Il tracollo finanziario di questi anni non è dovuto a un incidente
del sistema ma è il risultato dell’accumulazione finanziaria perseguita
ad ogni costo per reagire alla stagnazione economica di fine secolo.
L’introduzione al libro del sociologo Luciano Gallino, “Il colpo di
Stato di banche e governi”
La crisi esplosa nel 2007-2008 è stata
sovente rappresentata come un fenomeno naturale, improvviso quanto
imprevedibile: uno tsunami, un terremoto, una spaventosa eruzione
vulcanica. Oppure come un incidente tecnico capitato fortuitamente a un
sistema, quello finanziario, che funzionava perfettamente. In realtà la
crisi che stiamo attraversando non ha niente di naturale o di
accidentale. E stata il risultato di una risposta sbagliata, in sé di
ordine finanziario ma fondata su una larga piattaforma legislativa, che
la politica ha dato al rallentamento dell’economia reale che era in
corso per ragioni strutturali da un lungo periodo. Alle radici della
crisi v’è la stagnazione dell’accumulazione del capitale in America e in
Europa, una situazione evidente già negli anni Settanta del secolo
scorso. Al fine di superare la stagnazione, i governi delle due sponde
dell’Atlantico hanno favorito in ogni modo lo sviluppo senza limite
delle attività finanziarie, compendiantesi nella produzione di denaro
fittizio. Questo singolare processo produttivo ha il suo fondamento
nella creazione di denaro dal nulla vuoi tramite il credito, vuoi per
mezzo della gigantesca diffusione di titoli totalmente separati
dall’economia reale, quali sono i «derivati», a fronte dei quali –
diversamente da quanto avveniva alle loro lontane origini – non prende
corpo alcuna compravendita di beni o servizi: sono diventati di fatto
l’equivalente dei tagliandi di una lotteria. Tuttavia, essendo possibile
venderli e trasformarli cosi in moneta, essi rappresentano una nuova
forma di denaro che insieme con la creazione illimitata di denaro
mediante il credito ha invaso il mondo, rendendo del tutto impossibile
stabilire quanto denaro sia in circolazione, tolta la piccola quota –
pochi punti percentuali – di monete e banconote stampate e di denaro
elettronico creato dalle Banche centrali. Il problema è che il denaro
creato dal nulla può sì essere prontamente convertito in beni e servizi
reali, ma altrettanto velocemente può scomparire in ogni momento, come
avvenne con straordinaria ampiezza tra il febbraio e l’ottobre del 2008.
Fatta eccezione del contante e del
denaro creato dalle Banche centrali per le loro finalità istituzionali,
quasi tutto il denaro in circolazione viene creato da banche private
mediante la concessione di crediti o la confezione di titoli. Nella Ue,
le banche private sono arrivate a concedere in totale trilioni di euro
di crediti ovvero di prestiti, mentre possedevano nei loro caveau reali o
elettronici non più del 4-5 per cento di capitale proprio, o in riserva
presso la Bce non più dell’1-2 per cento del totale dei prestiti
erogati. Sono in ciò insite due distorsioni del sistema finanziario in
essere che si collocano persino al di là della creazione patologica di
fiumi di denaro dal nulla che ha concorso a causare la crisi. Su di esse
si ritornerà ampiamente nel testo. Basti annotare per ora, in primo
luogo, che il potere di creare denaro è uno dei poteri fondamentali di
uno Stato. Averlo lasciato da lungo tempo per nove decimi alle banche
private, e averne anzi favorito con ogni mezzo l’espansione, è un vizio
che sta minando alla base l’economia mondiale. In secondo luogo, le
banche creano denaro dal nulla con pochi tocchi sulla tastiera di un Pc,
ma poi da coloro che ricevono quel denaro in prestito – famiglie,
imprese, lo Stato – pretendono sostanziosi interessi. E nel caso di
mancato pagamento degli interessi o delle quote di capitale in scadenza
hanno diritto di sequestrare a essi ogni sorta di beni mobili e
immobili, per tal via convertendo il nulla in case o terreni o impianti
industriali che diventano una loro proprietà. È una (il)logica che sfida
l’immaginazione più accesa (1).
In questo modo la politica ha attribuito
alla finanza, non da oggi bensì da generazioni, un potere smisurato.
Negli anni Cinquanta del Novecento si parlava di «complesso
militare-industriale» facendo riferimento agli stretti rapporti
economici, politici, ideologici stabilitisi nelle società industriali
avanzate tra le forze armate e le maggiori aziende industriali. Fu il
presidente Eisenhower, nel suo discorso di congedo (gennaio 1961) a
sollecitare gli Stati Uniti e il mondo a guardarsi dal «disastroso
aumento di potere» che tale complesso lasciava intravedere (2). Dagli
anni Ottanta in poi si dovrebbe invece parlare di «complesso
politico-finanziario», in presenza dei rapporti sempre più stretti che
si sono sviluppati tra politica e finanza, nella Ue come negli Usa.
