, nelle società iperrazionalizzate del ’900, la
barbarie nazista, il totalitarismo e il “mondo amministato”. Nell’idea
che consegue al dominio incessante sulla natura da parte dell’uomo, Marx
ed Engels hanno passivamente accettato quella circolarità del
progresso che caratterizza la storia della civiltà come storia del
dominio. In ciò avrebbero tradito l’ispirazione materialista del
proprio pensiero. Scrive Marcuse in Controrivoluzione e rivolta:
Nel concetto marxiano dell’appropriazione umana della natura c’è un residuo di hybris della
dominazione: la ‘appropriazione’, per quanto umana, resta
appropriazione di un oggetto (vivente) da parte di un soggetto. Si
offende ciò che è essenzialmente altro dal soggetto che si appropria, e
che esiste in proprio come oggetto autonomo, cioè come soggetto! Esso
può essere ostile all’uomo, e allora il rapporto è di lotta; ma la lotta
può anche aver termine e lasciar posto alla pace, alla tranquillità,
alla realizzazione. In questo caso il rapporto di non sfruttamento
sarebbe non l’appropriazione ma il suo contrario: cedimento,
permissività, accettazione.Il cedimento urta contro l’impenetrabile
resistenza della materia; la natura non è manifestazione dello spirito,
ne è piuttosto il limite fondamentale.[27]
Il limite che l’uomo incontra nella sua azione trasformativa non è costitutivo della natura in quanto oggetto, bensì appunto della natura in quanto soggetto. È quindi un limite che implica una torsione dell’uomo su se stesso a riscoprire la natura che egli stesso è. L’uomo non trova questo limite come qualcosa di esterno, ma lo riconosce empaticamente come proprio limite.
L’uomo – in quanto natura – riconosce nella natura un limite alla
propria volontà di dominio. È poiché l’uomo emancipatosi dalla natura
appartiene sempre ancora interamente ad essa che il suo volere
riconosce una volontà esterna che al tempo stesso parla attraverso di
lui. Nell’empatia dell’uomo verso la natura è la natura stessa che gli
chiede di deporre le armi. Ciò avviene però solo per il tramite dell’animale.
L’ideale di una riconciliazione con la natura non viene qui inteso,
come in Ernst Bloch (amico di Adorno e vicino alla Scuola di
Francoforte), nel senso di un “Soggetto assoluto che si media con se
stesso”[28], ma nel senso di un incontro tra soggetti.
Ciò è reso possibile solo restituendo all’animale la sua soggettività
negata, riconoscendolo come alter ego naturale del soggetto umano. Non
c’è qui alcun ritorno ad una Naturphilosophie romantica: non si parte da un “principio ultimo dell’essere autogenerantesi”[29]
ma da una natura darwinianamente intesa – molteplice e aleatoria –
fatta di scontri e incontri, in cui la soggettività umana trova se
stessa in forma aliena nella natura non-umana.
Non avendo riconosciuto questo limite della natura in quanto soggetto il marxismo tradizionale manifesta un deficit di materialismo
che solo la liberazione animale può colmare. È alla luce di questa
tensione materialistica che Marcuse scriveva: “non possiamo immaginare
una società libera che non coordini gli sforzi, sotto l’idea regolativa
di ragione, per ridurre conseguentemente la sofferenza che l’uomo
infligge al mondo animale”.[30] Tale atto di solidarietà della natura umana con la natura non umana costituirebbe la chiusura del cerchio di un materialismo integrale, il superamento reale dell’idealismo di cui è intrisa tutta la cultura del dominio.
