50 anni fa, il 9 ottobre 1964 moriva Raniero Panzieri, uno dei più originali intellettuali e dirigenti del movimento operaio italiano. Lo ricordiamo proponendovi la lettura di un saggio-testimonianza di Pino Ferraris tratto dal libro “Raniero Panzieri: un uomo di frontiera” curato da Paolo Ferrero e pubblicato dalle Edizioni “Il punto rosso” (Milano 2005). Segnaliamo la pagina facebook curata dal compagno Maurizio Acerbo dedicata a Raniero Panzieri: https://www.facebook.com/pages/Raniero-Panzieri/29473931798
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“In memoria di Clemente Ciocchetti, compagno insostituibile per l’intelligenza della condizione operaia e per costruire associazione tra i lavoratori”
L’attività di Raniero Panzieri che si colloca a cavallo tra gli anni 50 e gli anni 60, prima come direttore di “ Mondo operaio” e poi come promotore dei “Quaderni rossi”, coincide con il mio apprendistato nella politica.Ho sempre avuto una certa riluttanza al discorso troppo soggettivo e d’altra parte non avevo il necessario distacco per parlare di quegli anni.
Perché ricordare e raccontare ora ?
Se vado con la memoria dal presente a quel passato mi pare di oscillare tra due mondi incomunicabili: dalla centralità operaia alla proclamata fine del lavoro, dalle speranze di rinnovamento dei sistemi di socialismo reale al crollo del comunismo, dalla pesantezza burocratica di quei partiti di massa che pretendevano di inquadrare la società a questa politica volatile e spettacolare che sorvola la società….
Panzieri citava spesso il saggio di Morandi del 1937 su Otto Bauer.
In esso si parlava della necessità di uscire dalla “antitesi morta” di comunismo e socialdemocrazia (ambedue malati di “statalismo”) per affermare un “socialismo schiettamente libertario ( senza punto impaurirsi –aggiungeva Morandi – della baldanza anarchica di questa qualifica!)”.
La vecchia antitesi è veramente morta ma la nuova congiunzione tra l’istanza socialista e il radicalismo della libertà non è ancora nata.
Il ritrovamento di questo nesso era il filo rosso della ricerca di Panzieri che lo rese “inattuale” quaranta anni fa ma che rende suggestivo e utile il suo messaggio oggi.
Rivedendo la biografia di Panzieri mi ha colpito la coincidenza della sua ascesa nel partito socialista (membro del comitato centrale e della direzione) nel 1951 con il congresso di Bologna del PSI: il più cupo congresso stalinista del socialismo italiano, quello della liquidazione di Lelio Basso con la regìa di Nenni e di Morandi.
Panzieri visse in modo tormentato il dramma degli anni della guerra fredda, di un legame unitario di classe pagato al prezzo della mortificazione dello spirito critico e delle esigenze di libertà del socialismo.
Su quella scelta ritornerà con dubbi e autocritiche permanenti. Ritornerà ancora, poco prima di morire, nella lettera a Luciano della Mea del 20 agosto 1964.
Ma proprio la sua appartenenza alla generazione dei “dieci inverni” valorizza enormemente la tempestività e la radicalità con cui Panzieri irrompe, nel 1956, dentro il varco della crisi dello stalinismo cercando una via di uscita insieme classista e libertaria. Rompe schemi mentali, dogmi consacrati e concezioni gerarchiche.
Fu un personaggio scomodo.
La sua figura è rimasta avviluppata e in parte deformata da crudeli polemiche e interessate mitizzazioni. Il destino postumo di Raniero è stato paradossale.
La lunga militanza, gli importanti ruoli dirigenti all’interno del Partito socialista e di organizzazioni di massa si sono protratti sino a pochi anni prima della sua improvvisa morte nell’ottobre del 1964 lungo un percorso politico che era incominciato nel 1946.
La sinistra ufficiale lo ha emarginato in vita. Poi ha oscurato la memoria di questo suo figlio inquieto e indocile. Era il pungolo di tante cattive coscienze.