Stabilito che la crisi in atto è un
fenomeno strutturale, non un incidente di percorso, e che ha alle spalle
distorsioni profonde dell’intero sistema finanziario e monetario, per
vari aspetti connesse con la stagnazione dell’economia reale, va
precisato che le «strutture» non operano da sole. Hanno bisogno di
persone che ne interpretano le logiche, le modificano per adattarle ai
tempi e le applicano. Sebbene vi siano notevoli differenze tra politica
ed economia quanto a possibilità di imputare determinate azioni a certi
gruppi o individui, la crisi è stata ed è l’esito di azioni compiute da
un numero ristretto di uomini e donne che per lungo tempo, tramite le
organizzazioni di cui erano a capo o in cui operavano, hanno perseguito
consapevolmente determinate finalità economiche e politiche. Hanno
compiuto quelle azioni in parte perché l’ideologia da cui erano guidate
non consentiva loro di scorgere alternative; in parte per soddisfare i
propri interessi o quelli di terze parti. Azioni compiute con la
possibilità di avvalersi di risorse enormi, in campo economico come in
quello politico, senza però darsi minimamente pensiero delle conseguenze
che le azioni stesse potevano produrre a danno di un numero sterminato
di individui. Il sistema che tali soggetti hanno costruito e guidato, il
complesso politico-finanziario, era affetto sin dagli inizi da gravi
difetti progettuali e aveva già manifestato nei decenni precedenti
ripetuti segnali di malfunzionamento. Dinanzi alle sue cause e
conseguenze, la crisi esplosa nel 2007 può essere definita come il più
grande fenomeno di irresponsabilità sociale di istituzioni politiche ed
economiche che si sia mai verificato nella storia (3).
Nel sistema economico i principali
attori di tale fenomeno sono stati i dirigenti di vari generi di
mega-entità finanziarie. L’elenco di queste è molto lungo. Inizia con
Banche centrali quali la Bce, la Fed americana, la Banca d’Inghilterra, e
organizzazioni intergovernative come il Fondo monetario internazionale.
Poi viene una folla di altri enti, a cominciare dai conglomerati
formati da «società che controllano banche» (bank holding companies),
enti che nel dominio della finanza svolgono attività di ogni genere
concepibile, comprese quelle bancarie. Seguono le «banche universali»
sia private come, per dire, Bnp-Paribas o Unicredit, sia pubbliche,
quali le Landesbanken (banche regionali) tedesche, le une
come le altre impegnate per decenni a trarre maggiori entrate dagli
investimenti e dalla speculazione per conto proprio che non dai risparmi
che gestiscono; gli investitori istituzionali, quali fondi pensione
pubblici e privati, fondi di investimento e compagnie di assicurazione
(4).
E ancora, tra gli attori economici i
quali, ne fossero consapevoli o no, hanno concorso sia a scatenare la
crisi sia a protrarre senza fine la ricerca di soluzioni pur parziali e
temporanee, troviamo le società immobiliari lanciatesi sui mercati
finanziari; i fondi del mercato monetario; i fondi speculativi (hedge funds);
i fondi detti sovrani perché il loro capitale è formato soprattutto da
titoli di Stato; le società specializzate nel creare e trattare sul
mercato titoli commerciali che hanno alla base crediti ipotecari; le
casse di risparmio e quelle di depositi e prestiti, attive in tutti i
maggiori Paesi; le società pubbliche o sponsorizzate dallo Stato con il
compito di assicurare e riassicurare le ipoteche sulla casa, tipo le
americane Fannie Mae (che sta per Federai National Mortgage
Association), Ginnie Mae (Government National Mortgage Association) e
Freddie Mac (Federal Home Loan Mortgage Corporation). A chiudere,
numerose fondazioni che hanno come capitale una grossa quota di azioni
bancarie, più quote cospicue di fondi di investimento, un genere che
comprende anche le fondazioni su cui si reggono alcune delle maggiori
università private del mondo, come Harvard o Stanford.
Nel sistema politico hanno contribuito
alla crisi, sin dagli anni Ottanta quando ne elaborarono tramite i
Parlamenti le fondamenta legali, un buon numero di componenti dei
governi Usa e Ue che si sono succeduti da allora a oggi; nonché membri
di organizzazioni intergovernative, tra le quali spicca la Commissione
europea. Più alcuni capi di Stato, fra i quali sono stati in primo piano
ai loro tempi democratici come Bill Clinton e François Mitterrand. Agli
attori suddetti vanno ancora aggiunti i dirigenti dei partiti politici
che hanno espresso e sostenuto i governi in questione, nonché i
parlamentari che ne hanno seguito le direttive, votando in quasi tutti i
Paesi Ue alcune leggi presentate come sicuri rimedi alla crisi, mentre
in realtà hanno finito per aggravarla. Basti pensare agli inauditi
interventi nel tessuto stesso delle sovranità politica ed economica
degli Stati, costituiti dall’inserimento in Costituzione del pareggio di
bilancio o dall’approvazione parlamentare del cosiddetto «patto
fiscale», che saranno esaminati in dettaglio in un apposito capitolo.