Apparentemente, in Marx ed Engels, tutto questo è già detto, fino alla lettera: “l’identità di natura e uomo emerge anche in ciò, che il comportamento limitato degli uomini verso la natura condiziona il comportamento limitato fra uomini e uomini, e il comportamento limitato fra uomini e uomini condiziona i loro rapporti con la natura, appunto perché la natura è stata ancora limitata storicamente”.[31] Eppure manca il passaggio decisivo, il ritorno dall’uomo alla natura che permetterebbe di superare questo limite storico e la circolarità cui il dominio costringe il progresso storico. Ponendo la natura come mero sostrato del dominio, rifiutandosi di vedere anche in essa un soggetto (dunque qualcosa di attivo, vitale con cui l’uomo entra in un rapporto anche di comprensione[32]), Marx ed Engels finirono per abbandonare la dialettica materialistica[33], dimenticando, tra l’altro, la centrale lezione del maestro Hegel sul rapporto signoria-servitù. Commentando il celebre passo hegeliano, George Bataille era giunto a intuizioni molto vicine a quelle di Dialettica dell’illuminismo: “colui che sottomette non modifica solo l’elemento sottomesso, ma ne è a sua volta modificato.La natura diventa la proprietà dell’uomo ma cessa di essergli immanente: è sua a condizione di essergli preclusa”.[34]
Apparentemente, in Marx ed Engels, tutto questo è già detto, fino alla lettera: “l’identità di natura e uomo emerge anche in ciò, che il comportamento limitato degli uomini verso la natura condiziona il comportamento limitato fra uomini e uomini, e il comportamento limitato fra uomini e uomini condiziona i loro rapporti con la natura, appunto perché la natura è stata ancora limitata storicamente”.[31] Eppure manca il passaggio decisivo, il ritorno dall’uomo alla natura che permetterebbe di superare questo limite storico e la circolarità cui il dominio costringe il progresso storico. Ponendo la natura come mero sostrato del dominio, rifiutandosi di vedere anche in essa un soggetto (dunque qualcosa di attivo, vitale con cui l’uomo entra in un rapporto anche di comprensione[32]), Marx ed Engels finirono per abbandonare la dialettica materialistica[33], dimenticando, tra l’altro, la centrale lezione del maestro Hegel sul rapporto signoria-servitù. Commentando il celebre passo hegeliano, George Bataille era giunto a intuizioni molto vicine a quelle di Dialettica dell’illuminismo: “colui che sottomette non modifica solo l’elemento sottomesso, ma ne è a sua volta modificato.La natura diventa la proprietà dell’uomo ma cessa di essergli immanente: è sua a condizione di essergli preclusa”.[34]
Sebastiano Timpanaro scriveva nel suo famoso saggio Sul materialismo: “il materialismo è ben più che una teoria gnoseologica: è il riconoscimento dell’animalità dell’uomo (superata, ma non interamente,
dalla sua specifica socialità), è radicale negazione
dell’antropocentrismo e del provvidenzialismo di qualsiasi specie, è
assoluto ateismo, dunque presa di posizione che si riferisce al posto
dell’uomo nel mondo, al ‘rapporto di potere’ attuale e futuro tra uomo e
natura, ai bisogni dell’uomo e alla sua esigenza di felicità”.[35] È curioso che – come la maggioranza dei marxisti – Timpanaro non tragga alcuna conseguenza pratica
dalla constatazione della natura “animale” dell’uomo e determini la
relazione tra le specie sempre nei termini di un rapporto di potere,
orientato unicamente ai nostri bisogni e alla nostra felicità.
La Scuola di Francoforte ha, di contro, sottolineato come il
fondamento di un’etica materialistica non possa che essere la solidarietà del vivente nella comune sofferenza, nel dolore e nella morte. Così si esprime Horkheimer in Materialismo e morale:
Gli uomini possono
combattere.in comune le loro sofferenze e le loro malattie – è
impossibile prevedere cosa potrà realizzare la medicina liberata dagli
attuali ceppi sociali – ma nella natura continua ancora a dominare la
sofferenza e la morte. Tuttavia la solidarietà degli uomini è parte
della solidarietà della vita in genere. Il progresso nella
realizzazione della prima rafforzerà anche il senso per la seconda. Gli
animali hanno bisogno degli uomini.[36]
Nel 1933 Horkheimer proponeva la famosa metafora del “grattacielo” per descrivere la struttura della società capitalistica:
Su in alto i grandi
magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però
sono in lotta tra loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi
proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti;
sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi
professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza
politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei
capiufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle
piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e
tutti gli altri, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati
meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai
disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai malati. Solo sotto tutto
questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della
miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora
abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta la
loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che
funziona nei territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è
di gran lunga la parte più grande del mondo. [ ] In India, in Cina, in
Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione. Sotto gli ambiti
in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi
rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli
animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue,
la disperazione degli animali. … Questo edificio, la cui cantina è un
mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani
superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato.[37]
Si può ben dire che Timpanaro e tutti i
marxisti che non colgano la struttura intrinsecamente
idealistica/spiritualistica del dominio, anche laddove riconoscano
l’animalità dell’uomo, se ne stanno comodamente seduti nella cattedrale.
Non viene loro in mente di scendere negli abissi dell’orrore animale:
da ciò l’angustia e la contraddittorietà di un punto di vista
“materialistico” che non indaghi la genesi del rapporto di alterità tra uomo e animale ma si limiti a constatarlo come un “fatto”.
