mercoledì 7 novembre 2012

L’Ottobre in una prospettiva storica di Alexander Höbel, Marx 21


Sebbene Zhou Enlai ritenesse, nel 1972, che fosse passato troppo poco tempo per trarre un bilancio della Rivoluzione francese, i 95 anni che ci separano dalla Rivoluzione d’Ottobre rendono plausibile, e per molti aspetti necessario, tentare di formulare un giudizio storico non tanto sull’evento in sé, quanto sul suo impatto sulla storia dell’ultimo secolo.
Per farlo non si può non partire da due punti: che cos’era la Russia – e che cos’era il mondo – prima del 1917, e quale è stato l’impatto sulla storia del secolo breve di un altro evento decisivo e altrettanto paradigmatico, ossia la Prima guerra mondiale. È da qui, credo, che si debba partire se si vuole acquisire fino in fondo la consapevolezza di ciò che l’Ottobre e quello che ne è seguito hanno rappresentato.
Nella Russia pre-rivoluzionaria lo zar era un “monarca assoluto”, che non doveva “rispondere delle proprie azioni a nessuno al mondo”, il suo potere era “autocratico e illimitato”; la servitù della gleba era stata abolita nel 1861, ma le riforme di Stolypin, spezzettando le comuni contadine, i mir, in piccolissimi appezzamenti privati, avevano riproposto un altro tipo di servitù, quella economica, determinata dall’aumento della polarizzazione tra contadini poveri (che spesso rivendevano il loro appezzamento) e contadini ricchi (kulaki), che accaparrandosi le terre dei primi accrescevano sempre più la propria posizione dominante nelle campagne. La rivoluzione democratica del 1905, benché avesse prodotto come risultato proprio le riforme di Stolypin, oltre che l’istituzione della prima Duma, aveva visto anche la nascita dei soviet, i Consigli degli operai, dei contadini e dei soldati.
Quanto al resto del mondo, all’alba del Novecento, vastissime regioni (tutta l’Africa, gran parte dell’Asia, l’Australia, il Canada e parte dell’America Latina) erano sottoposte a dominio coloniale diretto o a un’estesa penetrazione imperialistica, o facevano parte come protettorati o dominions dell’Impero britannico; in un paese come l’Italia, l’aspettativa media di vita non raggiungeva i 43 anni; in Francia, tra i paesi europei più avanzati, si approvava con grande clamore una legge che riduceva a 10 le ore di lavoro quotidiane1; il lavoro servile o addirittura schiavistico era ancora ampiamente diffuso; solo gradualmente sindacati e partiti operai riuscivano ad affermarsi e a vedere garantito il loro diritto a esistere; quanto al diritto di voto, era sottoposto a numerose restrizioni, perlopiù legate al censo: il suffragio universale esisteva solo in Nuova Zelanda.
È in questo contesto – e nel quadro di una crescente competizione inter-imperialistica che aveva già avuto diversi sbocchi militari (dalla guerra ispano-americana del 1898 a quella guerra russo-giapponese del 1905, dalle crisi marocchine del 1905 e del 1911 alle guerre balcaniche del 1912-13) – che la Prima guerra mondiale irrompe nella storia del secolo, segnandolo per sempre. I teorici della “guerra civile europea” – a partire dallo storico revisionista Ernst Nolte – hanno voluto attribuire alla Rivoluzione d’Ottobre e al bolscevismo la responsabilità di aver portato il conflitto sociale e ideologico alle sue estreme conseguenze, omettendo il piccolo particolare che prima della rivoluzione c’è la guerra, c’è il massacro imperialistico che coinvolge circa 70 milioni di soldati, producendo più di 9 milioni di morti, circa 30 milioni di feriti e quasi 8 milioni di prigionieri e dispersi. E il conflitto non è solo un’immane tragedia; è anche la prima guerra totale della storia, il che significa “tutto per il fronte”, mobilitazione di intere nazioni, un numero di vittime civili che ormai si avvicina a quello dei militari (lo supererà con la Seconda guerra mondiale), una centralizzazione assoluta del potere e delle decisioni, l’abitudine alla violenza, il perdere di valore della stessa vita umana.
Il fatto che la Rivoluzione nasca come risposta a questo contesto – quello di una Russia autocratica e drammaticamente ingiusta e arretrata sul piano sociale; quello di un mondo segnato dal colonialismo e dall’imperialismo; quello di un massacro immane a cui la stessa dinamica dell’imperialismo ha portato – va quindi sempre ribadito e sottolineato. E che le sue parole d’ordine fossero “terra, pane, pace, libertà”; che queste parole d’ordine le guadagnarono il sostegno di milioni di operai, contadini e soldati; e infine che esse si tradussero subito in decreti del governo dei soviet sono altri aspetti che non bisogna dimenticare.