Se le strutture sono lo scenario e la
trama che hanno bisogno di attori economici e politici affinché il
dramma si svolga, gli attori medesimi hanno bisogno di aiutanti al fine
di meglio individuare, legittimare, alimentare, eseguire passo passo,
per anni e decenni, le linee di azione che hanno condotto alla crisi. Si
sono prestati a esercitare tale ruolo in modo diretto i traders,
gli addetti ai trilioni (in dollari come in euro) di transazioni
finanziarie giornaliere le quali, moltiplicando per miliardi i centesimi
guadagnati su ogni transazione con l’ausilio dell’ high frequency trading, capace di effettuare per via informatica decine di migliaia di operazioni al secondo,
recano sostanziosi profitti alle banche; gli esperti della confezione
di titoli strutturati, formati ciascuno da migliaia di ipoteche di
malcerta origine; i legali che hanno elaborato le vesti giuridiche dei
titoli e dei veicoli (società di scopo create dalle banche per far
portare fuori bilancio i crediti concessi e poterne cosi concedere
altri) che li hanno immessi in commercio. Mentre in ruoli indiretti
hanno operato stuoli di consiglieri economici dei capi di governo e dei
capi di Stato; gli economisti che hanno inventato, proposto agli enti
finanziari, insegnato nelle università e nelle scuole di amministrazione
aziendale le teorie del rischio, dei mercati del capitale, delle
funzioni del denaro ovvero della moneta meglio idonee a orientare le
azioni dei dirigenti finanziari o quantomeno a conferirvi parvenza
scientifica. A essi vanno aggiunti gli intellettuali che hanno elaborato
il corpus ideologico, formato in gran parte dalle dottrine neoliberali,
volto a dimostrare la superiorità non solo tecnica, ma persino morale,
dell’agire dell’Homo oeconomicus in tutti i settori della vita sociale.
A causa dei difetti strutturali del
sistema finanziario, connessi a quelli del sistema produttivo, a creare e
aggravare i quali il personale politico ed economico ha contribuito in
modo diretto e indiretto – nel secondo caso per la palese incapacità di
affrontare la situazione soprattutto in tema di occupazione –, la crisi
iniziata nel 2007 ha devastato l’esistenza di un’immensa quantità di
persone nei soli Paesi sviluppati. Quale che sia l’indicatore
considerato, coloro alla cui drammatica situazione esso rimanda si
contano sempre a milioni. A milioni hanno perso il lavoro e stentano a
ritrovarlo: su 36 Paesi sviluppati, a fine 2011 soltanto 6 facevano
registrare un tasso di occupazione uguale o più alto a quello del 2007.
In tutti gli altri risultava diminuito, e l’Organizzazione
internazionale del lavoro (Oil) stima che ben difficilmente esso tornerà
ai livelli pre-crisi prima della fine del 2016 e oltre – una previsione
che a fine 2013 appariva oramai troppo ottimistica. Sommando i
disoccupati che cercano attivamente lavoro a quelli che hanno smesso di
cercarlo dopo troppi tentativi andati a vuoto, si tratta di 50 milioni
di persone, divisi pressappoco a metà fra Stati Uniti e Unione europea.
Appartengono quasi tutte alla classe operaia e alle classi medie. L’Oil
ha stimato che nel 2012 il 40 per cento dei disoccupati fosse senza
lavoro da oltre un anno. Nella sola Ue a 27, Eurostat stimava che a
febbraio 2013 i disoccupati fossero oltre 26 milioni; nel 2000 erano
meno di 20. Alla stessa data, in Italia e Portogallo la disoccupazione
dei giovani (15-24 anni) sfiorava il 40 per cento, e in Spagna e Grecia
superava il 55.
Si aggiunga che il rovescio positivo del
tasso di disoccupazione, la quantità di occupazione che ancora rimane,
nasconde il peggioramento della qualità di quest’ultima. Infatti quasi
tutti i Paesi sviluppati hanno ridotto negli ultimi anni i dispositivi a
protezione del lavoro a tempo indeterminato, per cui molti, i giovani e
anche i meno giovani, hanno trovato lavoro solo accettando contratti di
breve durata e sottopagati, quelli che caratterizzano l’universo
dell’occupazione precaria. Da tempo, in Italia, l’8o per cento delle
nuove assunzioni avviene ogni anno con tali contratti.