A partire dalla metà degli anni 60 c’è stata invece una sorta di disputa patrimoniale sull’eredità di Panzieri da parte delle giovani dissidenze della sinistra. Sembrava che Raniero fosse nato alla politica nel 1960. Venne considerato il “Battista” di sinistre nuove che si affrettavano a riprodurre vizi antichi che egli inutilmente aveva cercato di tagliare e di sradicare.
Le nostre testimonianze di “vecchi compagni” rischiano di riprodurre statiche e inutili polemiche di altri tempi.
Credo che solo il lavoro storiografico di giovani studiosi filologicamente rigorosi e psicologicamente liberi dal nostro coinvolgimento potrebbero restituire a tutto tondo la figura del dirigente che si colloca accanto ai leader storici del socialismo di sinistra: Rodolfo Morandi, Lelio Basso, Emilio Lussu, Riccardo Lombardi.
Come fare? E’ inutile recitare di essere ciò che non siamo, è meglio dichiarare apertamente la parzialità, la tendenziosità delle testimonianze.
Stefano Merli è l’unico storico di professione che ha lavorato a lungo e in modo meritorio su Panzieri.
Egli ha curato la pubblicazione dei suoi scritti a partire dal 1944, ha raccolto le preziosissime lettere, ha tracciato una sobria e precisa biografia, nelle introduzioni ai quattro volumi delle opere di Raniero ha proposto interpretazioni del suo itinerario culturale e politico.
Non credo che significhi svalutare il lavoro di Stefano Merli segnalando alcuni limiti del suo impegno volto a ricostruire la figura di Raniero Panzieri.
Nel suo sforzo teso a restituirci il Panzieri dimenticato della giovinezza e degli anni ’50 egli giunge a sottovalutare l’ iniziativa politica e la produzione intellettuale degli anni ’60.
Il volume su Gli anni dei “Quaderni rossi” è decisamente il più debole di quelli curati da Merli. Perseguendo il suo obbiettivo volto a ricollocare l’esperienza di Panzieri all’interno del filone “storico” del socialismo di sinistra, Merli finisce con lo sminuire i dissensi e le rotture con gli uomini e le politiche del socialismo italiano. Con sguardo più lungo del nostro Raniero vedeva l’esaurimento di quella che era pur stata la viva e originale esperienza del PSI. Polemizzava apertamente con la “destra” di Nenni, ma scorgeva tutti i lati deboli e le subalternità dei gruppi dirigenti della sinistra socialista.
Questi due limiti della ricerca di Merli lasciano lacune e gettano alcune ombre sui tormentati ultimi anni della vita di Panzieri.
Nella conclusione dell’ impegnativo saggio introduttivo alle Lettere, Stefano Merli utilizza acriticamente una fantasiosa testimonianza di Lucio Libertini e ci restituisce l’immagine di un Panzieri “stanco” che si appresterebbe a rientrare nell’alveo della politica tradizionale, a confluire nel PSIUP.
Non si tratta di una questione di dettaglio.
Questa ipotesi colpisce la coerente resistenza di Panzieri su una linea di frontiera che non volle abbandonare.
Essa rischia di deformare anche il senso della frattura allora operata nei confronti di Mario Tronti e di quei compagni che andavano verso l’avventura di “Classe operaia”.
La rottura del 1963 non veniva realizzata con uno spirito di ripiegamento, per tornare al riparo dell’ufficialità politica, ma per continuare ad andare avanti lungo la propria strada “anche se questa può apparire la via dell’isolamento”.
Sul rapporto di Panzieri con il Psiup negli ultimi mesi della sua vita voglio portare una testimonianza diretta.
Nel luglio del 1964 a Torino ci fu un incontro tra Panzieri, Filippa, Libertini e me.
