mercoledì 1 ottobre 2014

Un castello di carte. Cosa faremo se il sistema non crea più posti di lavoro?

jappe
- Un intervista del 21 aprile 2013, di Alexandra Prada Cohelo ad Anselm Jappe, nella quale viene discussa la crisi della società del lavoro, la logica della merce e del valore di scambio, e la sua disastrosa conseguenza per una parte sempre più grande di umanità, e le prospettive per un cambiamento sociale positivo -

Alexandra Prado Coelho (AC): La tua conferenza si intitola, "Dopo la fine del lavoro: l'umanità è diventata superflua?". Al nostro orizzonte c'è la fine del lavoro?
Anselm Jappe (AJ): Quest'affermazione ha stupito molte persone già qualche decennio fa, perché la società moderna è per definizione una società del lavoro, dove sempre più gente viene messa a lavorare. Ma il lavoro, in tale logica, non è una cosa che è sempre esistita.
AC.: Da quanto tempo esiste?
AJ.: Nell'antichità non esisteva una parola "lavoro" che includesse tutte le attività. Sarebbe stato impossibile immaginare, per esempio, che l'attività di un prete, di un contadino, o di uno schiavo potessero essere tutte considerate come lavoro. Ciascuna attività serviva a realizzare uno scopo. Quello che importava era questo scopo - avere cose da mangiare, svolgere un servizio per Dio, intraprendere una campagna militare, ecc.. Quello che contava era la soddisfazione di un bisogno ed il lavoro era il mezzo per ottenere una tale soddisfazione.
Con la società industriale, al contrario, lavoriamo il più possibile perché è il lavoro che ci dà i soldi, e tutte le soddisfazioni dei bisogni arrivano solo più tardi. E' sempre più necessario lavorare di più per incrementare la produzione. Il lavoro è un dispendio di energie che viene misurato dal tempo. Se costruisco un tavolo o insegno all'università, queste sono due cose completamente differenti, ma posso sempre dire che, "Ho lavorato per un'ora". Questo tempo si esprime in una quantità di denaro.
A.C.: Il che viene valutato in modo differente, se a fare il lavoro è un professore universitario o un operaio.
A.J.: Un'ora di lavoro di un lavoratore specializzato può essere valutata più di un'ora di lavoro di un operaio non specializzato. E' una differenza quantitativa, ma non ha niente a che fare con il contenuto di quello che viene prodotto.
Abbiamo una società industriale che è basata sull'utilizzo delle macchine e sulla tecnologia, la quale serve ad economizzare sul lavoro. Sarebbe logico per noi dover lavorare meno, dal momento che abbiamo soddisfatti tutti i nostri bisogni grazie ad un minimo ammontare di attività. Invece avviene proprio l'opposto. Oggi lavoriamo molto più di quanto abbiamo mai lavorato prima. Basta paragonare il nostro ritmo di vita a quello dei nostri nonni.
Oggi, gira tutto intorno al lavoro. Non possiamo essere lavoratori o disoccupati, ma restiamo sempre definiti dalla relazione di lavoro.
Nel sistema capitalista, il valore non è dato dall'utilità delle cose, ma dal lavoro che è necessario a produrle. Più lavoriamo per fare qualcosa, più valore viene conferito a quel prodotto. Il lucro del capitalista proviene dal farci lavorare più del necessario, quello che Marx chiamava plusvalore.
D'altra parte, il capitalismo fa del lavoro il carburante della vita sociale. In tutte le società precedenti, tale vita sociale si basava su cose come il ruolo diretto di un individuo, le idee sull'onore o le idee religiose. nella società moderna siamo tutti definiti dal lavoro.
Negli ultimi decenni, ad ogni modo, il lavoro ha cominciato a perdere fiato, ad esaurirsi. C'è sempre meno lavoro a causa dello sviluppo tecnologico. Questa potrebbe essere una buona notizia - potremmo lavorare meno ed avere tutto quello che ci serve. Ma sta avvenendo esattamente l'opposto. Le persone perdono il loro lavoro, non c'è alcuna redistribuzione dell'attività, e quelli che sono disoccupati vengono rimossi dal consumo.