L’elenco dei costi sociali della crisi
comprende ovviamente altre voci. I tassi di povertà sono aumentati quasi
ovunque. A fine decennio i poveri erano 50 milioni negli Stati Uniti
(un sesto della popolazione), e 6-7 milioni in Spagna, in Italia, nel
Regno Unito (5). Altri dati sono stati diffusi da Eurostat a fine 2012.
Nel 2011 si annoveravano, entro la Ue a 27, 120 milioni di persone, un
quarto della popolazione, a rischio di povertà o di esclusione sociale.
Eurostat contempla in tale categoria coloro che presentano almeno una di
queste condizioni: 1) il reddito disponibile dopo i trasferimenti
sociali li colloca sotto la soglia di povertà del loro Paese; 2) sono
affetti da severa deprivazione materiale; 3) sono individui tra zero e
59 anni facenti parte di famiglie con una bassissima intensità di
lavoro, quelle cioè in cui gli adulti hanno lavorato l’anno prima
erogando meno del 20 per cento del loro potenziale di lavoro
effettivo totale. Si tratta di 12 milioni di famiglie in cui c’erano uno
o più membri che potevano lavorare in media 40 ore la settimana a
testa, ma hanno lavorato appena 8 ore.
Occorre altresì sottolineare che, mentre
vi sono rilevanti differenze tra i Paesi quanto a rischio di povertà e
tasso di deprivazione materiale, la quota di persone facenti parte di
famiglie a bassissima intensità di lavoro varia solamente, con
l’eccezione di Cipro e Lussemburgo, tra il 7 per cento della Repubblica
Ceca e il 14 per cento del Belgio. Poiché coloro che lavorano oltre i
sessant’anni sono relativamente pochi, si può quindi stimare che il
numero di persone toccate in totale da una bassissima intensità di
lavoro si aggiri nel complesso, nella Ue, tra i 40 e i 45 milioni (6).
Ad accrescere il tasso di povertà contribuisce pure il numero dei
lavoratori poveri – coloro che hanno un lavoro più o meno regolare, ma
pagato talmente poco da far ricadere loro e i conviventi al di sotto
della soglia di povertà (7). Se si allarga il quadro al di là delle
condizioni di lavoro, si scopre che a causa della chiusura delle
fabbriche di cui vivevano, della disoccupazione e della precarietà che
ne è seguita, della caduta dei consumi, della scomparsa di artigiani e
commercianti, intere comunità sono state disastrate.
Negli Stati Uniti, in Spagna, nel Regno
Unito, in Irlanda almeno sei milioni di famiglie hanno perso la casa
perché non riuscivano più a pagare le rate del mutuo che erano state
indotte dalle banche a sottoscrivere benché non avessero le risorse
economiche necessarie. Altri milioni di famiglie hanno perso gran parte
dei loro risparmi, del valore del fondo pensione, o dell’assicurazione
sanitaria, a causa della caduta del corso dei titoli in cui erano stati
investiti, oppure del tracollo dell’impresa cui il fondo o
l’assicurazione facevano capo. In totale, fra Paesi sviluppati e Paesi
emergenti, si stima che il valore di immobili e di titoli che è
evaporato soltanto nei primi due o tre anni della crisi si aggiri su
50-60 trilioni di dollari – una cifra prossima al Pil del mondo. Una
parte di tali perdite ha coinvolto grandi patrimoni, che però dal 2009
in poi le hanno in genere rapidamente recuperate. Per contro, quelle che
riguardavano i risparmi di milioni di famiglie sono rimaste o si sono
aggravate.
Ove si ponga mente alla quantità e
tipologia delle vittime della crisi, raffrontandole con gli attori che
insieme con i loro aiutanti l’hanno provocata e legittimata, diversi
aspetti colpiscono. Il primo è che le vittime di oggi sono in gran parte
figli e nipoti di membri della classe operaia e della classe media che
furono colpiti, soprattutto negli Usa, dalla stagnazione dei salari
intervenuta sin dagli anni Settanta. Una condizione alla quale cercarono
di sottrarsi, con l’aiuto dei loro governi e delle istituzioni
economiche, accrescendo in misura spropositata i loro debiti – una delle
maggiori concause dirette della crisi. In altre parole, non solo la
crisi quando arriva suona sempre due volte, ma quando ritorna sta ben
attenta a suonare sempre alla stessa porta di prima.
In secondo luogo va rilevata la relativa
esiguità del numero degli attori e dei loro aiutanti rispetto al numero
enorme delle vittime. Gli attori che si possono considerare veri
protagonisti della crisi, nell’insieme dei Paesi sviluppati, sono poche
decine di migliaia; con gli aiutanti, gli attori di secondo piano e però
indispensabili per lo svolgimento del dramma, si arriva forse a qualche
centinaio di migliaia. Per contro le vittime assommano, come s’è visto,
a parecchie decine se non centinaia di milioni. Si potrebbe dire,
parafrasando (e rovesciando) il famoso detto di Churchill, che mai cosi
pochi hanno inflitto danni cosi gravi a un numero cosi grande di
persone.
