Va di
moda, oggi, esaltare - o demonizzare - Keynes dipingendolo come una via di
mezzo tra un filantropo e un criptosocialista o, al contrario, come un
visionario spendaccione, ma la caricatura mal si sposa con la verità storica:
John Maynard K., nato mentre Marx moriva, fu per tutta la vita un ricco
gentiluomo inglese, dai gusti raffinati, che le rivoluzioni preferiva evitarle
e dell’autore de Il Capitale non aveva particolare stima.
Prima
di essere un liberale borghese, tuttavia, Keynes era uno scienziato, che studiava il mondo dell’economia per quello che era,
non per quello che gli sarebbe piaciuto fosse: per motivi nient’affatto
ideologici, bensì prettamente scientifici, egli si oppose alla pace punitiva di
Versailles, e furono sempre lo studio dei fatti, il pragmatismo a guidarlo
quando, dopo il rovinoso incendio del ’29, si accinse a riscrivere le leggi
della macroeconomia. Fino ad allora si credeva (e negli ultimi decenni si è ripreso
a credere) ad un certo Say, a detta del quale l’offerta complessiva di prodotti
determina la domanda: in pratica il pubblico compra ciò che trova al mercato,
ed eventuali squilibri sono immediatamente compensati dalla variazione dei
prezzi, flessibili (e dunque adattabili) per definizione. Una mano invisibile,
intravista da Adam Smith dopo qualche pinta al pub, rimette sempre le cose a posto.
Purtroppo,
contrariamente alle previsioni della maggior parte degli economisti e del
Presidente Hoover, la crisi del ’29 non si risolse in pochi mesi: al contrario,
parve cronicizzarsi, e la sua gravità fu acuita dai provvedimenti “ortodossi”
dei vari governi – vale a dire da politiche restrittive nel campo della spesa
pubblica (che diminuì, dopo l’effimera espansione degli anni d’oro americani) e
della tassazione (che fu inasprita). Intendiamoci: la portata della depressione
era senza precedenti, e trovare un vaccino che non fosse “infettato” da germi
marxiani risultò impresa davvero ardua. Adolf Berle, consigliere economico di
Roosevelt, accarezzò persino l’idea di americanizzare il modello sovietico, per
poi giungere – indipendentemente da Keynes – alla teorizzazione dell’intervento
statale in economia; fu lo studioso inglese, tuttavia, a descrivere compiutamente
le cause della crisi e ad individuare una via d’uscita percorribile non solo
nell’immediato.
Keynes
osservò che, per la presenza dei sindacati e la loro capacità di mobilitazione,
i salari operai non sono comprimibili all’infinito: sono cioè relativamente
rigidi, o “vischiosi”, al pari dei prezzi. Inoltre, la piena occupazione non è
un a priori, bensì un obiettivo da raggiungere – e per raggiungerlo, pervenendo
in tal modo ad un soddisfacente equilibrio di sistema, è necessario incentivare
la domanda di beni e servizi. Forse sul lungo periodo ha ragione Say –
argomentava Keynes – ma nei tempi brevi, che sono quelli della vita umana, è la
domanda a determinare l’offerta, e dunque il reddito nazionale, non viceversa.
Come agire, dunque? Il reddito di un Paese è composto, perlomeno, dalla domanda
di beni/servizi di consumo formulata dalle famiglie e dalla domanda di
investimenti da parte delle imprese; a queste voci possono aggiungersi la spesa
pubblica e l’eventuale surplus di esportazioni sulle importazioni. Il consumo è
influenzato dal reddito familiare, mentre la richiesta di investimenti dipende
dal tasso di interesse (più questo è basso, maggiore è la propensione ad
investire) e dalle aspettative future. I tempi duri partoriscono aspettative
pessime: l’imprenditore tipo riduce quindi il proprio attivismo, sconfortato
anche dall’atteggiamento delle famiglie che, se hanno qualche soldo in tasca,
preferiscono risparmiarlo. L’impasse è superabile solo con l’intervento
statale: utile o meno che sia (e le dighe rooseveltiane erano utili!), un’opera
pubblica finanziata a debito
dall’erario – perché mancano altre risorse - produce lavoro che prima non
c’era. L’ingente spesa iniziale dà frutti che compensano abbondantemente
l’inevitabile peggioramento dei conti pubblici: rincuorato, il lavoratore
ricomincia a recarsi al negozio e, visto che la propensione al consumo dei
poveri è superiore a quella dei benestanti, il denaro fresco immesso nel
circuito economico invoglia il datore di lavoro ad aumentare la produzione e,
per l’effetto, ad assumere nuova manodopera. Tramite il meccanismo del
moltiplicatore – descritto, con tanto di formule, in ogni bignami di economia
politica – un ridotto investimento statale inaugura un circolo virtuoso (spesa
pubblica->consumo->investimento->consumo…) che si autoalimenta e
conduce ad un rinnovato equilibrio in regime di piena occupazione; un
successivo aumento dell’imposizione fiscale intralcerà la crescita senza
tuttavia riuscire a bloccarla (teorema di Haavelmo).
