sabato 3 novembre 2012

Allo specchio di Nicola Lagioia, Lo Straniero


Per chi voglia provare a comprendere qualcosa del caos italiano, cioè della solo apparentemente inconciliabile orgia di conformismo e anarchia che ci sovrasta e ci attraversa e ci appartiene con grande evidenza negli ultimi tempi – quella frana stucchevole che qualcuno prova a stringere al collare troppo stretto di formule (a propria volta molto furbe e molto povere) quali “declino” o “perdita di competitività” – un tentativo di messa a fuoco può consistere nel guardare all’oggi attraverso quattro vecchie opere d’ingegno che dell’Italia fecero la propria ragion d’essere.

Come quando, dall’oculista, la sovrapposizione di varie lenti (nessuna esclusa) porta a decrittare la successione di lettere che prima ci apparivano indistinte, osservare la scena italiana attraverso la lastra del Gattopardo, a propria volta piantata davanti a quella dei Viceré, dei Promessi sposi, e dietro questa quella che tutte le precede (il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani di Leopardi) dà finalmente a ciò che sembrava piatto e impenetrabile un’idea di tridimensionalità. A essere poco chiaro non è infatti ciò che accade in scena – le maschere di Grillo, Minetti, Berlusconi, Bossi, Polverini, D’Alema e così via sono di un’autoevidenza che lascia senza appigli – ma la possibilità stessa che un simile spettacolo non solo sia rappresentabile, ma trovi pure un pubblico pagante. Alla scena appartengono infatti anche comprimari e spettatori. Come dice il cantautore: “nessuno si senta escluso”. In Italia meno che mai.

 
Com’è possibile allora per esempio che mentre la lingua ufficiale del Paese prova allo specchio vaghi accenti protestanti riempiendosi la bocca di parole quali “rigore” e “sobrietà”, allo stesso tempo – non fuori dalla scena, attenzione, ma su palcoscenici sufficientemente esposti da risultare ignoti fino quando qualcuno scopre esattamente ciò che si sarebbe aspettato di trovare – si usino i soldi pubblici per allestire festini ai limiti dell’irrapresentabile per eccesso d’iperrealismo (l’affaire Polverini-Fiorito) i quali riuscirebbero nell’impresa di disgustare allo stesso modo Renato Guttuso e Albert Speer? E quale segreto moto dell’animo spinge le presunte vittime (o meglio: le sempre autoproclamatesi tali), alternativamente: a) a disprezzare con violenza ciò che fino all’altro ieri si era magari condito di rispetto, quando i motivi di biasimo erano lampanti, seppure “in sonno”, sin da allora; b) a sentirsi ferocemente più soddisfatti che feriti dalla conferma del proprio precedente biasimo; c) a invocare, in entrambi i casi, l’intervento di un terzo sempre diverso da se stesso per rimettere a posto le cose?
 
L’aspetto più curioso è proprio questo. Quando in Italia esplode uno scandalo (quello della Regione Lazio è solo il più recente e qui valga giusto come paradigma), i proletari e gli esclusi da qualsivoglia spartizione chiedono giustizia ai propri rappresentanti, urlando la propria impotenza. L’opposizione chiede giustizia alla maggioranza, rivendicando la propria impotenza. La maggioranza chiama in causa un sempre fantomatico Sistema, lamentando la propria impotenza (“governare gli italiani non è difficile, è inutile”, Giolitti o Mussolini a seconda della vulgata), e poi si appella all’arbitrato del Preside(nte) della Repubblica. Il Presidente è quasi impotente per via istituzionale, ma la richiesta di una sua presa di posizione chiama spesso per chissà quale affinità quella del papa, il quale, infatti, spesso interviene per mezzo dei propri cardinali (attenzione! a propria volta spesso il papa è ovviamente et infallibilmente impotente davanti alle macchinazioni dei cardinali), che a loro volta (talmente parte in causa la Chiesa in via sostanziale negli affari italiane da potersi permettere di non esserlo in via formale) non possono consumarsi in altro che in una reprimenda.
 
Insomma, nessuno in Italia è mai parte in causa. Al limite, siamo tutti parte lesa. Eppure, quei proletari erano andati in visibilio quando il loro leader del momento riempiva l’ampolla con le acque sacre del dio Po (adesso il dio si chiama internet). Quelle casalinghe e quegli aspiranti manager col diploma di geometra acquistato per corrispondenza l’avevano difesa a spada tratta, la pagliacciata del “contratto con gli italiani” in diretta nazionale. Quel ceto medio riflessivo, a furia di riflettere, si era dimenticato di chiedere conto ai propri segretari della mancata risoluzione del conflitto di interessi mentre erano al governo per ben due volte (per tacere della Bicamerale).
Perché insomma in Italia, il Presidente del consiglio ostenta le stesse mani legate che all’ultimo disoccupato sembrano un motivo sufficiente per il vitalizio che non otterrà mai? Da dove viene, questo oceanico delirio d’impotenza?
 