È vero che si potrebbe accrescere la
stima del numero dei responsabili notando che i dirigenti economici
responsabili della crisi agivano, in realtà, non solo per conto proprio
ma pure per conto di milioni di proprietari di grandi patrimoni, una
intera classe sociale che ha affidato loro il compito di moltiplicare i
suoi capitali. Peraltro pare opportuno stabilire una distinzione tra chi
ha manovrato direttamente le leve della macchina che ha portato alla
crisi, e chi su tale macchina si è limitato a caricare i propri
capitali. Sono due livelli di responsabilità, correlati ma non
assimilabili se si vogliono analizzare le origini prossime della crisi.
Per questo motivo il testo che segue intende compiere un esame
soprattutto delle azioni compiute dal primo gruppo, gli attori della
finanza, senza ovviamente ignorare l’importanza del secondo gruppo, la
classe sociale più benestante del pianeta. Formata da circa 29 milioni
di adulti, lo 0,6 per cento della popolazione del mondo, che detiene
oltre il 39 per cento della ricchezza globale, quasi 88 trilioni (cioè
ottantottomila miliardi) di dollari. E la sola classe cui la crisi abbia
recato vantaggi cospicui.
Un terzo aspetto che colpisce è il fatto
che a sei anni dallo scoppio della crisi (agosto 2007), erano
pochissimi i responsabili economici e politici di essa che fossero stati
chiamati a rispondere dei danni che hanno concorso a provocare. È vero
che a seguito dei tracolli di grandi gruppi industriali susseguitisi tra
il 2000 e il 2003 – dalla Enron alla WorldCom alla Parmalat – un
periodo da considerare di fatto come il prologo della crisi attuale, è
stato riconosciuto colpevole e condannato a pene severe un certo numero
di dirigenti. Per contro, dal 2007 a oggi nemmeno un singolo
procedimento istruttorio o accusatorio paragonabile a quelli del periodo
anzidetto è stato avviato in America o in Europa. Con una sola
eccezione: nel 2011 il titolare di un fondo speculativo, Bernie Madoff,
si è visto infliggere da un tribunale federale statunitense
centocinquant’anni di carcere. Ma va subito rilevato che in questo caso,
come in quelli menzionati sopra, si trattava di autentici truffatori,
dirigenti e finanzieri che avevano falsificato all’ingrosso i bilanci e
ingannato in modo macroscopico gli investitori. Non a questi ci si vuole
qui riferire, bensì alle decine di migliaia di dirigenti e operatori i
quali hanno condotto l’economia al disastro globale che sappiamo,
sfruttando le leggi predisposte appositamente per loro dai politici. Al
riguardo il presidente Obama è stato chiaro. Ha detto infatti, sia pure
in una conversazione informale: «La condotta dei grandi gruppi
finanziari va considerata riprovevole sotto il profilo etico, ma dal
punto di vista legale non si può imputare loro nulla».
Il fatto è che, da un lato, le leggi che
hanno permesso di disastrare l’economia sono state concepite e fatte
approvare dai governanti in carica a quel momento, spesso in accordo
preventivo con i dirigenti del mondo finanziario e industriale;
dall’altro, l’espansione forsennata e rapidissima della finanza dagli
anni Ottanta in poi ha aperto nuovi territori che per il diritto penale,
secondo i giuristi che da qualche tempo hanno iniziato a occuparsene,
sono tuttora terra incognita. Il risultato è quello che si diceva: i
dirigenti di gruppi finanziari nei cui bilanci si sono aperte voragini a
causa delle loro manovre sono giunti a esprimere al più un tot di
dispiacere – per la verità lo hanno fatto solo in qualche caso – in
merito ai danni arrecati a risparmiatori e contribuenti. Al massimo è
avvenuto che le loro società abbiano sborsato ciascuna centinaia di
milioni alla Fed o alla Banca d’Inghilterra al fine di evitare che una
causa civile – avviata, ad esempio, da risparmiatori danneggiati dai
cosiddetti titoli tossici – si trasformasse in una causa penale. Però di
tasca loro, in genere, i massimi dirigenti non ci hanno rimesso un
dollaro o un euro. Persino nei casi in cui sono stati forzati alle
dimissioni, se ne sono andati recando intatti con sé i loro compensi e
risparmi miliardari. In sintesi, nessun responsabile della crisi è stato
riconosciuto come tale, né sottoposto a una qualsiasi sanzione che non
fossero le critiche di una quota marginale dei media. Dal 2010 in poi, è
intervenuto nei Paesi dell’Unione europea un altro paradosso: i milioni
di vittime della crisi si sono visti richiedere perentoriamente dai
loro governi di pagare i danni che essa ha provocato, dai quali proprio
loro sono stati colpiti su larga scala. Il paradosso è una catena che
comprende diversi anelli. I principali sono cosi formati e disposti:
- Le maggiori banche europee, in stretto rapporto con quelle americane, hanno accumulato debiti colossali prima e durante la crisi, in specie per via della finanza ombra e del denaro che esse medesime hanno privatamente creato dal nulla o ampiamente utilizzato allo scopo di continuare a concedere montagne di crediti senza avere in bilancio i relativi fondi. In diversi Paesi Ue il totale di codesti debiti privati è pari o addirittura grandemente superiore al rispettivo debito pubblico.
