Non
si candida “perché è senatore a vita”: non si capisce che c’azzecchi il
particolare col permettere a una, dieci o cento liste di fregiarsi del
suo nome. È pronto ad accettare la premiership ove gli venisse servita
su un piatto d’argento: purché la richiesta venga avanzata con l’impegno
di realizzare il suo programma, mica quello di qualcun altro, e sia
accompagnata da un tondo “per favore”.
Nello sua sospirata conferenza stampa di fine mandato, Mario Monti ha
chiarito con rara maestria con quale minaccia se la debba vedere oggi
la Repubblica democratica. Non con tentazioni antidemocratiche, che se
ci sono nell’ultimo ventennio non sono mai andate oltre il conato e il
miraggio velleitario. Deve vedersela con una tendenza molto più subdola,
perfettamente incarnata dal professor Monti e dalla spocchiosissima
squadra che lo ha accompagnato per 13 mesi: non antidemocratica bensì
a-democratica.
Monti rifiuta di chiedere agli italiani di esprimere consenso o
dissenso sulla sua linea, che non è fatta di note a piè di pagine ma di
capitoloni pieni di lacrime e di sangue spesi per ottenere in cambio
recessione e disoccupazione. Vuole però che chi di dovere (e di potere)
faccia quel che va fatto per insediarlo ugualmente sull’alta poltrona,
di fatto alle spalle del popolo votante.
Lo fa, appunto, con sincero spirito a-democratico, dunque con un
certo candore, senza malizia, nella limpida convinzione che per fare il
bene del popolo la cosa migliore sia esautorare il popolo dal compito di
assumersi responsabilità superiori alle sue esili forze. Lo fa con lo
stesso atteggiamento, a metà tra l’oligarca tecnocrate e il barone
d’accademia, dispiegato in abbondanza per 13 mesi: quello di chi
considera i governati gente scervellata e spesso lazzarona, da rimettere
in riga con severità.
Questa visione del mondo non contrasta la democrazia. La ignora. È
segnata da una sorta di schizofrenia. Sino a che si tratta di parlare,
la fede democratica è sincera e a prova di bomba. Quando si arriva al
momento dell’azione aggirare quella fede si afferma come primo dovere di
chi voglia governare sul serio.
Il processo è innescato già da un po’. È la dinamica che, nel giro di
pochi anni, ha portato all’esautorazione piena dei governi nazionali,
senza che siano stati sostituiti da nulla di democraticamente scelto.
Molto, purtroppo è stato fatto. Molto, per fortuna, resta ancora da
fare. La partita è aperta. La mano che si gioca intorno alla sorte
personale di Mario Monti e soprattutto intorno alla sua agenda avrà peso
determinante nel Paese e notevole anche nel Continente unito.
Se il gioco di Monti e di chi lo spalleggia riuscisse, per la
democrazia repubblicana non ci sarebbe scampo. Non sarebbe sostituita da
un regime, giammai, che i Monti, i Passera, i Napolitano, gli Scalfari
e il coro petulante di giornalisti in livrea son tutti uomini d’onore.
Resterebbe tutta, però ridotta a una liturgia priva di senso, come del
resto in buona misura è già.
Ma se invece Monti non riuscisse a farsi pregare di accettare la corona, se dovesse accontentarsi, porello,
del Colle e tuttavia la sua agenda restasse la bussola della vascello
di governo, con un segretario del Pd al timone e tanti bravi compagni di
sinistra alle vele e agli scalmi, il risultato non sarebbe diverso.
Identico nella sostanza, più torbido e ambiguo nella forma, sarebbe se
possibile anche peggio
La prima è una minaccia possibile. La seconda probabile. Però non è
detta l’ultima. Checché ne pensi Monti, le elezioni non sono una rottura
di scatole formale da togliersi dai piedi il prima possibile. I
risultati potrebbero esercitare un condizionamento molto più stringente
del previsto. Tanto imporre quello che oggi pochissimi, a destra come a
sinistra, vogliono fare: cancellare l’agenda di Mario Monti .
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