Per
chi voglia provare a comprendere qualcosa del caos italiano, cioè
della solo apparentemente inconciliabile orgia di conformismo e
anarchia che ci sovrasta e ci attraversa e ci appartiene con grande
evidenza negli ultimi tempi – quella frana stucchevole che qualcuno
prova a stringere al collare troppo stretto di formule (a propria volta
molto furbe e molto povere) quali “declino” o “perdita di
competitività” – un tentativo di messa a fuoco può consistere nel
guardare all’oggi attraverso quattro vecchie opere d’ingegno che
dell’Italia fecero la propria ragion d’essere.
Come quando, dall’oculista, la sovrapposizione di varie lenti (nessuna esclusa) porta a decrittare la successione di lettere che prima ci apparivano indistinte, osservare la scena italiana attraverso la lastra del Gattopardo, a propria volta piantata davanti a quella dei Viceré, dei Promessi sposi, e dietro questa quella che tutte le precede (il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani di Leopardi) dà finalmente a ciò che sembrava piatto e impenetrabile un’idea di tridimensionalità. A essere poco chiaro non è infatti ciò che accade in scena – le maschere di Grillo, Minetti, Berlusconi, Bossi, Polverini, D’Alema e così via sono di un’autoevidenza che lascia senza appigli – ma la possibilità stessa che un simile spettacolo non solo sia rappresentabile, ma trovi pure un pubblico pagante. Alla scena appartengono infatti anche comprimari e spettatori. Come dice il cantautore: “nessuno si senta escluso”. In Italia meno che mai.
Come quando, dall’oculista, la sovrapposizione di varie lenti (nessuna esclusa) porta a decrittare la successione di lettere che prima ci apparivano indistinte, osservare la scena italiana attraverso la lastra del Gattopardo, a propria volta piantata davanti a quella dei Viceré, dei Promessi sposi, e dietro questa quella che tutte le precede (il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani di Leopardi) dà finalmente a ciò che sembrava piatto e impenetrabile un’idea di tridimensionalità. A essere poco chiaro non è infatti ciò che accade in scena – le maschere di Grillo, Minetti, Berlusconi, Bossi, Polverini, D’Alema e così via sono di un’autoevidenza che lascia senza appigli – ma la possibilità stessa che un simile spettacolo non solo sia rappresentabile, ma trovi pure un pubblico pagante. Alla scena appartengono infatti anche comprimari e spettatori. Come dice il cantautore: “nessuno si senta escluso”. In Italia meno che mai.
Com’è possibile allora per esempio che mentre la
lingua ufficiale del Paese prova allo specchio vaghi accenti
protestanti riempiendosi la bocca di parole quali “rigore” e
“sobrietà”, allo stesso tempo – non fuori dalla scena, attenzione, ma
su palcoscenici sufficientemente esposti da risultare ignoti fino
quando qualcuno scopre esattamente ciò che si sarebbe aspettato di
trovare – si usino i soldi pubblici per allestire festini ai limiti
dell’irrapresentabile per eccesso d’iperrealismo (l’affaire
Polverini-Fiorito) i quali riuscirebbero nell’impresa di disgustare
allo stesso modo Renato Guttuso e Albert Speer? E quale segreto moto
dell’animo spinge le presunte vittime (o meglio: le sempre
autoproclamatesi tali), alternativamente: a) a disprezzare con violenza
ciò che fino all’altro ieri si era magari condito di rispetto, quando i
motivi di biasimo erano lampanti, seppure “in sonno”, sin da allora;
b) a sentirsi ferocemente più soddisfatti che feriti dalla conferma del
proprio precedente biasimo; c) a invocare, in entrambi i casi,
l’intervento di un terzo sempre diverso da se stesso per rimettere a
posto le cose?