- I bilanci pubblici, compreso in parte quello della Bce, hanno sofferto prima di un forte calo delle entrate a causa dei vantaggi fiscali concessi dai governi ai contribuenti più ricchi e alle imprese nell’ultimo decennio del secolo scorso e nel primo decennio del nuovo; poi, dopo il 2007 e dal lato delle uscite, sono stati prosciugati a causa delle somme spese o impegnate anzitutto per salvare le banche (oltre 4 trilioni di euro a livello Ue nel periodo 2008-11, di cui almeno 2 realmente utilizzati), nonché a causa dell’accresciuto volume dei sussidi di disoccupazione e similari, dovuto principalmente agli effetti della crisi.
- Le banche hanno convinto i governi e i politici che li sostengono che se anche solo alcune di esse avessero dovuto fallire, e neppure delle maggiori, ne sarebbe seguito un disastro per l’intera economia e società europee.
- In vista del suddetto pericolo, accresciuto dal fatto che dopo le spese e gli stanziamenti a loro garanzia nei bilanci statali non esistono più risorse sufficienti per salvare una seconda volta le banche, la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario internazionale hanno dato manforte ai governi nel diffondere una rappresentazione della crisi dei bilanci pubblici come se fosse dovuta all’eccessiva generosità dello stato sociale nei decenni precedenti.
- In presenza dei vuoti scavati nei bilanci, i governi hanno pertanto deciso di avviare una severa politica di austerità volta a ridurre soprattutto le spese, a cominciare dalla voce principale formata dai capitoli pensioni-sanità-istruzione, che sono i pilastri del cosiddetto modello sociale europeo.
- Le politiche di austerità si sono concretizzate sia in riforme nazionali, sul genere della riforma delle pensioni introdotta in Italia dal governo Monti nel giro di pochi giorni nell’autunno 2011, sia in severi diktat forgiati a Bruxelles. Tra questi spiccano vari documenti su cui si ritornerà (al cap. vii): il Memorandum di intesa imposto alla Grecia; il precitato «patto fiscale» (per la precisione «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance») firmato dai capi di governo Ue nel marzo 2012 e approvato a larga maggioranza dal Parlamento italiano, senza minimamente discuterne la micidiale portata, il 20 luglio dello stesso anno; infine l’istituzione del Meccanismo europeo di stabilità.
- In appena tre anni, 2010-12, le politiche di austerità, congegnate e presentate come se fossero sicuri antidoti alla crisi, in realtà l’hanno aggravata e prolungata. La stagnazione dell’economia si è trasformata in una severa recessione. Il caso italiano è indicativo al riguardo, ma lo stesso si constata in altri Paesi europei e financo in Germania.
- Come conseguenza dell’aggravamento della crisi, il numero delle vittime di questa, in specie quello dei senza lavoro e delle legioni di precari, è ulteriormente cresciuto.
- Nessuno potrebbe seriamente credere nel 2013, a sei anni di distanza dal suo inizio, che una fine reale e definitiva della crisi sia prossima.
Se ci si chiede come una simile
paradossale concatenazione di decisioni e di eventi sia stata possibile,
vien fatto di pensare sulle prime a una colossale serie di errori
commessa dai governi Ue. In effetti bisogna essere piuttosto ottusi in
tema di politiche economiche per credere di poter rimediare alla crisi
ponendo in essere, nel pieno corso di questa, robusti interventi dagli
effetti recessivi affatto certi. Ciò nonostante, sebbene l’ottusità
economica di parecchi governanti Ue sia fuor di dubbio, sarebbe far
torto ai loro stuoli di consiglieri e funzionari supporre che non siano
riusciti a far comprendere a ministri e presidenti del Consiglio e capi
di Stato che l’austerità, nella situazione data, era una ricetta suicida
dal punto di vista economico, se non anche da quello politico.
In realtà i governanti europei sapevano e
sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando
recessioni di lunga durata. Ma il compito che è stato affidato loro
dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è
certo quello di risanare l’economia. E piuttosto quello di proseguire
con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del
potere politico dal basso verso l’alto in corso da oltre trent’anni.
