La Sardegna è una polveriera, per di più annunciata, ma la cosa
sembra lasciare indifferente gran parte della politica. Mentre va in
scena la disperata protesta dei minatori del Sulcis, decisi a resistere a
oltranza a 400 metri sotto terra, e mentre lo stesso fanno gli operai
dell'Alcoa a un passo dalla chiusura, i leader dei maggiori partiti
tacciono, troppo occupati a insultarsi a vicenda e a progettare
improbabili leggi elettorali: non una parola di solidarietà; non un
leader nazionale che si sia fatto vedere da quelle parti (unica
eccezione Paolo Ferrero, segretario del Prc). Anche il governo dei prof
fa il bello (si fa per dire) addormentato: la drammatica situazione
sarda non pare impensierire Palazzo Chigi che, a quanto pare, non
ritiene di dover intervenire direttamente. Altre sono, secondo
l'esecutivo Monti, le priorità dell'Italia: un decreto crescita che ha
imbarazzato per la sua pochezza persino Casini e le bevande gassate che
nuocciono gravemente alla salute e vanno perciò tassate (salvo poi fare
marcia indietro). Con tutta calma il tavolo al ministero dello Sviluppo
economico per discutere del Sulcis è stato convocato per venerdì 31
agosto. Solo tre giorni prima dell'annunciata chiusura dell'Alcoa. E non
è che non si sapesse. A marzo era stato siglato un accordo che
prevedeva il ritiro della procedura di mobilità e il mantenimento della
produzione fino al 31 ottobre 2012 in presenza di manifestazioni di
interesse. Cioè della disponibilità di altre società a subentrare al
colosso americano. Già allora i sindacati avevano messo in guardia che
la «partita non è chiusa» e infatti il fondo Klesh e la multinazionale
Glencore che si erano dette interessate a rilevare le attività
dell'Alcoa in Italia hanno detto bye bye. Perché? Perché il governo non
ha fornito le necessarie garanzie sui costi dell'energia (oggi troppo
alti per un'industria altamente energivora come quella dell'alluminio,
il motivo per il quale gli americani se ne vanno). Cioè i prof non hanno
fatto i compiti a casa. Ed è per questo risultato deludente che ora i
sindacati chiedono che la trattativa si sposti dal ministero di Corrado
Passera direttamente a Palazzo Chigi. Stessa situazione di assenza anche
nella vicenda della miniera della Carbosulcis (oggi interamente di
proprietà della regione Sardegna) a Nuraxi Figus. Anche qui i problemi
sono stati lasciati marcire. A dicembre scade il bando della vendita
della miniera, compratori all'orizzonte nessuno. Eppure esiste un piano
di riconversione che potrebbe aiutare tutto il Sulcis: usare il carbone
estratto per alimentare una nuova e moderna centrale di produzione
elettrica a emissioni zero, energia pulita da destinare ad Alcoa,
Eurallumina e Glencore, oggi in crisi proprio per l'alto costo
dell'energia. Tutto fermo. C'è chi sostiene sia colpa dell'Enel che
vuole usare i fondi Ue, necessari al progetto Sulcis, per riconvertire
la centrale a olio combustibile di Porto Tolle (Rovigo) e preferisca
tenere ferma la centrale a carbone Sulcis 3, incassando soldi pubblici
sotto la voce riserva fredda, per metterla in funzione solo quando
serve. L'Enel smentisce, sostenendo che l'azienda continua regolarmente a
comprare il carbone sardo ed è la Regione a non presentare il bando di
gara per l'assegnazione internazionale del progetto. Il governo guarda e
lascia correre. Così il progetto non cammina, di rinvio in rinvio fino a
quello che ha scatenato la nuova protesta. La novità, che non farà
piacere hai minatori sardi l'ha annunciata il sottosegretario allo
Sviluppo economico De Vincenti, secondo il quale il progetto di
riconversione «non sta in piedi» (e se ne accorgono solo ora?) e per
questo si sta lavorando ad un piano «per andare oltre l'attività
estrattiva». Ma stiano pur tranquilli i lavoratori: «Nessuno sarà
abbandonato a se stesso». Insomma, ancora chiacchiere, mentre il
disastro economico e sociale è ormai compiuto. Il Sulcis Iglesiente è
ormai la provincia più povera d'Italia: 130mila abitanti, 32mila
disoccupati. In tutta la Sardegna la disoccupazione è al 16 per cento,
che diventa uno spaventoso 45 per cento nel caso dei giovani.
Nell'ultimo anno hanno chiuso 1.213 aziende; 1.700 hanno dichiarato lo
stato di crisi; 21mila posti di lavoro cancellati nel 2011. Nella sola
provincia Carbonia-Iglesias la disoccupazione nel 2010 è stata del 19
per cento, quasi il doppio di quella che c'era un anno prima. E dal
conto sono tenuti fuori i cassaintegrati. La chiusura dell'Alcoa, è
stato calcolato, sarebbe una voragine economica: da un giorno all'altro
sparirebbero il 27 per cento del reddito industriale provinciale e il 10
per cento degli occupati di tutta la provincia. La vittoria della
Thatcher sui minatori inglesi negli anni '80 è costata alle casse
pubbliche britanniche, raccontava Luciano Gallino qualche giorno fa su
Repubblica, 36 miliardi di sterline di allora (tre punti di pil) tra
perdite di produzione, sussidi e mancati introiti fiscali. Fatte le
debite proporzioni, la catastrofe del Sulcis sarebbe una catastrofe
anche sui conti pubblici italiani, per non dire del massacro sociale. Il
governo può permetterselo? Forse no, se è vero che al termine del
vertice di venerdì a Roma (presenti il ministro Passera, il
sottosegretario De Vincenti e i presidenti di Regione Sardegna e
Provincia di Carbonia-Iglesias) il ministero dello Sviluppo Economico ha
garantito che la miniera non chiuderà il 31 dicembre (il governo
proporrà al Parlamento di prorogare la scadenza prevista dalla legge
99/2009) e che sarà riveduto il progetto per il carbone pulito. Sempre
che non si tratti di una nuova presa in giro, come sembra per Alcoa: la
Glencore, ricomparsa, si è presa altro tempo per decidere, mentre gli
americani hanno rifiutato di prorogare la chiusura, perciò da lunedì
l'impianto si ferma. Che dice, e soprattutto che fa, il governo?
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