Discutemmo di problemi di partito, di “Mondo Nuovo” e di un mio eventuale trasferimento da Biella a Torino. Quando fummo soli chiesi a Raniero:” Se vengo a Torino posso contare su di te?”. Egli mi rispose con la sua garbata ironia:”Se vieni a Torino puoi anche chiedere che mi interessi di enti locali, ciò che non mi si può chiedere è che io prenda la tessera del Psiup. Un partito con questo gruppo dirigente non ha futuro.”
I due anni che vanno dalla seconda metà del 1962 alla morte furono di grande sofferenza sul piano esistenziale e molto travagliati sul piano politico.
Non ho mai considerato Panzieri come un astratto intellettuale ma come un dirigente politico di lungo corso.
Per questo rimane ancora un enigma l’errore da lui commesso il 7 luglio del 1962 in occasione del grande sciopero alla Fiat che incrinava il regime di Valletta.
In quella occasione la trasformazione dei “Quaderni rossi” in un soggetto politico che interveniva in modo diretto nell’immediatezza di una difficile lotta operaia in corso, con una dura e sommaria critica della politica sindacale, era in contraddizione con la “ragione sociale” originaria della rivista.
Il prezzo della rottura con la Fiom, con la CGIL, con la corrente sindacale socialista fu molto alto.
Immediatamente seguì l’infame aggressione portata avanti dalla Cisl torinese e ripresa dalla stampa nazionale: i “gruppi Panzieri” venivano affiancati alle formazioni di estrema destra nel fomentare la guerriglia urbana di Piazza Statuto.
Fu gravissima la mancata espressione di solidarietà da parte dei dirigenti socialisti nei confronti di quella persona con la quale avevano condiviso una lunga militanza e di cui conoscevano il rigore morale e la limpidezza politica. Raniero ne soffrì crudelmente.
Sulla valutazione della lotta dei metalmeccanici iniziano i logoranti contrasti interni che porteranno alla rottura del 1963 con l’uscita dai “Quaderni rossi” di numerosi membri della redazione.
Nell’ottobre dello stesso anno venne il licenziamento politico da parte di Giulio Einaudi. Panzieri si ritrovò solo, senza un lavoro, in una città che non amava, con tre figli (la più grande aveva quindici anni).
In questa situazione complicata e difficile mai lo sfiorò l’idea di mutare fronte. Egli sentì invece l’urgenza di aprire un nuovo confronto a sinistra.
Negli anni precedenti aveva stroncato la deformazione stalinista del marxismo.
Al “marxismo-leninismo” come sistema di dogmi chiuso e cristallizzato aveva contrapposto il marxismo come metodo creativo di critica sociale. Egli indicò che quella vacua fissità del pensiero corrispondeva alla ideologia dell’attesa e della passività dei partiti comunisti diventati organi della politica estera sovietica.
A quella giustificazione metafisica del quietismo poteva corrispondere la reazione uguale e contraria della fuga volontarista e nichilista che cerca legittimazione nella fondazione “mistica” della classe operaia. Si lancia una nuova filosofia della storia che garantisce una sorta di teofania della classe e un esito provvidenziale della sua missione storica.
Ambedue le “filosofie” si sentono esonerate dalla verifica dei fatti sociali, dai rischi della libertà e dai doveri della responsabilità.
Così Panzieri commenta la tesi di Tronti che comparirà nel saggio Lenin in Inghilterra: “Il discorso di Mario Tronti è per me un riassunto affascinante di tutta una serie di errori che in questo momento può commettere una sinistra operaia. E’ affascinante perché molto hegeliano in senso originale, come nuovo modo di rivivere una filosofia della storia”.
Credo che il breve incontro tra Panzieri e Tronti sia stato il risultato di un reciproco malinteso.
Le loro culture, le loro esperienze, i loro interessi non solo erano diversi ma opposti.
Con particolare forza, in questo momento, egli sottolinea la necessità di ancorare le scelte politiche all’oggettivismo teorico, alla verifica empirica, per evitare e contrastare la fuga soggettivista verso la piccola setta ideologica.