L’aspetto più curioso è proprio questo. Quando in
Italia esplode uno scandalo (quello della Regione Lazio è solo il più
recente e qui valga giusto come paradigma), i proletari e gli esclusi
da qualsivoglia spartizione chiedono giustizia ai propri
rappresentanti, urlando la propria impotenza. L’opposizione chiede giustizia alla maggioranza, rivendicando la propria impotenza. La maggioranza chiama in causa un sempre fantomatico Sistema, lamentando la
propria impotenza (“governare gli italiani non è difficile, è
inutile”, Giolitti o Mussolini a seconda della vulgata), e poi si
appella all’arbitrato del Preside(nte) della Repubblica. Il Presidente è
quasi impotente per via istituzionale, ma la richiesta di una
sua presa di posizione chiama spesso per chissà quale affinità quella
del papa, il quale, infatti, spesso interviene per mezzo dei propri
cardinali (attenzione! a propria volta spesso il papa è ovviamente et infallibilmente
impotente davanti alle macchinazioni dei cardinali), che a loro volta
(talmente parte in causa la Chiesa in via sostanziale negli affari
italiane da potersi permettere di non esserlo in via formale) non
possono consumarsi in altro che in una reprimenda.
Insomma, nessuno in Italia è mai parte in causa.
Al limite, siamo tutti parte lesa. Eppure, quei proletari erano andati
in visibilio quando il loro leader del momento riempiva l’ampolla con
le acque sacre del dio Po (adesso il dio si chiama internet). Quelle
casalinghe e quegli aspiranti manager col diploma di geometra
acquistato per corrispondenza l’avevano difesa a spada tratta, la
pagliacciata del “contratto con gli italiani” in diretta nazionale.
Quel ceto medio riflessivo, a furia di riflettere, si era dimenticato
di chiedere conto ai propri segretari della mancata risoluzione del
conflitto di interessi mentre erano al governo per ben due volte (per
tacere della Bicamerale).
Perché insomma in Italia, il Presidente del consiglio ostenta le stesse mani legate che all’ultimo disoccupato sembrano un motivo sufficiente per il vitalizio che non otterrà mai? Da dove viene, questo oceanico delirio d’impotenza?
Perché insomma in Italia, il Presidente del consiglio ostenta le stesse mani legate che all’ultimo disoccupato sembrano un motivo sufficiente per il vitalizio che non otterrà mai? Da dove viene, questo oceanico delirio d’impotenza?
Per provare a rispondere, dobbiamo trasferirci per
un attimo nel Seicento manzoniano, e cioè un “momento” appena
successivo all’Ottocento di Leopardi. I promessi sposi, se non
ci fosse il superiore cielo della Provvidenza, sarebbe tutto
schiacciato (come in effetti è) sotto quello dell’occupazione spagnola.
Se c’è un concetto che nel capolavoro manzoniano è umiliato in modo
così onnicomprensivo da poter alternativamente vestire i panni sia del
vizio che della virtù è quello di autodeterminazione. Autodeterminati
non sono Renzo e Lucia, che infatti non possono sposarsi. Non è libero
delle proprie azioni don Abbondio, e figuriamoci (“il povero curato non
c’entra; fanno i loro pasticci tra loro, e poi... se la cosa
dipendesse da me...”). Non lo sono i bravi rispetto a don Rodrigo, e
quest’ultimo è talmente un poveraccio nella categoria dei prepotenti –
così rozzo, superstizioso, grossolano – che si limita ad amministrare
un potere i cui limiti gli sono fisiologici. Non lo è fra’ Cristoforo,
la cui azione più risolutiva, nel finale, si limita allo sciogliere il
voto di castità di Lucia.
Meno che mai capace di autodeterminazione è poi il popolo nel suo unico momento di (finto) protagonismo: la rivolta milanese causata dai rincari del pane è la quintessenza della rabbia cieca e autodistruttiva. Insomma, del populismo.
Meno che mai capace di autodeterminazione è poi il popolo nel suo unico momento di (finto) protagonismo: la rivolta milanese causata dai rincari del pane è la quintessenza della rabbia cieca e autodistruttiva. Insomma, del populismo.