5. Una nuova “dialettica della natura”
I francofortesi si spingono a pensare la dialettica della natura
ben al di là di quanto aveva fatto Engels, il quale riconosceva sì il
posto dell’uomo nell’ordine naturale, ma vedeva nell’azione umana
comunque sempre e solo una volontà di dominio.
Nessuna preordinata azione di nessun
animale è riuscita a imprimere sulla terra il sigillo della sua volontà.
Ciò doveva essere proprio dell’uomo. Insomma, l’animale si limita a usufruire
della natura esterna, e apporta ad essa modificazioni solo con la sua
presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola:
la domina.Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra
vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra
vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze
sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza
ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a
loro volta le prime conseguenze.Ad ogni passo ci vien ricordato che
noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina il popolo
straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa,
ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel
suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella
capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere
le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato.Ma quanto più ciò
accade, tanto più gli uomini non solo sentiranno, ma anche capiranno,
di formare un’unità con la natura, e tanto più insostenibile si farà il
concetto, assurdo e innaturale, di una contrapposizione tra spirito e
materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è penetrato in
Europa dopo il crollo del mondo dell’antichità classica e che ha
raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo.[38]
Adorno, Horkheimer e Marcuse sostengono
più radicalmente che proprio dischiudendo la possibilità di un rapporto
diverso della volontà umana con la natura quest’ultima si mostra in sé
stessa dialettica. Una concezione non dialettica della natura è
quella che la concepisce come un ordine statico ed invariabile, mentre
il materialismo sposa un’idea di natura in divenire, essenzialmente storica.[39]
Qui Engels sembra invece presupporre che la storia naturale dell’uomo
sia destinata a ripetersi uguale a se stessa. La società umana
liberata, in una simile prospettiva, non potrà essere che una
gigantesca “società per azioni per lo sfruttamento della natura”[40].
La Scuola di Francoforte, proprio pensando la cultura umana come parte
della storia naturale, chiarisce come sia invece possibile un diverso rapporto con l’ambiente e gli animali che sottragga la società umana al destino di un eterno ritorno dell’identico.
5.1. La natura come ricordo
L’identico che ritorna nella storia della civiltà, ciò che fa sì che il progresso si muova in senso circolare, è la natura stessa. Concependo la storia della civiltà come prosecuzione della storia naturale, infatti, la cultura umana si mostra come doppiamente falsa, poiché essa afferma di essere altro da un meccanismo di violenza che invece eredita dalla natura.
Tutto il sofisticato meccanismo della
società industriale moderna è solo natura che si dilania.La natura in sé
non è buona, come voleva l’antico romanticismo, né nobile, come
pretende il nuovo [cioè il fascismo M.M.]. Come modello e mèta,
rappresenta l’antispirito, la menzogna e la bestialità; solo in quanto è
conosciuta diventa l’impulso dell’esistente alla propria pace, la
coscienza che ha animato, fin dall’inizio, la resistenza inflessibile
contro i capi e il collettivo. Ciò che minaccia la prassi dominante e le
sue alternative ineluttabili, non è certo la natura, con cui essa
piuttosto coincide, ma che la natura venga ricordata.[41]
La funzione di tale ricordo è, contrariamente ad ogni mito fascista dell’origine, progressiva,
non regressiva: “il ricordare non è reminiscenza di un’età aurea (mai
esistita), dell’innocenza infantile, dell’uomo primitivo, ecc. In
quanto facoltà epistemologica, il ricordare è piuttosto sintesi,
riconnessione delle briciole e dei frammenti rintracciabili nella
distorta umanità e nella distorta natura”.[42]
Il ricordo della natura è il ricordo della bestialità umana occultata
nel meccanismo della civiltà. Solo attraverso il ricordo della natura
che esso stesso è, lo spirito umano può risolvere gli antagonismi che lo
dilaniano e che lo contrappongono al resto del vivente. Questo “Nella
coscienza che lo spirito ha di sé come natura in sé scissa, è la natura
che invoca se stessa”.[43]
Questo perché “il mondo della natura è un mondo di oppressione,
crudeltà e dolore, com’è il mondo umano; come quest’ultimo, esso aspetta
la sua liberazione”.[44]
5.2. La liberazione della natura
La liberazione della natura è il fulcro della dialettica
della natura insegnata dai francofortesi. Essa va però intesa nei due
sensi del genitivo (soggettivo e oggettivo) e dunque vista come (1)
emancipazione dell’uomo dalla natura e come (2) emancipazione della natura stessa.