“L’inchiesta socialista” è l’avvio di questa risposta.
“Bisogna avere molta diffidenza – replica Raniero ai “filosofi” – nei confronti della diffidenza verso la sociologia borghese”.
Il marxismo è soprattutto sociologia come scienza politica, è scienza della rivoluzione ricondotta all’osservazione rigorosa delle dinamiche di una società scissa, dicotomica.
Ancora una volta ho cercato sin qui di evitare di raccontare gli aspetti più soggettivi, più personali e autobiografici del mio rapporto con le idee e gli stimoli politici di Panzieri.
Occorre allora ritornare a “Mondo operaio”.
Nell’inverno del 1956-57 ero a Roma. In quegli anni i miei astratti furori giovanili si proiettavano nello studio delle eresie medioevali. Sfioravo appena la politica. Frequentavo la casa di Natalino Sapegno , al quale mi legava il comune amore per le montagne valdostane.
In quei mesi la casa era affollata e animata di discussioni. Ricordo solo alcuni dei molti frequentatori: Muscetta e Crisafulli, Velso Mucci e Antonio Giolitti. Ascoltavo, appartato e silenzioso. Si parlava di Ungheria e di Krusciov, di Togliatti e di Alicata. Ero molto poco informato anche se, oltre la “Fiera letteraria”, leggevo sistematicamente “Nuovi Argomenti” e “Mondo operaio”(mio padre era socialista).
Non ricordo contenuti e argomenti precisi di quelle discussioni. Mi resta solo la vivissima impressione della delusione politica e dell’amarezza personale di Natalino Sapegno, di quell’uomo rigoroso e integro che perciò si sentiva condotto a lasciare il partito comunista.
Replicai d’istinto:”Invece, proprio in questo momento, io mi impegno in politica”. Avevo poco più di vent’anni.
Mi pareva di aver capito che l’arroccamento conservatore, il ripiegamento difensivo o l’abbandono deluso che prevalevano tra i comunisti non rappresentassero il solo modo di vivere quel momento.
I drammi legati alla crisi dello stalinismo potevano anche essere visti come l’aprirsi di grandi opportunità.
Il mondo cambiava.
In occidente il capitalismo si sviluppava acutizzando però le sue contraddizioni, alimentando lotte di tipo nuovo ed esigenze di potere degli operai.
Nei paesi socialisti il rinnovamento poteva essere contrastato e tortuoso ma appariva “irreversibile”. Ed anche in quei paesi il nuovo si chiamava autogestione, consigli operai.
Bisognava sbarazzarsi dei vecchi occhiali del dogmatismo ideologico che annebbiavano e deformavano lo sguardo.
Era indispensabile ritrovare la freschezza del pensiero e il contatto diretto con la realtà in mutamento.
Questo in sostanza fu il messaggio che mi giunse da “Mondo operaio” diretto da Raniero Panzieri.
Nel 1957 mi iscrissi alla “tendenza Panzieri”, non certo al partito di Nenni che l’anno prima si era incontrato con Saragat a Pralognan.Tornai a Vercelli e feci inchieste nelle campagne per il settimanale socialista “La Risaia”.
Nel ’58 Dario Valori mi spedì a Biella a gestire una inevitabile sconfitta congressuale della sinistra socialista. Invece vincemmo il congresso con il 51%. Per venti anni restai politico di professione.
Quelle due annate di “Mondo operaio”(1957-58) ebbero per me il significato di un “romanzo di formazione giovanile” alla politica.
All’interno del contesto della crisi internazionale del comunismo (seguita con grande attenzione negli sviluppi positivi ma senza fare sconti sugli aspetti involutivi come il caso dell’assassinio di Imre Nagy o l’attacco al Nobel di Pasternak) si collocava il recupero di quelle che allora apparivano come le esperienze storiche più alte di innesto tra rivoluzione e democrazia diretta.
