sabato 15 dicembre 2012

Abbandonare l’Euro per ritrovare l’Europa


Ne “Il tramonto dell'euro” Alberto Bagnai muove guerra ai luoghi comuni sull'economia che imperversano ormai da tempo in qualsiasi talk-show televisivo. La crisi della zona euro è prima di tutto una crisi politica, che discende dalla mancata volontà dei partecipanti di trovare soluzioni cooperative. Ecco perché può esistere un nuovo “europeismo antieuro”.

di Gennaro Zezza*

A giudicare dalla frequenza delle ristampe, “Il tramonto dell'euro” (euro 17, pp.414), scritto da Alberto Bagnai per Imprimatur, sta avendo un meritato successo.
Il libro riorganizza ed integra l'analisi della situazione dell'area euro che l'autore ha costruito progressivamente sul suo blog (goofynomics.blogspot.it) nel corso di diversi mesi, stimolando interessanti dibattiti con i lettori del blog stesso.

Il blog ed il libro partono da una constatazione molto condivisibile: il dibattito sui temi economici che arriva dai mass media in Italia è talmente distorto, ideologico e in contrasto con i dati, da rendere urgente operazioni di divulgazione che ristabiliscano semplici verità, spesso di una banalità sconcertante: il titolo del blog, goofynomics da Goofy, il nome americano di Pippo, deriva da una battuta del personaggio Disney: “È strano come, vista dal basso, una discesa somigli ad una salita”. Passando all'economia, lo stesso principio si traduce nel fatto che un taglio della spesa pubblica (denaro in uscita) è un taglio dei redditi (denaro in entrata) di qualche dipendente o fornitore pubblico; il debito pubblico è anche credito, ossia ricchezza, per qualcun altro; se una moneta si svaluta ce n'è un'altra che si rivaluta, e così via.

Armato di queste semplici verità, oltre che di sedimentati modelli interpretativi, ne “Il tramonto dell'euro” Bagnai muove guerra al “luogocomunismo”, un suo neologismo che sintetizza posizioni sentite fino allo sfinimento in qualsiasi talk-show televisivo, ma anche nelle dichiarazioni di molti politici, a destra come a sinistra.

Si incomincia col demolire la “beatificazione” degli investimenti esteri, che tutti sembrano desiderare dimenticando che questi investimenti non sono altro che l'acquisizione di società italiane profittevoli (difficilmente gli investitori esteri fanno beneficenza), cui seguiranno in futuro riduzioni nel reddito nazionale, quando i profitti verranno trasferiti al nuovo proprietario all'estero.

Si passa poi a ricordare che un Paese che basi la sua crescita sulle esportazioni, generando un surplus commerciale, ha bisogno di almeno un altro Paese disponibile ad avere un deficit commerciale. Squilibri commerciali si rispecchiano in squilibri finanziari: se l'Italia compra più merci dalla Germania di quante non riesca a venderne, vedrà aumentare il suo debito estero netto. Il surplus commerciale si può sostenere solo fin quando il Paese in surplus è disposto a finanziare i suoi partners. E una volta creati gli squilibri commerciali, se si pretende che i debitori rimborsino i loro debiti, i Paesi in deficit dovranno sottrarre risorse da indirizzare all'estero, generando una recessione che a sua volta ridurrà gli acquisti dal Paese in surplus, che a sua volta vedrà sì aumentare i redditi dei creditori, ma vedrà anche crollare le vendite delle sue imprese. Né si può proporre a tutti i Paesi in deficit di adottare a loro volta politiche di crescita basate sulle esportazioni: se tutti esportano, chi acquista?

Bagnai demolisce poi la demonizzazione delle svalutazioni, mostrando che in Italia queste sono servite – prima dell'euro – a ripristinare perdite di competitività, piuttosto che come politiche commerciali aggressive, e che il loro impatto sull'inflazione è stato modesto.

Fatta piazza pulita dei luogocomunismi, Bagnai mostra come l'impianto istituzionale che governa la zona euro sia destinato al fallimento, come già autorevoli economisti avevano previsto prima della sua istituzione, per la mancanza di meccanismi di aggiustamento a fronte degli inevitabili squilibri che emergono in un'area che adotta una valuta unica ma che ha tassi di inflazione e livelli di sviluppo differenti, e mercati del lavoro non integrati. Se i Paesi dell'area euro avessero voluto effettivamente perseguire gli obiettivi dell'unificazione, in primis garantire lavoro e benessere ai cittadini europei, le priorità politiche sarebbero state altre, e non si sarebbero tollerate politiche neo-mercantiliste che non potevano che generare squilibri insanabili. La crisi della zona euro è quindi prima di tutto una crisi politica, che discende dalla mancata volontà dei partecipanti di trovare soluzioni cooperative.

Stando così le cose, è inevitabile il tramonto dell'euro ed il ritorno a valute nazionali, con una previsione di svalutazione della neo-lira dell'ordine del 20% sul neo-marco, o meglio con un modesto apprezzamento del neo-marco sulle altre valute della periferia. Con il ritorno a valute nazionali è possibile – ma non scontato – il ritorno alla sovranità monetaria e alla possibilità di finanziare deficit pubblici a basso costo, come già in Italia fino al “divorzio” del 1981 tra banca centrale e Tesoro. Ripristinando il controllo sulle modalità del finanziamento dei deficit pubblici, si può finalmente tornare ad indirizzare la politica economica verso quella che ci sembra la priorità assoluta: l'eliminazione della povertà e della disoccupazione.

Quel che ho apprezzato in particolare ne “Il tramonto dell'euro” è lo spirito di fondo davvero europeista, e lo sforzo di proporre nuove istituzioni – in particolare nuovi meccanismi di gestione delle valute – che consentano la cooperazione tra i Paesi europei verso uno sviluppo equilibrato dei singoli Paesi. Cosa ben diversa dalla attuale contrapposizione mediatica tra “europeisti”, che nel difendere le attuali istituzioni europee perpetuano meccanismi di salvaguardia dei creditori (i sistemi finanziari dei Paesi centrali) a danno dei Paesi periferici, con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi in Grecia, Portogallo, Spagna e sempre di più anche in Italia, e “populisti” che nel contrapporsi ai primi fanno leva su sentimenti nazionalisti che dubito possano essere sufficienti a risolvere gli attuali problemi europei.

Il libro è scritto in modo brillante, e con un approccio divulgativo che, ci auguriamo, sarà utile a farne un punto di riferimento importante nel dibattito italiano.

* Dipartimento di Economia e Giurisprudenza, Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale

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