D’altra parte, il fatto che la Rivoluzione fosse in qualche modo, come scrive Hobsbawm, “figlia della guerra”2, e che – sebbene i bolscevichi avessero perseguito in primo luogo la pace, anche a costo dei gravi sacrifici del Trattato di Brest Litovsk – alla guerra mondiale seguì subito per loro un altro conflitto armato, quella guerra civile fomentata e sostenuta anche dall’estero, con l’invio di truppe britanniche, francesi, statunitensi, giapponesi, polacche, cecoslovacche, serbe, greche e rumene; tutto ciò, accanto all’accerchiamento capitalistico che rimarrà una costante di tutta l’esperienza sovietica, al sorgere di regimi fascisti in molti paesi vicini, e infine alla minaccia aperta della Germania nazista, contribuì in modo decisivo a produrre quella fase dell’esperienza sovietica che è stata definita del Terrore: una fase che era stata già presente nella vicenda della Rivoluzione francese e che nel caso dell’Urss si riprodusse su scala allargata.
Oggi, sebbene la storiografia più onesta e avvertita metta in luce la complessità di tali problemi, gli avversari e i detrattori della Rivoluzione d’Ottobre e di tutta la vicenda storica che essa aprì continuano ad assolutizzare questi aspetti fino a identificare l’esperienza sovietica con il Gulag, dimenticando che i campi di internamento non sono stati certo inventati dall’Urss, ma fanno la loro prima apparizione in una situazione e con finalità molto diversi, ossia in un contesto coloniale, essendo istituiti dagli spagnoli nel corso della guerra d’indipendenza cubana (1896), per poi essere riproposti dagli Usa nelle Filippine e dalla Gran Bretagna in Sud Africa, poi durante la Prima guerra mondiale, e poi ancora in varie occasioni successivamente3.
Ma l’errore – o lo strumentalismo – sta soprattutto nel ridurre a tali aspetti, che pure vi sono stati e hanno pesato, quella che è stata un’esperienza storica imponente e straordinaria, che ha coinvolto milioni di uomini e donne, conseguendo risultati enormi, nella Russia sovietica e nel mondo intero. E allora vale la pena soffermarsi su questi risultati, anche in questo caso per tentare di inquadrare l’Ottobre e la vicenda sovietica in una prospettiva storica.
Il primo effetto rilevantissimo della Rivoluzione è stato quello di mostrare a tutti che il potere delle classi dominanti non è imbattibile, non è eterno e immutabile, ma può essere rovesciato; che nuove classi possono assumere la direzione della società e dello Stato. Né questo è solo un dato ideologico, ma al contrario è un elemento molto concreto dell’esperienza sovietica, laddove il potere, la “cosa pubblica”, erano gestiti da intellettuali rivoluzionari, ma anche e in misura sempre crescente da operai e contadini, e da figli di operai e contadini, che diventavano funzionari, dirigenti di partito, amministratori, dirigenti di fabbrica, quadri dell’esercito; un’ondata straordinaria di mobilità sociale che ha coinvolto milioni di persone. Certo, con tutta la difficoltà di un “processo di apprendimento”, per dirla con Losurdo, di dimensioni storiche4; con tutti i deficit di egemonia immaginabili rispetto a quella che nel resto del mondo era rimasta classe dominante con qualche secolo di esperienza in più5. E tuttavia mostrando nei fatti che anche “la cuoca può dirigere lo Stato”.
Accanto a questo, l’Ottobre e ciò che ne è seguito hanno reso evidente che un altro sistema economico, un’altra organizzazione della società sono possibili; che si può superare l’anarchia del mercato e pianificare l’economia; che si può socializzare la produzione; che beni e risorse possono essere ridistribuiti, ponendo il loro valore d’uso come prioritario rispetto al valore di scambio.
Ma gli effetti della Rivoluzione d’Ottobre sono andati ben oltre i confini dell’Urss. Il movimento di liberazione dei popoli e il processo di decolonizzazione che hanno caratterizzato la seconda metà del secolo, così come le altre rivoluzioni del Novecento, da quella cinese a quella cubana, non sarebbero stati possibili senza la rottura dell’Ottobre, senza quella prima breccia nel muro del dominio imperialistico. Se i paesi del Brics costituiscono la più importante novità economica e geopolitica degli ultimi anni, lo si deve quindi anche all’onda lunga della Rivoluzione.