Numeri monografici della rivista e la rubrica “Passato e presente” riprendevano le tradizioni del comunismo consiliare di sinistra (il soviettismo della rivoluzione d’Ottobre e Lenin di Stato e rivoluzione, il movimento torinese dei consigli di fabbrica e il Gramsci dell’”Ordine nuovo”, la rivoluzione dei consigli in Germania e Rosa Luxemburg). Con insistenza Panzieri riproponeva poi il “suo” Morandi della “democrazia del socialismo”, il Morandi delle dure polemiche con il Comintern negli anni 30 (Il socialismo integrale di Otto Bauer) e con il Togliatti della “svolta di Salerno” (Lettera aperta ai compagni comunisti del settembre 1944).
In questo modo ci veniva fornita una nuova bussola culturale, veniva ricostruita una trama del passato capace di orientare e di rafforzare l’impegno nel presente.
Il presente aveva un nome: “Neo-capitalismo”. L’impegno aveva una priorità: lavoro politico di fabbrica.
Il neocapitalismo è una realtà è il titolo di un saggio di Vittorio Foa che apre il numero della rivista del maggio 1957.
La tendenza principale del capitalismo è lo sviluppo. Le contraddizioni del capitalismo non nascono dal suo ristagno ma dentro lo sviluppo e il dinamismo tecnico.
Queste affermazioni suonavano allora come eresie scandalose.
Due anni dopo, nel 1959, Togliatti continuava a replicare: ”Dov’è oggi in Italia un rapido processo di industrializzazione? Non soltanto non esiste ma noi stiamo facendo dei passi indietro… si licenziano operai, si chiudono le fabbriche.”
L’ acuta percezione dell’ espansione di quello che sarà chiamato l’industrialismo fordista, la registrazione dei primi accenni di una società dei consumi che richiede il prezzo di un rigido dispotismo produttivistico di fabbrica, la segnalazione del nuovo interventismo statale (fanfanismo) funzionale allo sviluppo capitalistico e al consenso sociale, costituiscono le direttrici dello studio critico del nuovo capitalismo e delle trasformazioni della società italiana.
Da queste analisi la rivista di Panzieri trae argomenti teorici e fattuali per la critica delle “illusioni” del neo-riformismo statuale di Nenni, per rimettere in discussione la strategia del PCI (lotta contro l’arretratezza e i “residui feudali”, politica delle alleanze, ruolo dell’industria di stato…), per demistificare le ideologie del “capitalismo popolare” e del “benessere sotto impresa”.
A questa pars destruens corrispondono proposte costruttive, prime linee di nuova politica che verranno riassunte e definite nelle Sette tesi sul controllo operaio di Libertini e Panzieri che appaiono sul numero di “Mondo operaio” del febbraio 1958. Seguirà un dibattito acceso sulla rivista, sull’ “Unità” e sull’ “Avanti!”.
La centralità della classe operaia, la qualità politica delle rivendicazioni “gestionali” emergenti dalle “lotte nuove”, la “via democratica al socialismo” centrata sui nuovi istituti di democrazia operaia, leva di forza della trasformazione sociale e garanzia della sostanza libertaria della transizione:questi sono i cardini che reggono l’impianto delle “tesi”.
Ma il significato di fondo e dirompente di quella proposta era da ricercare nel radicale ripensamento della politica che da essa scaturiva, nella rimessa in discussione delle forme e delle strutture tradizionali del movimento operaio.
Partito politico parlamentare e sindacalismo economico rivendicativo non potevano più pretendere di contenere e di esaurire in se stessi la politicità intrinseca all’azione immediata e diretta dei soggetti in lotta.
La politicizzazione dal sociale e le forme di organizzazione “propria” che stanno dentro le forme della “spontaneità”, non cieca ma ricca e intelligente, aprono una terza dimensione all’interno del chiuso universo binario di partito e sindacato, quella del movimento politico di massa.
La costruzione dei nuovi organismi, dei nuovi istituti della democrazia operaia che unificano economia e politica rimettono in discussione i ruoli tradizionali del partito e del sindacato.