A.C.: Il che è contrario alla logica del sistema.
A.J.: Sì, quelli che non possono più lavorare non hanno più soldi per mezzo dei quali consumare. Questa è una sorta di auto-abolizione del capitalismo. In una fabbrica, una camicia viene prodotta in 5 minuti, laddove prima un artigiano impiegava un'ora per farla. In una società razionale, diremmo, "facciamo la stessa camicia che facevamo prima, ma la facciamo lavorando solo 5 minuti". Ma avviene proprio l'opposto: il lavoratore è costretto a lavorare di più, a fare più camicie, ed allora è necessario venderle. Se viene prodotto sempre di più, questo avviene per contrastare il fatto che in ciascuna merce viene investito meno lavoro e quindi il corrispondente plusvalore si riduce.
A.C.: Ma rimpiazzare gli esseri umani con le macchine non sottrae sempre valore al prodotto finale. Se voglio comprare una tazza di caffè, mi può venire servita da una persona o posso prenderla da una macchina, ma pago sempre la stessa quantità di denaro per averla.
A.J.: Ed è proprio in questo che sta la contraddizione - se un'impresa sostituisce un lavoratore con una macchina, farà più soldi perché la macchina costa meno, per funzionare. Le persone pagano per il loro caffè lo stesso importo che pagavano prima, ma l'impresa spende meno soldi in salari. Ma se ogni impresa fa la stessa cosa, è il sistema stesso a perdere perché ci sarà meno utilizzo della forza lavoro. Le imprese stanno agendo in modo contrario all'interesse del sistema. E' stato così fin dal principio.
A.C.: Però non di meno le macchine ci procurano più tempo libero da dedicare alle nostre attività, eventualmente più utili.
A.J.: Sarebbe questa la situazione ideale. Ma nel sistema capitalista, non tutte le attività hanno un valore di scambio, ma solo quelle che possono riprodurre il capitale investito. Quello che facciamo per noi stessi, o per i nostri amici, non viene considerato lavoro perché non rientra nella logica del mercato. Un'attività che è utile per noi o per altri è cosa molto differente da quello che viene considerato lavoro nel sistema capitalista. Possiamo dire, parlando di una coppia, che lui lavora in fabbrica, e quello è lavoro, ma la donna non lavora, lei è impegnata con il figlio e si prende cura del vecchio suocero. La definizione di lavoro non ha niente a che fare con il contenuto dell'attività.
A.C.: Le attività produttive devono essere necessariamente legate alla produzione di merci?
A.J.: No, però devono rientrare nel ciclo nel quale il capitale viene riprodotto. Prendiamo una fabbrica, per esempio: l'operaio fabbrica un'automobile, l'automobile viene venduta sul mercato e questo rappresenta un profitto per il capitalista, ed il suo lavoro è quindi lavoro produttivo. E' anche necessario pulire la fabbrica, ma quelli che svolgono questo servizio non producono alcun profitto, il loro lavoro è solo una spesa necessaria, la quale non contribuisce al profitto, ma piuttosto il contrario.
A.C.: Tendiamo a vedere il capitalismo come un sistema che viene alimentato da alcuni ed imposto ad altri. Ma non è così che tu lo vedi.
A.J.: Il capitalismo ha una logica anonima ed impersonale. I capitalisti eseguono solo le leggi del sistema, il quale è molto più grande di noi. Ci sono, certamente, responsabilità individuali, ma queste sono meno importanti dell'intera logica del sistema. Oggi c'è di nuovo una marcata tendenza a pensare che il problema sia che c'è un gruppo di persone che sono troppo avide, gli speculatori, i banchieri, ecc., che si spingono troppo oltre e mettono a rischio l'intero sistema, che si basa sugli onesti lavoratori.
C'è una tendenza a personalizzare il capitalismo, una tendenza che spesso si fonda anche su movimenti come quello degli "Indignati" o "Occupy Wall Street". Questo potrebbe rivelarsi pericoloso perché è in qualche modo una reminiscenza di quello che prese piede negli anni 1930 con il sistema fascista, nel quale l'odio sociale venne rivolto contro un gruppo di persone, in quel caso contro i finanzieri ebrei.