Per provare a rispondere, dobbiamo trasferirci per un attimo nel Seicento manzoniano, e cioè un “momento” appena successivo all’Ottocento di Leopardi. I promessi sposi, se non ci fosse il superiore cielo della Provvidenza, sarebbe tutto schiacciato (come in effetti è) sotto quello dell’occupazione spagnola. Se c’è un concetto che nel capolavoro manzoniano è umiliato in modo così onnicomprensivo da poter alternativamente vestire i panni sia del vizio che della virtù è quello di autodeterminazione. Autodeterminati non sono Renzo e Lucia, che infatti non possono sposarsi. Non è libero delle proprie azioni don Abbondio, e figuriamoci (“il povero curato non c’entra; fanno i loro pasticci tra loro, e poi... se la cosa dipendesse da me...”). Non lo sono i bravi rispetto a don Rodrigo, e quest’ultimo è talmente un poveraccio nella categoria dei prepotenti – così rozzo, superstizioso, grossolano – che si limita ad amministrare un potere i cui limiti gli sono fisiologici. Non lo è fra’ Cristoforo, la cui azione più risolutiva, nel finale, si limita allo sciogliere il voto di castità di Lucia.
Meno che mai capace di autodeterminazione è poi il popolo nel suo unico momento di (finto) protagonismo: la rivolta milanese causata dai rincari del pane è la quintessenza della rabbia cieca e autodistruttiva. Insomma, del populismo.
 
La peste, quella sì, è invece risolutiva. E l’autodeterminazione della peste (se così si può dire) è a propria volta interessante per due motivi. Da una parte non è mai ozioso ricordare che l’epidemia, nei Promessi sposi, la portano i Lanzichenecchi, cioè i mercenari tedeschi che combattevano nella guerra di successione del Ducato di Mantova: la soluzione, insomma, arriva dall’esterno. Se volessimo risalire ancora indietro nei secoli, potremmo per esempio dire che la peste è una forma (un’orrenda forma, l’ennesima incarnazione mai del tutto risolutiva) del veltro-Montefeltro di cui Dante parla nel I Canto dell’Inferno. E viene poi addirittura dall’Esterno, la peste manzoniana, se è uno dei nomi con cui la Provvidenza può occasionalmente travestirsi. Se infine (per non lasciare all’Italia come unica possibilità l’intervento divino) volessimo imbarcarci nell’arduo ma forse non del tutto sterile tentativo di secolarizzare la Provvidenza stessa, ricorderemo che l’ultima redazione dei Promessi sposi si conclude nel 1842, a meno di vent’anni dall’Unità d’Italia. Esiste insomma una speranza al di qua del cielo: viaggia sul motore della Storia, è praticamente dietro l’angolo.
 
Quando tuttavia Federico De Roberto pubblica I Viceré – romanzo che, per fedeltà d’affresco, è forse secondo solo ai Promessi sposi, e ci sarebbe da discuterne – è ormai il 1894. Dall’Unità d’Italia sono passati trent’anni, e ai più avvertiti è chiaro che il Risorgimento non ha avuto e non sta avendo chissà che effetti palingenetici. L’intento di De Roberto era quello di raccontare, proprio a cavallo del passaggio dai borboni all’Unità, la “storia d’una gran famiglia (siciliana, gli Uzeda sono di Catania) la quale deve essere composta di quattordici o quindici tipi, tra maschi e femmine, uno più forte e stravagante dell’altro. Il primo titolo era Vecchia razza: ciò dimostri l’intenzione ultima, che dovrebbe essere il decadimento fisico e morale d’una stirpe esausta”.
 