Panzieri riprende il concetto morandiano di politica unitaria e la concezione di Morandi del partito comestrumento al servizio della classe per demistificare le forme della “cattiva unità”.
Da una parte l’unità politica “frontista” come accordo diplomatico tra partiti-guida, partiti-verità “sovrani”.
Dall’altra parte l’unità tra politica ed economia come collegamento di fabbrica e parlamento realizzato tramite la “cinghia di trasmissione” tra partito e sindacato.
Molti comunisti entrano nel dibattito, dissentono e propongono.
Paolo Spriano, per conto del segretario del PCI, lancia l’anatema: “revisionismo di sinistra”. Va al sodo: è questo terremoto della politica che bisogna mettere all’indice.
In queste tesi c’è la “ fuga dal leninismo” perché si nega il ruolo dirigente del partito, c’è “anarco-sindacalismo” nella confusione di politica ed economia, c’è trotzkismo nella ripresa delle linea avventurista del “dualismo dei poteri”.
Forse, noi socialisti biellesi abbiamo operato una interpretazione forzata ed unilaterale degli stimoli che ci provenivano da Panzieri. Ma sin dai primissimi anni 60 i giornali di fabbrica “Potere operaio”, ormai radicati in una diecina di grandi stabilimenti, li vedevamo come embrioni di un movimento politico di massa unitario e autogestito che ridimensionava e ridefiniva le funzioni del partito e che chiedeva al sindacato autonomia nel suo ruolo di classe. Questa linea morì alla Fiat di Torino nell’autunno del 1969 battuta dalla convergenza tra nuove avanguardie travolte dal “bisogno di partito” (rivoluzionario), i vecchi partiti immobili ed onnipotenti e un forte pan-sindacalismo di sinistra.
Nacque il sindacato dei consigli. Fu una buona cosa, ma era un’altra cosa.
Non conoscevo le vicende che, dopo il congresso di Napoli vinto da Nenni, costrinsero Raniero nel 1959 a trovarsi un lavoro a Torino presso la casa editrice Einaudi. Non sapevo della sua emarginazione nella corrente di sinistra, della sua rottura con Libertini. A Torino e a Biella si collaborava molto e bene.
L’onda del luglio 60 e la ripresa delle lotta operaia cambiavano il clima politico e sociale.
Nella nostra “periferia biellese” l’accelerazione degli eventi fu straordinaria: nel 1960 giovani studenti fondarono, dopo Tambroni, i “Circoli di nuova resistenza” ed entrarono nel partito, nel 1961 vi fu la straordinaria lotta vincente dei 50mila tessili biellesi, nel 1962 nacque il primo giornale operaio alla Trabaldo Togna.
Con le sue venute a Biella Raniero riuscì a convincerci a trasformare i “Circoli di nuova resistenza” in “Centri studi marxisti”. Quando non veniva lui mandava Emilio Agazzi a tenere lezioni su Marx.
Questo periodo ebbe al centro il ritorno a Marx. Letture collettive del Capitale, discussioni, appunti e dispense. Era un approccio vivo e pratico al Marx critico del macchinismo.
I concetti, le categorie analitiche che si estraevano dal Capitale venivano collaudate sugli studi dell’Unione Industriali biellese circa l’innovazione tecnica in carderia, nei reparti di filatura o di tessitura.
Si scambiavano informazioni e valutazioni con i lavoratori.
Ho il ricordo vivo dell’attivazione di un circuito virtuoso tra il conoscere e il fare, tra il generale e il particolare, tra l’intenzione politica e il controllo dettagliato della tecnica.
Contemporaneamente si facevano analisi pignole e documentate delle lotte operaie, analisi che cercavano di ricostruire le dinamiche del conflitto, l’articolazione dei soggetti sociali, le invenzioni organizzative e l’emergenza dei valori che stavano all’interno della cosiddetta “spontaneità”.