Il problema reale è che non c'è alcuna distribuzione di attività in accordo ai bisogni sociali, cosa che una società ragionevole farebbe, ma c'è semplicemente questa assoluta necessità di lavorare per produrre cose che non sappiamo a cosa servono. Questa è una cosa che ignora largamente anche la sinistra, perché è sempre così preoccupata per la questione della giustizia sociale, e cerca di scoprire perché avviene che alcune persone fanno più soldi di altre.
A.C.: Se le persone hanno la tendenza a personalizzare, questo avviene perché è molto difficile combattere un sistema senza volto.
A.J.: E' più facile scendere in strada per protestare contro i banchieri. Ma è anche facile dire che siamo tutti solo vittime, quando in realtà giochiamo tutti la nostra parte in questo sistema, in questa logica.
A.C.: Sembra difficile essere fuori dal sistema.
A.J.: Sì, partecipiamo tutti, per esempio, alla logica della competizione, è qualcosa che ci ha completamente compenetrato. Siamo sempre a cercare di venderci, di essere più forti degli altri, di avere successo sul mercato. Abbiamo assorbito completamente la logica capitalista, che non è naturale, perché, in passato, la competizione giocava un ruolo assai minore nella vita quotidiana.
A.C.: Ma non pensi che l'idea che molto dipenda dalle nostre abilità, e che siamo condannati ad occupare un certo posto, come in un sistema di caste, sia una cosa buona?
A.J.: La modernità viene presentata come un tipo di liberazione in relazione al sistema feudale, ma è solo una libertà apparente, perché è la sua logica distruttiva che porta le persone a fare ogni cosa che possano fare, ed a considerare il mondo come una sorta di materiale grezzo che possono usare per realizzare le proprie aspirazioni. E' vero che il modernismo ha un dinamismo di cui le precedenti società mancavano, ma tale dinamismo gradualmente è diventato una sorta di individualismo che si è impadronito delle persone nei paesi occidentali.
Ci prendiamo cura dei nostri interessi come imprenditori, come se fossimo sempre sul chi va là per l'opportunità di un affare. Bisogna allenarsi per essere sempre in forma per il lavoro, o andare in posti dove si possano incontrare persone che siano capaci di poterci aiutare ad ottenere un altro interessante lavoro.
A.C.: Ma, almeno teoricamente, le cose dipendono più dalla volontà individuale.
A.J.: L'ideologia ufficiale dice che ciascuna persona può fare qualunque cosa voglia della propria vita, che non siamo determinati dal fatto di essere nati in Svezia o in Africa, ma in realtà non è così. Non è come nel "Monopoli", dove ciascuno comincia il gioco con lo stesso ammontare di denaro. Non c'è uguale opportunità.
Ma anche se esistesse una tale uguaglianza, bisognerebbe chiedersi cosa vogliamo fare. Una società ragionevole organizzerebbe un accordo collettivo che concerna quello di cui abbiamo bisogno per vivere bene, e poi penserebbe a come ottimizzare le sue attività con il minimo possibile di sforzo, di modo che ciascuna persona possa fare la sua parte nella vita collettiva, e per il resto del tempo occuparsi di quello che più gli piace.
A.C.: C'è qualche posto fuori dal sistema?
A.J.: Ovviamente, questa situazione ci sta procurando sempre più sofferenza. Le persone che lavorano soffrono, si sente sempre più parlare di suicidi connessi al lavoro, c'è un enorme pressione nelle grandi corporazioni, ciascuno sa che entro il prossimo anno metà degli impiegati verranno licenziati, per cui ciascuno lavora come un pazzo come per pregare quel dio che viene chiamato logica del profitto. E quelli che non lavorano soffrono perché sono socialmente svalorizzati.
Attualmente c'è una vasta gamma di iniziative sotterranee legate al movimento per la decrescita, economie alternative, reti di baratto locale, o gruppi che cercano di tornare nelle aree rurali, reti di scambio fra produttori biologici. Li ho spesso criticati, ma penso che per lo meno mostrano un interesse reale nel trovare un modo che non sia solo una gestione alternativa della medesima società industriale basata sul denaro.
