Maurizio
Landini e Antonio Ingroia sono le due personalità cruciali per il
futuro politico prossimo dell’opposizione civile che vuole realizzare la
Costituzione. Landini ha stracciato tutti nei sondaggi della
trasmissione di Santoro. Conosciamo l’obiezione: il “popolo” di Servizio
Pubblico non è certo rappresentativo dell’Italia, e neppure del
centro-sinistra, mediamente è più radicale. E i diecimila partecipanti
ai sondaggi settimanali sono probabilmente più motivati, e dunque
radicali, sempre mediamente parlando, dei due milioni e mezzo di
spettatori. Tutto vero, e il loro non è un campione statistico
“scientifico”. Non si dimentichi comunque che i sondaggi elettorali sono
condotti spesso su mille o duemila italiani in rappresentanza di
cinquanta milioni di elettori. Che Landini stracci Monti 91% a 9% era
forse scontato, che sconfiggesse successivamente De Magistris (70% a
30%), Vendola (75% a 25%) e Grillo (62% a 38%) decisamente meno.
A proclamare Landini leader dei cittadini che vogliono “giustizia e libertà”, del resto, è stato Monti in combutta di reazionari sensi con Marchionne, quando i due hanno preteso che lo show di regime nella fabbrica Fiat di Melfi avvenisse bensì nel tripudio dei dirigenti e iscritti Cisl e Uil, ma impedendo che Landini e i metalmeccanici Fiom potessero varcare i cancelli. Il pensiero unico degli oligarchi italiani ha paura di un dirigente operaio che pensa. Leader politico dell’Italia che resiste, però, Landini si rifiuta di diventare. Sente che la sua vocazione è il sindacato e niente altro. Scelta nobilissima da vero “cuore forte” (altro che quelli evocati da Monti, cuori di pappa conformista), ma davvero razionale?
Landini sa bene che il prossimo governo, con Bersani da solo o in accoppiata con Monti, non solo non adotterà nessun provvedimenti dei tanti proposti dalla Fiom, ma tratterà l’ultimo sindacato vero da insopportabile intralcio. Detto senza perifrasi: cercherà di farlo a pezzi. E senza una forza politica che faccia da sostegno alle lotte di resistenza operaia e civica che certamente ci saranno nel paese, il disegno riuscirà. Vendola non adotterà la bandiera dei carabinieri (“usi obbedir tacendo”) perché anzi pronuncerà narrazioni di alti lai, restando però a cuccia.
Una scelta esistenziale non si discute, ma se Landini vuole restare solo sindacalista, non sarebbe razionale che almeno spingesse suoi strettissimi “compagni d’arme” alla testa del “quarto polo” con Ingroia? Si sentono voci di quadri operai Fiom tentati dalla candidatura Sel, sarebbe un dolorosissimo ennesimo episodio di sindrome di Stoccolma (per quanto soft) visto che il prossimo governo (con dentro Vendola) farà una politica anti-operaia, malgrado unguenti e chiacchiere, è matematico.
Ingroia proprio a Landini si è rivolto, come primo interlocutore. Ingroia ha compiuto la scelta più impopolare, che gli costerà rancori e comunque aspri dissensi anche fra tanti che lo hanno sostenuto come magistrato. In questo senso nessuno può onestamente negare che abbia assunto una decisione esistenzialmente coraggiosa. Saprà avere altrettanto coraggio nella prosaica navigazione della campagna elettorale? Il primo coraggio è quello della coerenza assoluta. I cittadini che oscillano tra non voto, voto a Grillo, speranza di un polo “giustizia e libertà”, non tollerano neppure un’oncia di equilibrismi e discrasie tra dire e fare. Chiedere ai partiti di “fare un passo indietro” significa chiedere ai rispettivi dirigenti di non candidarsi, altrimenti è vissuto già come linguaggio politicante.
Sia chiaro, l’operaio di Pomigliano con tessera di Rifondazione o la precaria del call center con tessera Idv sarebbero una ricchezza per le liste, ma i dirigenti, i professionisti della politica, quelli no, il “quarto polo” perderebbe la metà dei suoi voti potenziali. Paolo Ferrero ha già rinunciato. Di Pietro e Diliberto non ancora. Se non lo facessero dimostrerebbero di non aver ancora debellato del tutto la “sindrome della cozza” che avvita la Casta alle poltrone.
A proclamare Landini leader dei cittadini che vogliono “giustizia e libertà”, del resto, è stato Monti in combutta di reazionari sensi con Marchionne, quando i due hanno preteso che lo show di regime nella fabbrica Fiat di Melfi avvenisse bensì nel tripudio dei dirigenti e iscritti Cisl e Uil, ma impedendo che Landini e i metalmeccanici Fiom potessero varcare i cancelli. Il pensiero unico degli oligarchi italiani ha paura di un dirigente operaio che pensa. Leader politico dell’Italia che resiste, però, Landini si rifiuta di diventare. Sente che la sua vocazione è il sindacato e niente altro. Scelta nobilissima da vero “cuore forte” (altro che quelli evocati da Monti, cuori di pappa conformista), ma davvero razionale?
Landini sa bene che il prossimo governo, con Bersani da solo o in accoppiata con Monti, non solo non adotterà nessun provvedimenti dei tanti proposti dalla Fiom, ma tratterà l’ultimo sindacato vero da insopportabile intralcio. Detto senza perifrasi: cercherà di farlo a pezzi. E senza una forza politica che faccia da sostegno alle lotte di resistenza operaia e civica che certamente ci saranno nel paese, il disegno riuscirà. Vendola non adotterà la bandiera dei carabinieri (“usi obbedir tacendo”) perché anzi pronuncerà narrazioni di alti lai, restando però a cuccia.
Una scelta esistenziale non si discute, ma se Landini vuole restare solo sindacalista, non sarebbe razionale che almeno spingesse suoi strettissimi “compagni d’arme” alla testa del “quarto polo” con Ingroia? Si sentono voci di quadri operai Fiom tentati dalla candidatura Sel, sarebbe un dolorosissimo ennesimo episodio di sindrome di Stoccolma (per quanto soft) visto che il prossimo governo (con dentro Vendola) farà una politica anti-operaia, malgrado unguenti e chiacchiere, è matematico.
Ingroia proprio a Landini si è rivolto, come primo interlocutore. Ingroia ha compiuto la scelta più impopolare, che gli costerà rancori e comunque aspri dissensi anche fra tanti che lo hanno sostenuto come magistrato. In questo senso nessuno può onestamente negare che abbia assunto una decisione esistenzialmente coraggiosa. Saprà avere altrettanto coraggio nella prosaica navigazione della campagna elettorale? Il primo coraggio è quello della coerenza assoluta. I cittadini che oscillano tra non voto, voto a Grillo, speranza di un polo “giustizia e libertà”, non tollerano neppure un’oncia di equilibrismi e discrasie tra dire e fare. Chiedere ai partiti di “fare un passo indietro” significa chiedere ai rispettivi dirigenti di non candidarsi, altrimenti è vissuto già come linguaggio politicante.
Sia chiaro, l’operaio di Pomigliano con tessera di Rifondazione o la precaria del call center con tessera Idv sarebbero una ricchezza per le liste, ma i dirigenti, i professionisti della politica, quelli no, il “quarto polo” perderebbe la metà dei suoi voti potenziali. Paolo Ferrero ha già rinunciato. Di Pietro e Diliberto non ancora. Se non lo facessero dimostrerebbero di non aver ancora debellato del tutto la “sindrome della cozza” che avvita la Casta alle poltrone.
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