Attenzione:
lo Stato protagonista teorizzato da Keynes non è un benefattore, non regala
nulla. Finanza congiunturale significa favorire con gli opportuni strumenti il
rilancio in epoca di recessione; poi, quando il processo è avviato, il pubblico
si ritira in buon ordine e – onde scongiurare eccessi nella crescita – adotta
semmai politiche restrittive. L’impennata del reddito genera, difatti, fenomeni
inflattivi: la piena occupazione e l’abbondanza di denaro causano un incremento
della domanda di beni che le imprese, impossibilitate ad impiegare personale
ulteriore e, di conseguenza, a produrre di più, non riescono a soddisfare. I
manufatti si rarefanno (rispetto alla richiesta) e, conseguentemente, il loro
prezzo cresce: ecco la genesi dell’inflazione da domanda. Piena occupazione e
inflazione ci appaiono nelle vesti di due gemelli siamesi: la seconda è
l’onesto prezzo da pagare per ottenere la prima. La previsione di
stabilizzatori automatici (tasse progressive sul reddito, sussidi che
soccorrono in situazioni difficili) impedisce al sistema di oscillare troppo
pericolosamente.
Tradotto
in pratica, il keynesismo ha dato buona prova di sé, consentendo – complice il
conflitto mondiale - la ripresa americana e, dopo la morte del padre della
teoria (1946), la ricostruzione della devastata economia europea. L’ombra di
Keynes ispira le politiche del dopoguerra, che sposano l’interventismo statale
degli anni ’50-’60 con l’estensione di diritti e tutele: oltre ad approdare a
un relativo benessere, operai ed impiegati (il vecchio proletariato) diventano
membri a tutti gli effetti della società borghese. Una rivincita di Bernstein
su Lenin (e Karl Marx)? In effetti, il superamento delle disparità di classe
sembra a molti un obiettivo perseguibile attraverso progressive riforme di
struttura; nel frattempo, la curva di Phillips (1958) – basata su dati
statistici che fotografano cent’anni di sviluppo dell’economia inglese –
conferma l’asserto keynesiano sull’esistenza di un rapporto inverso tra tasso
di disoccupazione e tasso di inflazione.
Dopo
aver funzionato alla perfezione per oltre un trentennio, il modello entra in
crisi all’inizio degli anni ’70 e, più precisamente, nel 1973. Mentre è in
corso la guerra dello Yom Kippur gli stati arabi produttori di petrolio
tagliano le forniture all’Occidente filoisraeliano: è di nuovo crisi economica,
una crisi che si manifesta con il volto inedito della “stagflazione”. Malgrado
le difficoltà occupazionali l’inflazione prende il volo, e un gruppo di
economisti di estrema destra (che faranno pratica nel Cile insanguinato di
Pinochet) approfitta dell’occasione per demolire non tanto Phillips, quanto il
suo mentore. I fini non sono polemici, sono politici:
pensionare Keynes è il primo passo verso l’abbattimento di quello stato sociale
che, agli occhi delle elite, costituisce uno scivolamento nell’aborrito
socialismo. I keynesiani hanno preso un abbaglio: a medio-lungo termine
l’inflazione è sterile, va perciò combattuta con ogni mezzo (e pazienza se
quella del ’73 non è inflazione da domanda: sempre inflazione è, tagliano corto
i Friedman). Se l’inflazione è il diavolo, le banche centrali (allora
controllate dai governi) debbono astenersi dall’ampliare l’offerta di moneta –
anzi: l’autorità pubblica rinunci ad ogni decisione, dal momento che (ci
racconta Lucas) le scelte governative saranno invariabilmente previste e
rintuzzate da operatori economici che, nella vulgata neoliberista, appaiono
onniscienti. Altro che quei trafficoni dei politici che – secondo i cultori
della Public choice (Buchanan, altro Nobel di età reaganiana) – pensano solo a
garantirsi la rielezione, e mai al presunto bene comune! Come spiegare, alla
luce di tanta lungimirante saggezza imprenditoriale, le crisi ricorrenti (e
quella attuale)? Indiferente, ci
rispondono, come il Bortolo delle Maldobrie: per evitare problemi non c’è che
da lasciar fare al mercato, azzerare le tutele e la spesa sociale (non quella
pubblica tout court: le guerre s’hanno da fare, l’apparato repressivo va
mantenuto ecc.), tagliare le tasse ai ricchi e aumentare la produttività. In
concreto: lavorare di più per meno soldi, senza protezione e senza garanzie.