5.2.1. L’emancipazione dalla natura
Nel primo senso si può parlare di emancipazione dell’uomo dalla
natura, ovvero dai rapporti naturali intesi come cieca necessità e,
dunque, realizzazione di ciò che la civiltà umana ha sempre promesso
tramite la menzogna dello “spirito” (giustizia, unità, armonia etc.) e
mai veramente realizzato. La redenzione della natura sarebbe in prima
istanza la liberazione della cultura umana dal giogo dell’egoismo
naturale che ancora la opprime e la irretisce. Gli schemi binari, le
false alternative della civiltà sono riproposizioni sul piano simbolico
di un meccanismo di violenza che l’animale umano apprende dal corso
naturale della vita, dalla lotta per l’esistenza.
Il mondo penetrato e dominato dal mana,
e anche quello del mito indiano e greco, sono eternamente uguali e
senza uscita. Ogni nascita è pagata con la morte, ogni felicità con la
disgrazia.Colpa ed espiazione, felicità e sventura, sono così, per la
giustizia mitica come per quella razionale, i membri di un’equazione.Lo
sciamano esorcizza l’essere pericoloso con la sua stessa immagine. Il
suo strumento è l’uguaglianza. Quella stessa uguaglianza che regola,
nella civiltà, la pena e il merito. Anche le rappresentazioni mitiche si
possono ricondurre.a rapporti naturali…Il passaggio dal caos alla
civiltà, dove i rapporti naturali non esercitano più direttamente il
loro potere, ma attraverso la coscienza degli uomini, nulla ha mutato al
principio di uguaglianza…La benda sugli occhi della giustizia non
significa solo che non bisogna interferire sul suo corso, ma che il
diritto non nasce dalla libertà.[45]
L’orrore della morte, che l’uomo aborre,
è non solo la sublimazione dell’istinto alla fuga ma anche la
consapevolezza di un male che è insito nelle cose, nella sofferenza del
caduco, nella malattia che attanaglia il vivente. La redenzione
dell’uomo sarebbe in prima istanza redenzione dalla natura: metamorfosi di un essere naturale che potrebbe farsi carico della sofferenza universale in
una forma che il mondo animale non conosce. Non che non esistano
istanze “etiche” o di “rispetto per l’altro” in natura, ma esse non
assumono la forma dell’universalità che è propria del concetto.
“Giustizia”, “spirito”, “libertà” e tutti i concetti dell’armamentario spiritualista, segnalano perciò un’alterità rispetto alla natura che ancora non si è realizzata. Ciò conduce ad una ridefinizione tanto della Ragione, quanto della Natura. Se la ragione infatti aiutasse la natura invece di opprimerla uscirebbe, con questo semplice atto, dal cerchio della necessità, nascerebbe come Ragione, producendo con ciò un salto qualitativo (che, come diremo a breve, è un salto nella/della Natura stessa). A questo proposito nell’Uomo a una dimensione Marcuse scrisse che “il maltrattamento degli animali [è] opera di una società umana la cui razionalità è ancora l’irrazionale”.[46] È solo nel rapporto dialettico con la Natura che la Ragione (la forma che il principio di autoconservazione assume nella cultura umana) può determinarsi come “razionale” o “irrazionale”. Il rapporto uomo-animale diviene qui criterio di misura di una razionalità che si sia emancipata dalla violenza e dall’oppressione, poiché solo l’impotenza radicale degli animali non umani rende possibile alla ragione scatenata quel passo indietro che realizza la distanza nei confronti dell’altro necessaria a farlo apparire e manifestarsi nella sua alterità. È proprio a partire da questo rapporto possibile con l’altro che l’essenza dell’umano si realizza e si supera a un tempo: poiché è solo a partire da un mutato rapporto con l’animale che l’alterità dell’uomo dal contesto di violenza naturale si realizzerebbe davvero. Esso sarebbe il salto dal regno della necessità al regno della libertà. Tale atto di solidarietà mostrerebbe la falsità dell’illusione spirituale mentre ne realizzerebbe le promesse mancate: la storia della solidarietà con la natura smentirebbe la storia del dominio sulla natura, realizzando quell’alterità che non c’è mai stata. Questa consapevolezza critica muta organicamente tutta la costellazione ragione/natura e prepara il rovesciamento dialettico che permette di parlare di redenzione della natura come opera della natura stessa.