A lungo, la sinistra si è limitata a proporre una distribuzione più giusta degli stessi contenuti. Oggi, c'è almeno un tentativo di andare oltre questo. Ma ci sono sempre altre forze sociali che, al contrario, continuano a voler strappare l'ultima briciola di questa toria che sta diventando sempre più piccola.
A.C.: Il capitalismo sta morendo?
A.J.: L'essere umano molto spesso non è redditizio dal punto di vista del sistema, e questo significa che egli è sempre più privato del potere di consumare. In Europa viene ancora distribuito un po' di denaro a quelli che non sono più redditizi, ma c'è sempre anche un'enorme pressione a tagliare, e a tagliare sempre di più. C'è la sensazione che ci sono persone che sono superflue dal punto di vista del sistema. Per la Germania, la Grecia è diventata un paese superfluo. Ed in alcuni paesi ci sono interi strati della popolazione che non sanno più cosa fare.

A.C.: I governi stanno parlando circa un ritorno della crescita, tutti vogliono esportare verso i nuovi mercati emergenti.
A.J.: Tutti vogliono esportare, nessuno vuole importare. Ma non è possibile avere un mondo in cui tutti esportano e nessuno importa. Quello che è stato chiamato il miracolo economico cinese è anch'esso basato sull'export, soprattutto verso gli Stati Uniti. Se i piccoli paesi entrano in questa logica liberale dell'export, i risultati saranno catastrofici. Ci sono paesi in Africa che una volta producevano abbastanza per nutrire sé stessi - vivevano modestamente, ma ci riuscivano sufficientemente - e che poi hanno spazzato via tutto in nome dell'export, e oggi producono solo banane e se il mercato delle banane collassa, collasserà anche la loro economia.
Bisogna riuscire a liberarci da quest'idea di produrre innanzitutto per il mercato mondiale.
A.C.: La globalizzazione ci porta più vicino ad altre culture. Se ci rinchiudiamo nei nostri villaggi ...
A.J.: La mobilità globale è più che altro un affare a senso unico. In Europa non ci sono mai stati confini così strettamente guardati contro l'esterno, come lo sono ora. C'è un tipo di mobilità per i turisti, ed un altro tipo di mobilità per quelli che devono riallocarsi in cerca di lavoro.
Un ritorno allo Stato-nazione non è un'alternativa - e a me sembra un'ideologia molto pericolosa. Una società post-capitalista deve avere una base quotidiana nelle sue realtà locali: dobbiamo mangiare le mele che crescono nel frutteto del vicino, piuttosto che quelle che crescono in Nuova Zelanda. Questo, certamente, non previene la comunicazione culturale ed intellettuale con persone che vivono in altre regioni del mondo. Ci sono persone che scelgono di lavorare meno e di ridurre i loro bisogni materiali, organizzandosi insieme ad altri per poter godere di una vita soddisfacente che non richiede necessariamente l'acquisto di prodotti o di servizi.
A.C.: Ma tu hai anche detto di essere critico rispetto a questi movimenti. Perché?
A.J.: Perché pensano che basti limitarsi a quelle misure. Comprare i nostri prodotti fatti per mezzo di procedure organiche potrebbe essere un primo passo.
A.C.: Quale dovrebbe essere il secondo?
A.J.: Un movimento sociale che dovrebbe occupare direttamente fabbriche ed officine. Il capitalismo sta abbandonando molte forze produttive, perché non sono più redditizie, ma che sono ancora in grado di funzionare in modo efficace.
A.C.: Parli di occupazioni, di gestione della comunità, suona come un 25 aprile.
A.J.: C'è una memoria storica che vale la pena recuperare. Ovviamente, non stiamo partendo da zero.
A.C.: Ma il sistema integra velocemente queste esperienze.