Essa è stata messa in pericolo dal fallimento delle politiche economiche
fondate sull’espansione senza limiti del debito e della creazione di
denaro privato a opera delle banche, diventato palese con l’esplosione
della crisi finanziaria nel 2007. I cittadini della Ue, al pari di
quelli Usa, hanno già sopportato pesanti oneri prima per il processo di
espropriazione cui sono stati sottoposti, in seguito per le conseguenze
dirette della crisi. I loro governi debbono aver pensato che
difficilmente avrebbero sopportato senza opposizione alcuna altri costi
sociali e personali, sotto forma di smantellamento dei sistemi di
protezione sociale e di peggioramento delle condizioni di lavoro di cui
hanno goduto per almeno due generazioni. Però questo è l’ultimo
territorio da conquistare per poter proseguire nel drenaggio delle
risorse dal basso in alto. Esso è formato dalle migliaia di miliardi
spesi ogni anno per i suddetti sistemi – gran parte dei quali, a
cominciare dalle pensioni, rappresenta salario differito, non
elargizioni da parte dello Stato.
I governi Ue hanno quindi posto in
opera, al fine di ottenere che la classe da essi rappresentata possa
proseguire senza troppi ostacoli la distribuzione dal basso in alto, due
strategie che si sono rivelate negli anni post-2010 assai efficaci. La
prima è consistita, come ricordato sopra, nel camuffare la crisi come se
questa volta non avesse origini nel sistema bancario, bensì fosse
dovuta al debito eccessivo degli Stati, provocato a loro dire
dall’eccessiva spesa sociale. In secondo luogo, nella previsione che
tale schema interpretativo non fosse sufficiente per tenere mogi i
cittadini, hanno imboccato la strada dell’autoritarismo emergenziale.
Cosi come in caso di guerra non si tengono elezioni per stabilire chi e
come debba razionare i viveri, di fronte all’emergenza denominata
«debito eccessivo dei bilanci pubblici» le misure da intraprendere per
sopravvivere sono concepite da ristretti organi centrali: a partire dal
Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di governo degli Stati
membri. Ai suoi lavori collaborano la Commissione europea (il cui
presidente fa parte del Consiglio) e la Bce. Inoltre godono dell’apporto
esterno del Fondo monetario internazionale (Fmi). Le misure da prendere
sono poi messe a punto dalla Troika costituita da Commissione, Bce e
Fmi e inviate ai rispettivi Parlamenti per l’approvazione. Cosi è
avvenuto per molti documenti: il memorandum inviato alla Grecia; il
pacchetto di misure – mirate espressamente a smantellare lo stato
sociale – chiamato Euro Plus; il cosiddetto «patto fiscale» ovvero
Trattato sulla stabilità ecc.; la creazione del Meccanismo europeo di
stabilità. Essendo l’approvazione «chiesta dall’Europa», i Parlamenti
obbediscono, come è costretto a fare un organo politico in situazione di
emergenza. Sono i governi a comandare.
Mediante codesto processo che è guidato a
livello Ue da poche dozzine di persone, la democrazia nell’Unione
appare in corso di rapido svuotamento. Persino il Trattato della Ue, nel
quale il concreto esercizio della democrazia riceve assai meno
attenzione del libero mercato e della concorrenza, appare aggirato sotto
il profilo legale e costituzionale dai dispositivi autoritari messi in
atto di recente dai governi e dalla Troika. Alle centinaia di milioni di
cittadini della Ue, ciò che quel ristretto gruppo decide è presentato
come alternativlos, cioè privo di qualsiasi alternativa:
pena, minacciano i governi, il crollo dell’euro, dei bilanci sovrani,
dell’intera economia europea. Posti dinanzi a simili minacce, che i
media ripropongono ogni giorno a tamburo battente, i cittadini degli
Stati cardine della Ue hanno finora subito si può dire a capo chino gli
interventi dell’autoritarismo emergenziale dei loro governi e della
Troika di Bruxelles, sebbene esso stia assumendo sempre più il profilo
di un colpo di Stato a rate (ne tratta ampiamente il cap. vii).
Quando si espongono le considerazioni di
cui sopra si arriva sempre alla domanda sul che fare. E inutile
nascondersi che per coloro i quali pensano che potrebbe esistere un
altro mondo al di là del totalitarismo neoliberale, la situazione è
pressoché disperata. Il fatto è che codesta ideologia ha stravinto, a
cominciare dall’ambito della cultura, delle idee, dell’informazione.
Istruttivo a questo proposito è il caso del Powell Memorandum. Lewis F.
Powell, un avvocato poi giudice della Corte suprema americana, nel 1971
inviò un memorandum confidenziale al presidente del Comitato Educazione
della Camera di commercio Usa per contrastare quello che definiva
l’attacco al sistema della libera impresa. Oggi sarebbe deliziato nel
vedere come le sue proposte siano state applicate con successo, oltre
che negli Usa, in tutta la Ue.