“Giustizia”, “spirito”, “libertà” e tutti i concetti dell’armamentario spiritualista, segnalano perciò un’alterità rispetto alla natura che ancora non si è realizzata. Ciò conduce ad una ridefinizione tanto della Ragione, quanto della Natura. Se la ragione infatti aiutasse la natura invece di opprimerla uscirebbe, con questo semplice atto, dal cerchio della necessità, nascerebbe come Ragione, producendo con ciò un salto qualitativo (che, come diremo a breve, è un salto nella/della Natura stessa). A questo proposito nell’Uomo a una dimensione Marcuse scrisse che “il maltrattamento degli animali [è] opera di una società umana la cui razionalità è ancora l’irrazionale”.[46] È solo nel rapporto dialettico con la Natura che la Ragione (la forma che il principio di autoconservazione assume nella cultura umana) può determinarsi come “razionale” o “irrazionale”. Il rapporto uomo-animale diviene qui criterio di misura di una razionalità che si sia emancipata dalla violenza e dall’oppressione, poiché solo l’impotenza radicale degli animali non umani rende possibile alla ragione scatenata quel passo indietro che realizza la distanza nei confronti dell’altro necessaria a farlo apparire e manifestarsi nella sua alterità. È proprio a partire da questo rapporto possibile con l’altro che l’essenza dell’umano si realizza e si supera a un tempo: poiché è solo a partire da un mutato rapporto con l’animale che l’alterità dell’uomo dal contesto di violenza naturale si realizzerebbe davvero. Esso sarebbe il salto dal regno della necessità al regno della libertà. Tale atto di solidarietà mostrerebbe la falsità dell’illusione spirituale mentre ne realizzerebbe le promesse mancate: la storia della solidarietà con la natura smentirebbe la storia del dominio sulla natura, realizzando quell’alterità che non c’è mai stata. Questa consapevolezza critica muta organicamente tutta la costellazione ragione/natura e prepara il rovesciamento dialettico che permette di parlare di redenzione della natura come opera della natura stessa.
5.2.2. L’emancipazione della natura
Nel secondo senso dell’espressione “redenzione della natura”, infatti, si può parlare di emancipazione della natura stessa dall’egoismo animale che
giunge nell’uomo all’assurdo di un dominio universale e totalitario
sul vivente. Nel momento stesso in cui l’ordine sociale umano liberato
dal dominio potesse dare spazio a questo altro che esso ha
invece sempre represso o annichilito, esso istituirebbe appunto un
“salto qualitativo” della natura stessa che determinerebbe l’idea di
una cooperazione e di una solidarietà tra le specie ben
al di là di quanto i meccanismi selettivi possano aver prodotto nel
corso dell’evoluzione. La natura stessa inaugurerebbe, attraverso
l’opera dell’uomo, un concetto di “pace universale”.
L’immagine della natura come “matrigna” è infatti ancor sempre l’immagine ideologica di una realtà altra dall’uomo che gli si contrappone minacciosa. Essa è la faccia truce che l’uomo assume per contrapporsi al vivente con cui compete per la vita; dismessa la maschera di guerra, anche la natura apparirebbe attraverso l’uomo come un ordine in cui la giustizia è finalmente possibile. Come la Ragione, come l’Uomo non sono ancora, ma rimangono possibilità inespresse di cui il dolore nella storia è la traccia negativa e la speranza, così pure la Natura attende la propria realizzazione e chiama l’uomo a porre in essere una modalità di rapporto con l’altro che è fatta di cura, di ascolto e rispetto.
La storia dell’umanità è, dunque, un arco teso tra il terrore animale – la paura del ritorno all’indifferenziato – e lo stato di conciliazione tra diversi. È in un ordine siffatto – frutto di un travaglio millenario, fatto di violenza e dominio ma anche di potenzialità inespresse e finalmente liberate – che il rapporto tra identità e differenza potrebbe trovare il proprio equilibrio e trovare la propria conciliazione.[47]
L’immagine della natura come “matrigna” è infatti ancor sempre l’immagine ideologica di una realtà altra dall’uomo che gli si contrappone minacciosa. Essa è la faccia truce che l’uomo assume per contrapporsi al vivente con cui compete per la vita; dismessa la maschera di guerra, anche la natura apparirebbe attraverso l’uomo come un ordine in cui la giustizia è finalmente possibile. Come la Ragione, come l’Uomo non sono ancora, ma rimangono possibilità inespresse di cui il dolore nella storia è la traccia negativa e la speranza, così pure la Natura attende la propria realizzazione e chiama l’uomo a porre in essere una modalità di rapporto con l’altro che è fatta di cura, di ascolto e rispetto.
