Monti è di destra e lo si può dire apertamente.
Bisognerebbe ringraziare il vertice del Ppe, riunito ieri a Bruxelles,
per aver fatto chiarezza su questo punto.
Non che avessimo dubbi, ma ora è ufficiale: Monti non è affatto un “tecnico” venuto per “salvare il paese”, ma un banalissimo gerarca del capitale multinazionale – non solo europeo, attenzione! - inviato a rovesciare come un guanto il “modello sociale” costruito nel dopoguerra.
Un personaggio della destra “popolare” - antico nome con cui i democristiani si presentano sulla scena continentale – educato dai gesuiti e assunto fin da giovane nella nomenklatura imperialista. La sua cultura “trilateralista” si è vista subito dal fastidio con cui ha considerato le procedure democratiche, così come le leggi e le regole contrattuali. Tutti “vincoli” per l'impresa privata da abbattere rapidamente, tutti “costi” da tagliare senza badare per il sottile, tutti "privilegi" di un'altra epoca. Il suo stesso ingresso a Palazzo Chigi – lo abbiamo scritto subito – è avvenuto con le movenze di un golpe istituzionale. In appena 24 ore la nomina a senatore a vita (per “meriti” di cui la cittadinanza italiana è ancora all'oscuro, ma evidenti all'establishment) e l'incarico di premier. Mai visto prima.
L'investitura ricevuta ora dalla “destra perbene” continentale gli strappa però la presunta neutralità che gli aveva fin qui garantito “apprezzamenti unanimi”. E spiazza una volta di più i pazienti tessitori del Pd, proprio nelle ore in cui Bersani si affannava a spiegare alla stampa estera che “governeremo rispettando i vincoli europei”, "Monti l'abbiamo voluto noi e io interpreto l'agenda Monti come un'agenda di rigore”, “lasceremo l'articolo 18 così com'è, è uguale a quello tedesco”. Anzi, “faremo un sacco di cose sul modello tedesco”. Cominciassero dai livelli salariali, sarebbe interessante...
La domanda è sempice e inaggirabile: c'è una qualche apprezzabile differenza tra il programma del centrosinistra e l'”agenda Monti”, benedetta dal centrodestra che ha epurato Berlusconi?
No. Ce lo dicono in coro sia Bersani che “i mercati” (lo spread è ri-precipitato su livelli tranquilli, dopo la fugace infiammazione indotta dal “ritorno della mummia”), sia Monti che il Ppe. Quindi è inutile sforzarsi di trovarla (uno sport ancora diffuso "a sinistra").
E allora perché vanno a costituire due coalizioni di governo “alternative”? C'è un solo motivo: impedire il formarsi di alternative vere, su piattaforme economico-sociali che diano rappresentanza a interessi opposti a quelli del capitale multinazionale. Ci si può tranquillamente distinguere tra beghini e modernisti su questioni culturalmente importanti ma “economicamente” neutre come lo spazio maggiore o minore per le donne, i diritti dei gay, preoccupazioni ambientali non lesive della produzione, laicità versus fedi religiose e la tolleranza reciproca tra loro. Null'altro.
Questo moto “centralizzatore” di origine “europea” sta risolvendo una per una le “anomalie” della politica italiana: cauterizzata l'ulcera berlusconiana, annichilita e ridimensionata insieme a lui – un anno fa - la Vandea leghista, in via di riassorbimento l'”antipolitica” grillina. Tre fenomeni accomunati dalla stessa malattia: il “partito personale”.
C'è spazio per un'opposizione? Immenso, ci sembra. E ci si stanno tuffando in tanti, con livelli di chiarezza decisamente differenti. Il neonato “movimento arancione”, che presenta forti rischi di “personalizzazione” (De Magistris e Ingroia, nuovi “santi magistrati” pronti a rimpazzare, in un immaginario debole, un Di Pietro in caduta verticale), in competizione egemonica con “Cambiare si può”, i conati di “partito del lavoro” vagheggiati da frange Fiom e Cgil, i calcoli minimalisti di settori di movimento abituati da anni a concertare con le amministrazioni locali, ecc.
Qui il non detto è uno solo: si va alla costituzione di un fronte, anche elettorale, indipendente dal Pd o in qualche misura a questo “collegato”?
Ci sembra ormai assodato che l'idea di “condizionare l'azione di governo” stabilendo un'alleanza subordinata sia irrealistica. E' questione di numeri, oltre che di programma. L'esperienza dell'”arcobaleno” bertinottiano sta lì ad ammonire i posteri nei secoli. Ci ha già riprovato Vendola, e non c'è altro da aggiungere. Ma l'illusione che si possa “contare” soltanto entrando a palazzo Chigi, anche solo con uno strapuntino in piccionaia, è dura a morire.
Sono i rapporti di forza sociali a determinare i margini di cambiamento politico possibile; e questi rapporti sono oggi drammaticamente sfavorevoli. Qui bisogna insistere per cambiare la situazione. L'assemblea di domani delle forze che avevano dato vita al “No Monti Day” può e deve diventare un momento importante su questa strada.