Il Powell Memorandum, reso pubblico
soltanto vari anni dopo, proponeva anzitutto di intervenire sulle
università, in specie sulle facoltà di scienze sociali, dato che
scienziati, politici, economisti, sociologi e molti storici erano
orientati nell’insieme in senso liberal, «anche là dove non siano
presenti dei sinistrorsi» . Da esse si doveva pretendere un
tempo uguale per i conferenzieri; i libri di testo dovevano essere
assoggettati a revisione e critica da parte di eminenti studiosi che
«credono nel sistema»; lo squilibrio esistente fra dimensioni e peso
delle facoltà doveva essere corretto. Indicazioni analoghe forniva il
memorandum per quanto riguarda la televisione, la radio, la stampa, le
riviste scientifiche, la pubblicità. Il testo proponeva persino di
intervenire sulle edicole, perché queste esponevano ogni sorta di libri e
riviste «inneggianti a tutto, dalla rivoluzione al libero amore, mentre
non si trova quasi nessun libro o rivista attraente e ben scritto che
stia “dalla nostra parte”» (9).
Nel volgere di alcuni decenni le
dettagliate proposte del Powell Memorandum sono state messe in pratica
negli Usa e in Europa, facendo registrare uno straordinario successo. I
pensatoi o think tanks neoliberali sono passati da poche decine ad alcune centinaia. Le modeste somme in dollari o euro investite in campagne di lobbying
per ottenere dai Parlamenti leggi favorevoli al mercato, alla libera
impresa, alla privatizzazione di tutti i beni comuni sono diventati
miliardi l’anno. Nella stessa misura sono aumentati i contributi versati
ai candidati idonei al momento delle elezioni. Nelle università
americane ed europee si sono salvate le facoltà di economia, previa una
colonizzazione pressoché totale da parte dei «ragazzi di Chicago», gli
ultraliberali discendenti di Milton Friedman. Invece tutte le facoltà di
scienze sociali, e più in generale di scienze umane, sono state ridotte
ai margini. Lo mostrano le classifiche concepite per selezionare quelle
che dovrebbero essere le migliori università del mondo. L’eccellenza
nei suddetti campi, quale possono vantare, per dire, la Sorbona o la
Normale di Pisa, garantiscono in tali classifiche una posizione
collocantesi fra il centesimo e il trecentesimo posto (10).
Quanto alla Tv e a ciò che espongono le
edicole, il predominio dell’informazione neoliberale non potrebbe essere
più evidente. La fabbrica dell’egemonia, gramscianamente parlando, del
consenso che non ha bisogno (quasi mai) di ricorrere alla violenza, gira
a pieno regime. Senza di essa il colpo effettuato da banche e Stati
europei contro lo stato sociale e il lavoro non sarebbe stato possibile.
Anche se in una prospettiva propriamente politica a un certo punto si
dovrà pur arrivare a riforme profonde del sistema finanziario, del
Trattato Ue, delle politiche economiche, appoggiate da adeguate forze
elettorali, è forse dallo smontaggio di tale fabbrica che bisognerebbe
cominciare.
(1) Su codesta illogica ( Unlogik ) cfr. H.R. Haeseler e F. Hörmnan , Banken (überwachung) am Pranger. Inkompetenz, Betrug oder Systemische Krise?, in «Jahrbuch für Controlling und Rechnungswesen», 2010, n. 29, pp. 6 sgg.
(2) Cfr. L. Gallino, Complesso militare-industriale, in Dizionario di Sociologia, Utet Libreria, Torino 20043.
(3) Su teoria e pratica di fenomeni del genere rinvio a Id., L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005.
(4) Per definizioni e approfondimenti vedi L. Gallino, Con i soldi degli altri. Il ca pitalismo per procura contro l’economia, Einaudi, Torino 2009.
(5) Economic Policy Institute, «Issue Brief», 24 luglio 2012, n. 339, p. 3.
(6) Eurostat, In 2011, 24 per cent of the population were at risk of poverty or social exclusion, in «newsrelease», n. 171, 3 dicembre 2012, passim.
(7) E considerato soglia della povertà
relativa un reddito personale netto pari o inferiore al 60 per cento del
reddito mediano pro capite.
(8) L. F. Powell, Confidential Memorandum. Attack on American Free Enterprise System,
inviato il 23 agosto 1971 a E. B. Sydnor jr, Chairman of Education
Committee, US Chamber of Commerce, p. 8. Cito dalla riproduzione
autentica del testo dattilografato ricostruito da Thwink.org ( www.thwink.org/
sustain/articles/017_PowellMemo/index.htm). Il numero delle pagine è
stato ridotto da 37 a 20, pur mantenendo intatti testo e note
dell’originale.
(9) Ibid., p. 14.
(10) Si veda la classifica, molto apprezzata dagli esperti, diffusa nell’estate 2012 dall’Università di Shanghai.
© 2013 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Il testo pubblicato costituisce l’introduzione al libro di Luciano Gallino, “Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa” (2013, Einaudi, pp. 352, 19,00 euro)
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