La storia dell’umanità è, dunque, un arco teso tra il terrore animale – la paura del ritorno all’indifferenziato – e lo stato di conciliazione tra diversi. È in un ordine siffatto – frutto di un travaglio millenario, fatto di violenza e dominio ma anche di potenzialità inespresse e finalmente liberate – che il rapporto tra identità e differenza potrebbe trovare il proprio equilibrio e trovare la propria conciliazione.[47]
5.3 La natura conciliata
Qui si mostra come la natura non sia “sostanza” ma “rapporto”. L’essenza relazionale della natura si mostra nell’empatia, è fondato sulla capacità mimetica. Per questo il rapporto uomo/animale ha bisogno di manifestarsi nell’espressione (rapporto intersoggettivo) e non nell’intenzionalità
(rapporto oggettuale). Adorno è giunto particolarmente vicino a questa
visione cosmico-storica in cui la dialettica della natura accoglie in
sé anche il momento della emancipazione della natura stessa nelle sue analisi sul “bello naturale”. Nell’ultima opera, incompiuta, la Teoria estetica, Adorno scrive che non solo l’uomo, ma la natura stessa non c’è ancora.
L’immagine di ciò che c’è di più antico
nella natura è, vista dall’altra faccia, il codice cifrato di ciò che
ancora non c’è, del possibile…Il confine rispetto al feticismo della
natura, rispetto alla fuga panteistica…viene tracciato dal fatto che la
natura, muoventesi dolce e mortale nella sua bellezza non c’è ancora
affatto…Il bello nella natura è altro sia dal principio che domina, sia
dalla diffusa frammentazione; eguale ad esso sarebbe il conciliato.[48]
Ciò significa che anche la natura, come
noi la conosciamo, ospita potenzialità che attendono di essere liberate.
Liberazione dell’uomo e liberazione della natura sono momenti di un
medesimo processo: esso non va però, alla Roussau, in direzione di una
liberazione della natura incontaminata oppressa dalla civiltà, poiché –
come si è detto – la civiltà non è altro che “natura che si dilania in
se stessa”. La natura ci appare come un “ricordo”, un “sogno perduto”
poiché essa evoca in noi l’immagine di ciò potremmo realizzare
ascoltando la sua voce sofferente. Nel primo caso avremo la “fuga
panteistica”, ovvero la negazione della storia naturale dell’uomo come
“errore”; nel secondo, invece, potremmo leggere questa storia come un
tentativo – tremendo e allucinatorio – di lenire il dolore del mondo.
Solo in un ordine conciliato, pacificato, ovvero in un ordine che ha superato dialetticamente l’antitesi
tra natura e cultura, il rapporto tra umano e non umano può
articolarsi al di là della falsa alternativa tra identità e differenza
assolute, cioè tra riduzionismo biologista e spiritualismo. “La pace”
scrive infatti Adorno “è lo stato di differenziazione senza potere, nel
quale ciò che è differenziato reciprocamente partecipa dell’altro”.[49]
Il “differenziato” è ciò che si sottrae al “principio che domina”
(l’identico) e alla “diffusa frammentazione” (la differenza): esso
appare solo laddove l’identità e la differenza assolute si aprono e
lasciano spazio all’alterità nella forma della reciproca comunicazione e
comprensione. Un tale stato presuppone l’intera storia della civiltà
ma al tempo stesso la nega nel momento in cui ne realizza la promessa
di felicità.
Se il rapporto tra umano e non umano,
tra ragione e natura è definibile non in termini astratti, statici,
biologici e ontologici ma solo concretamente, come rapporto tra
soggettività, ecco che la questione del “riduzionismo” e tante altre
che affollano i dibattiti scientifici e bioetici ci appaiono in una luce
diversa. Il rapporto uomo-animale è costretto infatti a rimanere una
questione scolastica e a dibattersi tra false alternative finché viene
posta su un piano meramente scientifico, invece che compreso e agito
coscientemente nel suo significato pratico-politico. La Scuola di
Francoforte ci insegna a pensare il rapporto uomo/animale come rapporto
reale, sottraendolo all’astrazione cui la vogliono condannare tanto il
piatto naturalismo, quanto la trascendenza metafisica. Essa ci insegna
che è solo con un atto di solidarietà che l’uomo può decidere cosa ne è di sé e del suo altro; è solo praticamente che la questione di ciò che l’essere umano “è” può venir decisa.
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