La peste, quella sì, è invece risolutiva. E l’autodeterminazione
della peste (se così si può dire) è a propria volta interessante per
due motivi. Da una parte non è mai ozioso ricordare che l’epidemia, nei Promessi sposi,
la portano i Lanzichenecchi, cioè i mercenari tedeschi che
combattevano nella guerra di successione del Ducato di Mantova: la
soluzione, insomma, arriva dall’esterno. Se volessimo risalire
ancora indietro nei secoli, potremmo per esempio dire che la peste è
una forma (un’orrenda forma, l’ennesima incarnazione mai del tutto
risolutiva) del veltro-Montefeltro di cui Dante parla nel I Canto dell’Inferno. E viene poi addirittura dall’Esterno,
la peste manzoniana, se è uno dei nomi con cui la Provvidenza può
occasionalmente travestirsi. Se infine (per non lasciare all’Italia come
unica possibilità l’intervento divino) volessimo imbarcarci nell’arduo
ma forse non del tutto sterile tentativo di secolarizzare la
Provvidenza stessa, ricorderemo che l’ultima redazione dei Promessi sposi
si conclude nel 1842, a meno di vent’anni dall’Unità d’Italia. Esiste
insomma una speranza al di qua del cielo: viaggia sul motore della
Storia, è praticamente dietro l’angolo.
Quando tuttavia Federico De Roberto pubblica I Viceré – romanzo che, per fedeltà d’affresco, è forse secondo solo ai Promessi sposi,
e ci sarebbe da discuterne – è ormai il 1894. Dall’Unità d’Italia sono
passati trent’anni, e ai più avvertiti è chiaro che il Risorgimento
non ha avuto e non sta avendo chissà che effetti palingenetici.
L’intento di De Roberto era quello di raccontare, proprio a cavallo del
passaggio dai borboni all’Unità, la “storia d’una gran famiglia
(siciliana, gli Uzeda sono di Catania) la quale deve essere composta di
quattordici o quindici tipi, tra maschi e femmine, uno più forte e
stravagante dell’altro. Il primo titolo era Vecchia razza: ciò dimostri l’intenzione ultima, che dovrebbe essere il decadimento fisico e morale d’una stirpe esausta”.
La stirpe esausta che invece De Roberto finisce
per raccontare attraverso gli Uzeda, è quella degli italiani tutti.
Mai, in un romanzo, la lotta fratricida, la cupidigia, la dissolutezza
morale, il trasformismo erano stati raccontati con tanta ferocia (una
ferocia che ad esempio non ha Il Gattopardo) e mancanza di
prospettive. De Roberto, a differenza di Manzoni, non ha davanti
neanche il fantasma benigno dell’evento storico che al contrario si è
appena consumato – e anche in fondo se l’avesse, gli basterebbe forse
frugare negli intestini di una qualunque famiglia agiata della sua
terra per capire come gli italiani covino in sé, da qualche secolo, un
tale seme degenerativo che solo un fatto storico così potente da
assumere le sembianze dell’evento metafisico sarebbe in grado di
estirpare (un’epidemia? una rivoluzione? e in modo ancora più
rivoluzionario: la collettiva presa di coscienza di essere un popolo con
delle responsabilità e quindi, finalmente, con delle possibilità di
cambiamento?)
Ecco allora che al posto del tentennante don
Abbondio c’è il dissoluto padre Blasco: sboccato, donnaiolo, sempre
impegnato ad accumulare ricchezze e a seminare zizzania tra i parenti.
Ecco il trasformismo impetuoso di Consalvo e quello comico e mediocre
di don Gaspare (da sinistra a destra e da destra a sinistra a seconda
di come soffia il vento parlamentare). Ecco i raggiri sull’eredità
orditi a danno dei fratelli per tutto il romanzo da don Giacomo. Ecco
infine il millantatore che vive a scrocco (il Cavalier Eugenio), la
zitellona implacabile (donna Fernanda), l’amante del lusso e delle
belle donne (don Raimondo). E, tutti loro, devastati da una sete di
potere talmente arida e insulsa (uguale per intensità ma contraria per
essenza a quella di Faust e Macbeth) da risucchiarli nel proprio stesso
gorgo senza altri danni se non soprattutto quelli inferti a se stessi.