Non che avessimo dubbi, ma ora è ufficiale: Monti non è affatto un “tecnico” venuto per “salvare il paese”, ma un banalissimo gerarca del capitale multinazionale – non solo europeo, attenzione! - inviato a rovesciare come un guanto il “modello sociale” costruito nel dopoguerra.
Un personaggio della destra “popolare” - antico nome con cui i democristiani si presentano sulla scena continentale – educato dai gesuiti e assunto fin da giovane nella nomenklatura imperialista. La sua cultura “trilateralista” si è vista subito dal fastidio con cui ha considerato le procedure democratiche, così come le leggi e le regole contrattuali. Tutti “vincoli” per l'impresa privata da abbattere rapidamente, tutti “costi” da tagliare senza badare per il sottile, tutti "privilegi" di un'altra epoca. Il suo stesso ingresso a Palazzo Chigi – lo abbiamo scritto subito – è avvenuto con le movenze di un golpe istituzionale. In appena 24 ore la nomina a senatore a vita (per “meriti” di cui la cittadinanza italiana è ancora all'oscuro, ma evidenti all'establishment) e l'incarico di premier. Mai visto prima.
L'investitura ricevuta ora dalla “destra perbene” continentale gli strappa però la presunta neutralità che gli aveva fin qui garantito “apprezzamenti unanimi”. E spiazza una volta di più i pazienti tessitori del Pd, proprio nelle ore in cui Bersani si affannava a spiegare alla stampa estera che “governeremo rispettando i vincoli europei”, "Monti l'abbiamo voluto noi e io interpreto l'agenda Monti come un'agenda di rigore”, “lasceremo l'articolo 18 così com'è, è uguale a quello tedesco”. Anzi, “faremo un sacco di cose sul modello tedesco”. Cominciassero dai livelli salariali, sarebbe interessante...
La domanda è sempice e inaggirabile: c'è una qualche apprezzabile differenza tra il programma del centrosinistra e l'”agenda Monti”, benedetta dal centrodestra che ha epurato Berlusconi?
No. Ce lo dicono in coro sia Bersani che “i mercati” (lo spread è ri-precipitato su livelli tranquilli, dopo la fugace infiammazione indotta dal “ritorno della mummia”), sia Monti che il Ppe. Quindi è inutile sforzarsi di trovarla (uno sport ancora diffuso "a sinistra").
E allora perché vanno a costituire due coalizioni di governo “alternative”? C'è un solo motivo: impedire il formarsi di alternative vere, su piattaforme economico-sociali che diano rappresentanza a interessi opposti a quelli del capitale multinazionale. Ci si può tranquillamente distinguere tra beghini e modernisti su questioni culturalmente importanti ma “economicamente” neutre come lo spazio maggiore o minore per le donne, i diritti dei gay, preoccupazioni ambientali non lesive della produzione, laicità versus fedi religiose e la tolleranza reciproca tra loro. Null'altro.
Questo moto “centralizzatore” di origine “europea” sta risolvendo una per una le “anomalie” della politica italiana: cauterizzata l'ulcera berlusconiana, annichilita e ridimensionata insieme a lui – un anno fa - la Vandea leghista, in via di riassorbimento l'”antipolitica” grillina. Tre fenomeni accomunati dalla stessa malattia: il “partito personale”.
C'è spazio per un'opposizione? Immenso, ci sembra. E ci si stanno tuffando in tanti, con livelli di chiarezza decisamente differenti. Il neonato “movimento arancione”, che presenta forti rischi di “personalizzazione” (De Magistris e Ingroia, nuovi “santi magistrati” pronti a rimpazzare, in un immaginario debole, un Di Pietro in caduta verticale), in competizione egemonica con “Cambiare si può”, i conati di “partito del lavoro” vagheggiati da frange Fiom e Cgil, i calcoli minimalisti di settori di movimento abituati da anni a concertare con le amministrazioni locali, ecc.
Qui il non detto è uno solo: si va alla costituzione di un fronte, anche elettorale, indipendente dal Pd o in qualche misura a questo “collegato”?
Ci sembra ormai assodato che l'idea di “condizionare l'azione di governo” stabilendo un'alleanza subordinata sia irrealistica. E' questione di numeri, oltre che di programma. L'esperienza dell'”arcobaleno” bertinottiano sta lì ad ammonire i posteri nei secoli. Ci ha già riprovato Vendola, e non c'è altro da aggiungere. Ma l'illusione che si possa “contare” soltanto entrando a palazzo Chigi, anche solo con uno strapuntino in piccionaia, è dura a morire.
Sono i rapporti di forza sociali a determinare i margini di cambiamento politico possibile; e questi rapporti sono oggi drammaticamente sfavorevoli. Qui bisogna insistere per cambiare la situazione. L'assemblea di domani delle forze che avevano dato vita al “No Monti Day” può e deve diventare un momento importante su questa strada.
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