E ancora: l’esistenza e la forza dell’Urss hanno consentito all’umanità di sconfiggere il mostro nazifascista, e a tale proposito vale la pena citare ancora Hobsbawm: “La vittoria dell’Unione Sovietica su Hitler fu il risultato del regime instaurato con la Rivoluzione d’Ottobre”6. La rottura del 1917 e l’esistenza dell’Urss, inoltre, hanno favorito l’affermarsi di nuovi diritti, i diritti sociali; hanno dato una spinta formidabile alle lotte dei lavoratori in tutto il mondo; hanno indotto il capitalismo a riformarsi costruendo importanti sistemi di Welfare. Non è un caso se dopo il 1991 i passi indietro su tutti questi fronti sono stati gravi e molteplici.
L’Ottobre infine è stato un banco di prova decisivo per quello sviluppo del pensiero marxista che va sotto il nome di leninismo. Il fatto che Lenin e i bolscevichi avessero “l’abilità di riconoscere ciò che le masse volevano”7, la sintonia tra quel gruppo dirigente e gli operai e i contadini mobilitatisi in quei mesi, non sono evidentemente casuali, ma frutto di un lungo lavoro di analisi della società russa, di un lungo lavoro di organizzazione e di un’adeguata strategia politica. Avversari e detrattori hanno cercato di ridurre il leninismo a una sorta di giacobinismo – o di blanquismo – del Novecento, ossia all’idea di un pugno di uomini che, approfittando di situazioni favorevoli, procede per colpi di mano sulla base della presunzione illuministica di sapere ciò che è bene per le masse. Questo però non è il leninismo, ma la sua caricatura. Benché infatti i bolscevichi tendessero a vedersi come i giacobini del XX secolo e sebbene nel processo rivoluzionario non sia mancata la necessità di surrogare con una forte e accentrata direzione politica una serie di pesanti limiti oggettivi e soggettivi (dal diffuso analfabetismo alla mancanza di una forte tradizione organizzativa del movimento operaio russo), la parte a mio parere più autentica del pensiero di Lenin sta proprio nella precisa indicazione di superare questi limiti, abbattere questi ostacoli, attraverso l’opera di educazione politica che egli affida al Partito già nel Che fare?, e attraverso quel “lungo lavoro di educazione”8, quell’intenso “lavoro culturale” di cui parla nei suoi ultimi scritti. La stessa idea di un apparato statale che non fosse composto da politici e funzionari – o, si direbbe oggi, tecnici – di professione, ma fosse invece un apparato di massa, radicato e diffuso, va in questa direzione; così come la proposta di istituire un Commissariato del popolo per l’Ispezione operaia e contadina, che egli lanciò nel 19239.
Nessun tardo-giacobinismo, dunque, ma l’idea di elevare la coscienza delle masse lavoratrici affinché esse stesse, in un processo di apprendimento lungo e tortuoso, che non può che occupare “un’intera epoca storica”10, possano porsi come nuova classe dirigente. In diversi paesi del mondo questo processo è in corso; la storia si è rimessa a camminare, anzi a correre. L’eredità dell’Ottobre, che ci fa pensare al passato con orgoglio, ci aiuta quindi anche a guardare al futuro con un po’ di ottimismo.

NOTE
1 E. Santarelli, Il mondo contemporaneo. Cronologia storica 1870/1974, Roma, l’Unità – Editori Riuniti, 1974, pp. 87-89.
2 E.J. Hobsbawm, Il Secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995, p. 71.
3 Cfr. D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1998; Id., Controstoria del liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 2005.
4 D. Losurdo, Utopia e stato d’eccezione. Sull’esperienza storica del socialismo reale, Napoli, Laboratorio politico, 1996; Id., Fallimento, tradimento, processo di apprendimento. Tre approcci nella lettura della storia del movimento comunista, “Quaderni dell’Ernesto toscano”, 2003, n. 3.
5 Su questo, si veda l’interessante volume di R. di Leo, L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Roma, Ediesse, 2012.
6 Hobsbawm, Il Secolo breve, cit., p. 19.
7 Ivi, p. 79.
8 V.I. Lenin, Rapporto sul programma del partito presentato all’VIII Congresso del Partito comunista (bolscevico) di Russia, marzo 1919, in Id., Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1965, pp. 1260-1261.
9 V.I. Lenin, Come riorganizzare l’Ispezione operaia e contadina [gennaio 1923], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1809-1813.
10 V.I. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico [aprile 1918], ivi, p. 1127.

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