Quando esce Il Gattopardo siamo alla fine
degli anni cinquanta del Novecento. Con alle spalle l’Italia quasi un
secolo di storia (nonché un’opera come quella di De Roberto) dire che
“tutto cambi perché tutto resti com’è” sembrerebbe la scoperta
dell’acqua calda. Se non fosse che Il Gattopardo (così stilisticamente più elegante, ma così meno vasto, potente, mobile e ricco de I Viceré)
ha il merito di mettere ancora meglio a fuoco – con il nitore
dell’allegoria, o forse del correlativo oggettivo – qualcosa che
nell’opera di De Roberto si ottiene solo dalla somma delle parti. E cioè
il fatto che l’Italia (o meglio: gli italiani) sono un gioco a somma
zero. L’immagine in questione è offerta dal principe di Salina che
osserva il cosmo con il telescopio (il telescopio azimutale Merz, il
telescopio equatoriale di Lerebours & Secretan, il telescopio
altazimutale di Worthington che furono di Giulio Fabrizio Tomasi, il
bisnonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa a cui il protagonista del Gattopardo è
ispirato). Si potrebbe dire, come sembrerebbe suggerire il romanzo,
che don Fabrizio Salina osservi il cosmo per trovare una pace e
soprattutto una perfezione di cui la sua terra e il suo tempo così
mediocre sembrano essere l’assoluta smentita. Ma a scavare più a fondo,
quelle costellazioni – così fredde, lontane, perfette, immutabili –
sono anche una tremenda conferma della “vanità del tutto” di cui
l’Italia sembra a propria volta la più evidente incarnazione terrena.
Essere il popolo sostanzialmente più filosofico di tutto il mondo civilizzato (coloro che, senza nemmeno doversi prendere il disturbo di teorizzarlo nei libri, vivono come se tutto fosse vano) è uno dei fuochi che ancora ardono nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani che
Leopardi scrisse nel 1824. I francesi lo teorizzano con i loro grandi
filosofi, scrive Leopardi, ma gli italiani sono di fatto (fuori dalla
pagina, si potrebbe dire) più cinici dei francesi senza bisogno delle
speculazioni che la Francia regalò al Settecento d’Europa. Questo è
possibile perché all’ipertrofia di un carattere nazionale non
corrisponde né una nazione né un’idea di società. Gli italiani, scrive
Leopardi, non sentono il bisogno di controllarsi tra di loro (se non con
le armi dello scherno e della delazione); gli è sconosciuto cioè
quell’“onore” personale che è tale solo se te lo riconoscono anche gli
altri – a patto, quindi, che ogni singolo ispiri le proprie azioni alla
virtù condivisa. Ma una virtù condivisa e sanzionata socialmente, in
Italia non esiste. Tramontata l’età del mito, morto Dio e il timor di
Dio (e ancora, per estremizzare il concetto: non c’è bisogno delle
illuminazioni di Nietzsche in Engadina, poiché in Italia si fa
sostanzialmente a meno di Dio sin dal Seicento), soltanto il vincolo
sociale – ontologicamente fittizio, ma fondamentale – o al limite solo
la paura di un biasimo che trovi concorde il corpus civico può ispirare
le nostre azioni a qualcosa di costruttivo. Ma gli italiani “sono
continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri” con
una violenza, una ferocia e soprattutto una nulla stima di sé che
lascerebbe al tappeto il rappresentante di qualunque altro popolo
d’Europa ma non noi. Al contrario, per gli italiani una simile
inclinazione rischia di cronicizzarsi così tanto da diventare un asse
portante. Questo, nel 1824.