La stirpe esausta che invece De Roberto finisce per raccontare attraverso gli Uzeda, è quella degli italiani tutti. Mai, in un romanzo, la lotta fratricida, la cupidigia, la dissolutezza morale, il trasformismo erano stati raccontati con tanta ferocia (una ferocia che ad esempio non ha Il Gattopardo) e mancanza di prospettive. De Roberto, a differenza di Manzoni, non ha davanti neanche il fantasma benigno dell’evento storico che al contrario si è appena consumato – e anche in fondo se l’avesse, gli basterebbe forse frugare negli intestini di una qualunque famiglia agiata della sua terra per capire come gli italiani covino in sé, da qualche secolo, un tale seme degenerativo che solo un fatto storico così potente da assumere le sembianze dell’evento metafisico sarebbe in grado di estirpare (un’epidemia? una rivoluzione? e in modo ancora più rivoluzionario: la collettiva presa di coscienza di essere un popolo con delle responsabilità e quindi, finalmente, con delle possibilità di cambiamento?)
 
Ecco allora che al posto del tentennante don Abbondio c’è il dissoluto padre Blasco: sboccato, donnaiolo, sempre impegnato ad accumulare ricchezze e a seminare zizzania tra i parenti. Ecco il trasformismo impetuoso di Consalvo e quello comico e mediocre di don Gaspare (da sinistra a destra e da destra a sinistra a seconda di come soffia il vento parlamentare). Ecco i raggiri sull’eredità orditi a danno dei fratelli per tutto il romanzo da don Giacomo. Ecco infine il millantatore che vive a scrocco (il Cavalier Eugenio), la zitellona implacabile (donna Fernanda), l’amante del lusso e delle belle donne (don Raimondo). E, tutti loro, devastati da una sete di potere talmente arida e insulsa (uguale per intensità ma contraria per essenza a quella di Faust e Macbeth) da risucchiarli nel proprio stesso gorgo senza altri danni se non soprattutto quelli inferti a se stessi.
 
Quando esce Il Gattopardo siamo alla fine degli anni cinquanta del Novecento. Con alle spalle l’Italia quasi un secolo di storia (nonché un’opera come quella di De Roberto) dire che “tutto cambi perché tutto resti com’è” sembrerebbe la scoperta dell’acqua calda. Se non fosse che Il Gattopardo (così stilisticamente più elegante, ma così meno vasto, potente, mobile e ricco de I Viceré) ha il merito di mettere ancora meglio a fuoco – con il nitore dell’allegoria, o forse del correlativo oggettivo – qualcosa che nell’opera di De Roberto si ottiene solo dalla somma delle parti. E cioè il fatto che l’Italia (o meglio: gli italiani) sono un gioco a somma zero. L’immagine in questione è offerta dal principe di Salina che osserva il cosmo con il telescopio (il telescopio azimutale Merz, il telescopio equatoriale di Lerebours & Secretan, il telescopio altazimutale di Worthington che furono di Giulio Fabrizio Tomasi, il bisnonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa a cui il protagonista del Gattopardo è ispirato). Si potrebbe dire, come sembrerebbe suggerire il romanzo, che don Fabrizio Salina osservi il cosmo per trovare una pace e soprattutto una perfezione di cui la sua terra e il suo tempo così mediocre sembrano essere l’assoluta smentita. Ma a scavare più a fondo, quelle costellazioni – così fredde, lontane, perfette, immutabili – sono anche una tremenda conferma della “vanità del tutto” di cui l’Italia sembra a propria volta la più evidente incarnazione terrena.
 
Essere il popolo sostanzialmente più filosofico di tutto il mondo civilizzato (coloro che, senza nemmeno doversi prendere il disturbo di teorizzarlo nei libri, vivono come se tutto fosse vano) è uno dei fuochi che ancora ardono nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani che Leopardi scrisse nel 1824. I francesi lo teorizzano con i loro grandi filosofi, scrive Leopardi, ma gli italiani sono di fatto (fuori dalla pagina, si potrebbe dire) più cinici dei francesi senza bisogno delle speculazioni che la Francia regalò al Settecento d’Europa. Questo è possibile perché all’ipertrofia di un carattere nazionale non corrisponde né una nazione né un’idea di società. Gli italiani, scrive Leopardi, non sentono il bisogno di controllarsi tra di loro (se non con le armi dello scherno e della delazione); gli è sconosciuto cioè quell’“onore” personale che è tale solo se te lo riconoscono anche gli altri – a patto, quindi, che ogni singolo ispiri le proprie azioni alla virtù condivisa. Ma una virtù condivisa e sanzionata socialmente, in Italia non esiste. Tramontata l’età del mito, morto Dio e il timor di Dio (e ancora, per estremizzare il concetto: non c’è bisogno delle illuminazioni di Nietzsche in Engadina, poiché in Italia si fa sostanzialmente a meno di Dio sin dal Seicento), soltanto il vincolo sociale – ontologicamente fittizio, ma fondamentale – o al limite solo la paura di un biasimo che trovi concorde il corpus civico può ispirare le nostre azioni a qualcosa di costruttivo. Ma gli italiani “sono continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri” con una violenza, una ferocia e soprattutto una nulla stima di sé che lascerebbe al tappeto il rappresentante di qualunque altro popolo d’Europa ma non noi. Al contrario, per gli italiani una simile inclinazione rischia di cronicizzarsi così tanto da diventare un asse portante. Questo, nel 1824.
 