Quanto all’inconveniente rappresentato dalla rigidità dei salari, ad esso si
può ovviare distruggendo il sindacato (Thatcher docet) e spazzando via la
contrattazione collettiva nazionale.
La
ricetta è datata, l’apparato teorico pure: i neoliberisti ripescano la legge di
Say, non perché sia corretta, ma
semplicemente perché fa al caso loro. Se il reddito nazionale è determinato
dalle imprese non v’è necessità di stimolare la domanda venendo incontro alle
esigenze dei lavoratori: a questi ultimi va riconosciuto il “diritto” alla
sussistenza (mangiare l’indispensabile, pagarsi una polizza basic, dormire e mettere al mondo altri
schiavi), nulla più. Nota bene: il pragmatismo di Keynes - propugnatore di un
capitalismo ragionevole, più che
compassionevole – era parso contraddire la “profezia” marxiana sull’evoluzione
capitalistica, ma i neo-neoclassici chiariscono che, per loro, lo stato sociale
ha rappresentato una parentesi, un incidente di percorso, una deviazione dalla
retta via. Insomma, testimoniano involontariamente la correttezza dell’analisi
e delle conclusioni del filosofo di Treviri.
Portatori
di una visione ideologica e classista della società, questi finti economisti
mettono la loro alchimia al servizio delle multinazionali, dei governi più
reazionari, delle elite assetate di rivincita. Ovunque vadano ricorrono a
trucchi da ciarlatani (la curva di Laffer cerca di dimostrare l’indimostrabile,
cioè che il superamento, da parte della pressione fiscale, della soglia
bassissima desiderata dai ricchi provoca un calo del gettito…) e cagionano
danni: l’America della reaganomics
accumula, in pochi anni, un debito pubblico ingentissimo, la Gran Bretagna
della signora Thatcher cresce poco, pur affamando le classi lavoratrici.
In
realtà, però, non falliscono, non hanno mai fallito: loro scopo era attuare una
redistribuzione della ricchezza a favore dei ceti dominanti, dei grandi poteri
economici, e il fine è stato pienamente raggiunto, fustigando – a seconda delle
convenienze del momento - ora il debito pubblico, ora la scarsa produttività
individuale, ora la spesa pensionistica. Gli eredi di Friedman hanno mille
frecce ideologiche al loro arco: togliere loro euro e spread equivale a mozzare
due zampe a un millepiedi.
Se volessimo
giudicarli come scienziati economici, dovremmo concludere che finora non ne
hanno imbroccata una, che le loro “cure” aggravano le malattie che pretendono
di curare; se invece li consideriamo per quello che effettivamente sono,
mercenari del Capitali sparsi ovunque (dal FMI ai vertici della Commissione
Europea, dalle banche d’affari alle società di rating, dai giornali a grande
diffusione ai palazzi governativi, dai talk show ai partiti del FARE), tocca
riconoscere in loro degli efficientissimi professionisti.
Non è
scienza, quella dei monetaristi: è stregoneria. Occorre spezzare questo
maledetto incantesimo, prima che l’intera Europa finisca al rogo a causa (e in
vece) loro.
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