Per verificare quanto Tomasi di Lampedusa non
fosse nel torto, basti pensare a quanto il borbonico “facite ammuìna”
si reincarni stagionalmente a ogni nuovo dibattito pubblico nelle penne
dei “professionisti dell’opinione e dell’antiopinione”. Ma per capire
quanto De Roberto, e ancora più Leopardi avessero reso così bene
l’attitudine autodistruttiva che paradossalmente ci tiene in piedi (ma a
quale prezzo?) basta invece farsi un giro su internet. La Rete (non
solo in Italia, ma noi siamo campioni della specialità) sta diventando
nelle sue forme più degenerative un ricettacolo di delazioni, insulti e
rivendicazioni a basso costo (cioè senza quasi mai poterselo
permettere) che sembrano la più attuale ricrudescenza di quel
“deridersi in faccia gli uni e gli altri” di cui scriveva Leopardi. La
sostanziale mancanza – dentro e ovviamente fuori dal mondo virtuale –
di serie sanzioni sociali (e uno sberleffo non lo è) per i propri
piccoli o grandi atti di vandalismo, bullismo, irresponsabilità o
leggerezza, fa sì che questi si moltiplichino senza sosta, con la
novità che, come si diceva all’inizio, ci sentiamo tutti dalla parte
della ragione e, contemporaneamente, parte lesa.
Potrei fermarmi qui, e abbandonare il quadro alla
sua sconfortante evidenza. Eppure, se devo interrogare l’ottimismo
della volontà, credo di trovare in fondo al pozzo un paradossale motivo
di speranza nella necessità di considerare ogni singolo italiano
responsabile, e il popolo italiano invece parte lesa. Questa parte
lesa, dovremmo insomma immaginarla all’occasione come staccata dalle
nostre persone. È in nome di questa parte lesa – in disaccordo, spesso
anzi in vero conflitto con ogni singolo – che è sensato ingaggiare una
lotta. Il che significa oggi lottare anche contro se stessi.
Che il popolo italiano muova a pietà se non a
commozione, è difficile smentirlo. Quando mai è finito, infatti, il
Seicento di Manzoni? Quando mai, cioè, il nostro popolo ha vissuto un
genuino e nobile momento di protagonismo e autodeterminazione in grado
di infondergli fiducia? Non è accaduto nella seconda metà del XVI
secolo (abbiamo avuto una Controriforma senza il balsamo di una Riforma
– ricordo un passaggio molto bello di Aldo Busi sulla Bibbia di
Diodati, che avrebbe regalato agli italiani una lingua finalmente
affrancata dall’artificiosa padronalità curiale se non fosse stata
messa al bando). Non è accaduto con il Risorgimento (dove al massimo il
protagonismo tocca un’élite di massa) e solo in piccola parte con la
Resistenza. Per venire a eventi più recenti, basti pensare
all’entusiasmo con cui i singoli italiani (umiliando per l’ennesima
volta il popolo di cui fanno parte) hanno reagito a Tangentopoli
all’inizio degli anni novanta, invocando il cambiamento ma poi
delegando ogni cosa all’uomo della provvidenza (allora i giudici, più
tardi Berlusconi, e adesso cosa?)
È questo sentirsi insomma sempre fuori dai giochi,
sempre impotenti in prima persona, sempre alienati da un nobile
protagonismo, cioè da una seria e reale responsabilità – in attesa
perenne del veltro, della peste, dell’uomo della provvidenza, di un
altro che si pigli la responsabilità che non vogliamo assumerci per la
parte che ci compete, pretendendone però poi l’impossibile guadagno – è
questo, credo, uno dei peggiori difetti di noi individui italiani.
Si tratta di una colpa dalla quale, se può essere sollevata l’idea di un popolo, non dev’esserlo, invece, ogni singolo
– per il quale, nel proprio foro interiore, dovrebbe sempre pesare
l’onere della prova. Ognuno dovrebbe sentirsi chiamato a scardinare (a
distruggere in se stesso, dunque a trascendersi in un’ottica civile) ciò
che lo rende alieno alla comunità senza la quale il suo profilo
identitario pure andrebbe a disgregarsi. È attraverso la cruna di un
simile paradosso che abbiamo oggi il dovere di passare.
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