Per verificare quanto Tomasi di Lampedusa non fosse nel torto, basti pensare a quanto il borbonico “facite ammuìna” si reincarni stagionalmente a ogni nuovo dibattito pubblico nelle penne dei “professionisti dell’opinione e dell’antiopinione”. Ma per capire quanto De Roberto, e ancora più Leopardi avessero reso così bene l’attitudine autodistruttiva che paradossalmente ci tiene in piedi (ma a quale prezzo?) basta invece farsi un giro su internet. La Rete (non solo in Italia, ma noi siamo campioni della specialità) sta diventando nelle sue forme più degenerative un ricettacolo di delazioni, insulti e rivendicazioni a basso costo (cioè senza quasi mai poterselo permettere) che sembrano la più attuale ricrudescenza di quel “deridersi in faccia gli uni e gli altri” di cui scriveva Leopardi. La sostanziale mancanza – dentro e ovviamente fuori dal mondo virtuale – di serie sanzioni sociali (e uno sberleffo non lo è) per i propri piccoli o grandi atti di vandalismo, bullismo, irresponsabilità o leggerezza, fa sì che questi si moltiplichino senza sosta, con la novità che, come si diceva all’inizio, ci sentiamo tutti dalla parte della ragione e, contemporaneamente, parte lesa.
 
Potrei fermarmi qui, e abbandonare il quadro alla sua sconfortante evidenza. Eppure, se devo interrogare l’ottimismo della volontà, credo di trovare in fondo al pozzo un paradossale motivo di speranza nella necessità di considerare ogni singolo italiano responsabile, e il popolo italiano invece parte lesa. Questa parte lesa, dovremmo insomma immaginarla all’occasione come staccata dalle nostre persone. È in nome di questa parte lesa – in disaccordo, spesso anzi in vero conflitto con ogni singolo – che è sensato ingaggiare una lotta. Il che significa oggi lottare anche contro se stessi.
 
Che il popolo italiano muova a pietà se non a commozione, è difficile smentirlo. Quando mai è finito, infatti, il Seicento di Manzoni? Quando mai, cioè, il nostro popolo ha vissuto un genuino e nobile momento di protagonismo e autodeterminazione in grado di infondergli fiducia? Non è accaduto nella seconda metà del XVI secolo (abbiamo avuto una Controriforma senza il balsamo di una Riforma – ricordo un passaggio molto bello di Aldo Busi sulla Bibbia di Diodati, che avrebbe regalato agli italiani una lingua finalmente affrancata dall’artificiosa padronalità curiale se non fosse stata messa al bando). Non è accaduto con il Risorgimento (dove al massimo il protagonismo tocca un’élite di massa) e solo in piccola parte con la Resistenza. Per venire a eventi più recenti, basti pensare all’entusiasmo con cui i singoli italiani (umiliando per l’ennesima volta il popolo di cui fanno parte) hanno reagito a Tangentopoli all’inizio degli anni novanta, invocando il cambiamento ma poi delegando ogni cosa all’uomo della provvidenza (allora i giudici, più tardi Berlusconi, e adesso cosa?)
 
È questo sentirsi insomma sempre fuori dai giochi, sempre impotenti in prima persona, sempre alienati da un nobile protagonismo, cioè da una seria e reale responsabilità – in attesa perenne del veltro, della peste, dell’uomo della provvidenza, di un altro che si pigli la responsabilità che non vogliamo assumerci per la parte che ci compete, pretendendone però poi l’impossibile guadagno – è questo, credo, uno dei peggiori difetti di noi individui italiani.
 
Si tratta di una colpa dalla quale, se può essere sollevata l’idea di un popolo, non dev’esserlo, invece, ogni singolo – per il quale, nel proprio foro interiore, dovrebbe sempre pesare l’onere della prova. Ognuno dovrebbe sentirsi chiamato a scardinare (a distruggere in se stesso, dunque a trascendersi in un’ottica civile) ciò che lo rende alieno alla comunità senza la quale il suo profilo identitario pure andrebbe a disgregarsi. È attraverso la cruna di un simile paradosso che abbiamo oggi il dovere di passare.

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