Le altre letture fondamentali di allora erano gli scritti di Rosa Luxemburg su Sciopero generale, partito e sindacati e sugli scioperi spontanei di massa.
Il 1961 è stato l’anno più intenso di attività comune con Raniero ed è stato un anno di straordinario fermento di idee e iniziative. Nel gennaio il convegno con il PSI torinese sulla Fiat. A giugno l’uscita del primo numero dei “Quaderni rossi” con l’editoriale di Foa e il saggio di Panzieri sulle macchine. Ad agosto il seminario di Agàpe sul neocapitalismo. A settembre il convegno a Torino sull’Olivetti e quello a Biella sulla condizione operaia che si teneva a ridosso dell’”estate calda dei lanieri”.
Il saggio Sull’uso capitalistico delle macchine, per quanto mi riguarda, ebbe lo stesso significato di stimolo profondo e duraturo nel riflettere sull’economia e sulla fabbrica che ebbero le Tesi sul controllo operaio per quanto riguarda il ripensamento della politica.
Proprio sulle Tesi Roberto Guiducci aveva avanzato un appunto critico penetrante: mi pare di vedere nelle tesi – scriveva Guiducci – una fiducia che il piano della economia (o strutturale) abbia una sua razionalità intrinseca, oggettiva. C’è una visione del capitalismo come malattia (proprietà privata) che cela sotto di sé il corpo potenzialmente sano del progresso economico. Dell’economia capitalistica si condanna l’aggettivo ma si salva il sostantivo.
Ritengo che Raniero sia partito di qui nella sua acutissima rilettura di Marx alla luce dell’esperienza della grande fabbrica fordista per giungere a rovesciare il paradigma tradizionale tutto centrato sulla contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione.
Lo scavo dentro l’intreccio tra tecnica e potere che sta all’interno delle forze produttive non solo ha contribuito a fornire le armi critiche per una formidabile demistificazione della presunta oggettività e neutralità della scienza e della tecnica ma ha anche spostato il fuoco dell’analisi della condizione operaia. L’organizzazione del lavoro diventava il cuore dell’alienazione del lavoro da cui scaturivano insieme rivendicazioni qualitative ed richieste di potere.
In quei primi anni 60 esagerammo. Si finì con sottovalutare il valore della spinta salariale. Essa esprimeva il rifiuto di massa di una discriminazione sociale inaccettabile, della esclusione del lavoro dal comune standard di vita che offrivano gli anni del “miracolo”.
Alla fine del decennio invece avvenne esattamente l’opposto: le cosiddette “nuove” forze della sinistra scoprirono con grande curiosità il vecchio: cercarono di sommare estremismo salariale e sovversivismo politico lacerando rovinosamente il nesso tra economia e politica.
Questa linea di ricerca sulle macchine è rimasta bloccata. Non esiste una critica dell’uso capitalistico del macchinismo post-fordista. Quando la rete informatica è diventata l’automa-autocrate del processo di produzione al posto della catena di montaggio è stata sconvolta la realtà e disorientata la nostra mente.
Sono decenni ormai che nelle società complesse si riproducono i cosiddetti “nuovi movimenti sociali” o movimenti politici di massa.
Essi hanno alti e bassi, cambiano volto e differenziano le loro culture e i loro obbiettivi ma restano comunque al centro della scena sociale senza che i partiti riescano a captarli, senza che i sindacati possano rappresentarli. La teoria e la pratica della politica non sono ancora riuscite a cimentarsi positivamente con questo problema.
Il libertinaggio sregolato delle libertà potestative dei forti e delle libertà patrimoniali dei ricchi, cioè il neoliberismo, non si batte con un socialismo che continui a mostrare soltanto il volto dell’autorità e della statualità.
Ecco tre sfide che cadono nel nostro presente provenendo da quell’altro mondo del passato nel quale si esercitavano la curiosità intellettuale e la passione politica di Raniero Panzieri.
Pino Ferraris
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