A.J.: Ma ciò non implica necessariamente che tutto succederà nello stesso modo, perché oggi il sistema è molto più debole. Oggi viviamo in tempi che sono molto diversi dagli anni 1970 e 80. Il sistema è in ritirata. Quelli che hanno un posto nel ciclo produzione-consumo stanno diminuendo costantemente di numero, anche nei paesi più ricchi. C'è una grande quantità di persone che non ha alcun posto nel sistema. Se una fabbrica viene abbandonata a causa di una riallocazione aziendale, è possibile prenderla ed usarla per fare cose utili.
A.C.: Un tale cambiamento richiederebbe un qualche genere di conflitto sociale a monte. Richiederebbe un grande numero di persone.
A.J.: Vedo un altro pericolo in un tale movimento - potrebbe facilmente diventare una sorta di gestione della povertà. La povertà sta aumentando e lo Stato potrebbe benissimo dare un pezzo della gestione sociale a questo tipo di economia alternativa, dicendo: "prendetevi cura dei vostri problemi".
E' davvero bizzarro, per esempio, vedere persone che vanno nei mercati e nei negozi dopo la chiusura per procurarsi i prodotti di scarto. Questo si sta trasformando in una valorizzazione della sopravvivenza quotidiana , cosa che è assurda se si estende ad un livello sociale globale dove ci sono un'immensità di rifiuti. L'idea di una semplicità volontaria potrebbe aprire la strada ad un discorso di valorizzazione della povertà.
A.C.: Per creare un sistema post-capitalista dovremmo usare modelli precedenti? O bisogna inventarsi tutto?
A.J: Il capitalismo ha fallito a mantenere così tante delle sue promesse che ora proviamo, in alcuni ambiti, una sorta di nostalgia per un ritorno al passato. Ma è sicuro che non possiamo tornare indietro, è troppo grande il rischio di arcaismi violenti.  E' chiaro che la soluzione può essere trovata solo andando avanti. Possiamo avere una vita soddisfacente con una produzione molto ridotta, rispetto a quella che abbiamo oggi.
A.C.: Vedi il futuro ideale come un mondo nel quale le persone lavorano meno, dove il lavoro è distribuito più razionalmente ...
A.J.: ... Nel quale i bisogni sono definiti, quello che vogliamo fare nella vita e come possiamo farlo con il minor sforzo possibile. E' necessario cominciare a pensare sulle basi dei risultati piuttosto che sulla base del lavoro. Molti dei nostri bisogni quotidiano sono delle compensazioni rispetto al lavoro. Una vita dedicata solo al lavoro è talmente insoddisfacente che è necessario avere compensazioni, televisione, automobili, turismo, giochi per computer.
A.C.: In che misura questo cambiamento sta attualmente avvenendo nella politica?
A.J.: Quando pensiamo alla politica, pensiamo all'idea che lo Stato debba garantire una distribuzione migliore delle cose. Ma vediamo che la politica non è la situazione, perché è strutturalmente dipendente dal denaro. Dal momento che c'è meno denaro a disposizione dello Stato, per distribuirla, lo Stato ha sempre meno potere. La sinistra, gli "alter-globalisti", invocano un ruolo sempre maggiore dello Stato. Come se il capitale fosse il polo negativo, e lo Stato quello positivo. Ma se lo Stato non può più esigere tasse, non ha più niente da redistribuire.
A.C.: Senza uno Stato, come possiamo garantire protezione ai più svantaggiati? Non c'è il rischio che la logica localista spinga alla carità del villaggio?
A.J.: Lo stato sociale è ancora molto giovane, è già sta cominciando ad essere gradualmente smantellato dovunque. Ci sono molti Stati che praticamente non hanno più servizi pubblici. Inganneremmo noi stessi se pensassimo che le preoccupazioni per il sociale sono il cuore dello Stato.
A.C.: Che tipo di organizzazione sociale propugni?
A.J.: L'auto-organizzazione basata sui quartieri nelle città, piccole unità che prendono le decisioni riguardanti le loro vite, e che poi organizzano un livello federale con le altre comunità. In questo momento, il capitalismo è un castello di carte che sta cominciando a collassare. Non è possibile dire quanto ci metterà a crollare, ma i segnali stanno diventando sempre più evidenti.

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