C’era una volta
C’erano una volta i beni comuni: l’aria, l’acqua, il bosco, il fiume, la spiaggia, i pascoli, e persino i campi, che venivano dissodati e arati congiuntamente dalle comunità di villaggio. Nell’era moderna, il processo della loro appropriazione – e della esclusione di chi ne traeva il proprio sostentamento – è cominciato molto presto con le recinzioni (enclosure) dei pascoli in Inghilterra, che Marx pone a fondamento del meccanismo di accumulazione primitiva del capitale. Ed è proseguito nel tempo: molte delle rivoluzioni borghesi in Europa hanno messo capo a un processo analogo, per non parlare della conquista del West in Nordamerica, a spese delle popolazioni indigene, o del colonialismo, che ha globalizzato questa pratica.
Gli ultimi decenni, con il trionfo del liberismo e del cosiddetto “pensiero unico”, si sono svolti all’insegna della privatizzazione di tutto l’esistente – persino dell’aria, con le quote di emissione – e della stigmatizzazione di tutto quanto è comune o condiviso. Ma la musica sta cambiando e deve cambiare. In ogni caso la difesa dei beni comuni, che oggi è il denominatore comune di tanti conflitti sociali, non si configura come un ritorno al passato, quando non tutto era ancora mercificato, e per questo “privatizzato” in nome di un progresso che identifica efficienza e profitto. Certo, in molti casi – i più tipici sono quelli dell’acqua o delle aree protette – la difesa dei beni comuni si presenta a prima vista come una lotta contro la “novità” della loro privatizzazione. Ma è fin da subito evidente che l’esito di una difesa del genere non può essere un ritorno alla situazione precedente. Il bene “comune” verrà salvaguardato come tale solo se per esso si riuscirà a sviluppare una forma di gestione completamente nuova; sotto il controllo, anche se parziale e condiviso, e proprio per questo soggetto a continue revisioni, di coloro che si sono battuti contro la sua appropriazione privata, o di coloro che hanno accettato di rinunciare ad essa. La soluzione non può essere ridotta a una trasferimento del bene sotto il controllo dello Stato. La proprietà “pubblica” di un bene comune, soprattutto se intesa come proprietà dello Stato o di una sua articolazione territoriale, non offre di per sé alcuna garanzia di partecipazione, di condivisione, di comunanza, tra coloro che dovrebbero esserne i beneficiari.
Sono le modalità di esercizio del potere su un bene, del controllo sul suo uso e sulla ripartizione, attuale e nel tempo, dei vantaggi che esso può procurare, a definire le forme, anche giuridiche, esplicite o sottintese, secondo cui si dispone di esso. Per questo la connotazione di una risorsa come bene comune è indissolubilmente legata a forme di democrazia partecipativa che lo sottraggano tanto alla disponibilità di un privato quanto a quella di un apparato statale o di una sua struttura particolare. Il degrado e la rapacità delle imprese di Stato, o delle società a partecipazione pubblica (dall’Iri a Finmeccanica, dalle Ferrovie dello Stato alle SpA ex municipalizzate), sottratte a qualsiasi forma di controllo popolare, dimostrano in modo inconfutabile la divaricazione tra pubblico, nel senso di statale, e comune. Peggio ancora se si pensa di affidare a poteri più centralizzati (Regione o Stato), il compito di rimediare ai guasti nella gestione di un servizio pubblico locale perpetrati dai livelli decentrati dell’amministrazione.
“Comune” non è dunque la stessa cosa di “pubblico”: soprattutto se per pubblico si intende “statuale”. Il che inevitabilmente succede se si ritiene che il rapporto degli umani con un bene non possa assumere altra forma che quella del diritto di proprietà. Ma questa concezione non ha alcun fondamento storico; risponde a un approccio giuridico tradizionale e sbarra la strada a qualsiasi percorso alternativo allo stato di cose presente. Per questo è necessario andare più a fondo nella concettualizzazione del termine.
La teoria dei beni comuni
I beni comuni non possono essere considerati una categoria merceologica, e nemmeno essere ridotti alle sole risorse naturali indispensabili alla vita, come l’acqua, l’aria, la biodiversità, ecc. Tuttavia, l’estensione del concetto va realizzata con cautela. Stefano Rodotà, che da tempo si occupa della materia, ha messo in guardia contro una recente tendenza a estendere la categoria di “bene comune” a cose che per loro natura non lo sono. Questa tendenza è riconducibile al tentativo di associare questioni che sono comunque al centro di una mobilitazione o di uno scontro politico a una battaglia che recentemente ha avuto il suo punto di forza nel risultato del referendum contro la privatizzazione dell’acqua. Tipico da questo punto di vista è la parola d’ordine lanciata dalla Fiom oltre due anni fa secondo cui “il lavoro è un bene comune”.
Propriamente parlando il bene comune è una risorsa dalla cui fruizione non può essere escluso nessuno, pena la privazione, per la persona esclusa, di una componente essenziale dei suoi diritti di uomo e di cittadino. Così, nel mondo moderno, accanto a risorse che sono condizioni essenziali della vita e della sua riproducibilità, come le già citate acqua e aria, si possono porre prodotti artificiali, come l’accesso all’energia elettrica, alla mobilità, ai servizi sanitari, o a manifestazioni delle facoltà superiori dell’uomo come l’informazione, la cultura, l’arte, ecc. Ma a garanzia di questa non esclusione dalla fruizione devono intervenire forme di gestione del bene incompatibili tanto con la proprietà privata – per lo meno fino aala soglia al di sotto della quale l’accesso al bene è un’esigenza vitale o un diritto irrinunciabile – quanto con la mera proprietà pubblica, intesa come proprietà dello Stato o di una sua articolazione. La quale riproduce, a un livello più alto, tutte le potenzialità di esclusione proprie della proprietà privata. La gestione dei beni comuni deve essere una gestione condivisa: nel senso che tutti i potenziali fruitori possono – non necessariamente devono – partecipare alle decisioni relative al modo in cui il bene viene utilizzato o fruito.
Le modalità di questa condivisione possono essere le più varie e differenziarsi tra loro: sia in base alle circostanze storiche – la riappropriazione collettiva di una risorsa come bene comune è sempre un work-in-progress, mai completamente compiuto – sia alle caratteristiche del bene e delle forme prevalenti della sua fruizione, sia al livello di competenza e di maturità sociale e culturale di quella parte della cittadinanza che ne rivendica l’esercizio.
Recenti studi, a partire da quello pionieristico de premio Nobel Elinor Ostrom, passando, in Italia, per i nomi di Stefano Rodotà, Ugo Mattei e Alberto Lucarelli, hanno cercato di dare fondamento e consistenza giuridica a questa forma di gestione che esclude – o mette in secondo piano – la proprietà; ma l’indagine storica, valgano per tutte quelle della Ostrom, “mirate” sul tema, dimostra che la gestione condivisa di un bene comune è una pratica antica e ben nota in una pluralità di comunità etniche e storiche e che essa, per l’appunto, varia nei modi e nelle regole, a seconda del contesto storico sociale e del bene in questione. Se accettiamo questo approccio, è chiaro che la categoria dei beni comuni non esclude a priori nessuna delle risorse materiali o spirituali che occupano il panorama della vita moderna; ma anche che l’inclusione di una risorsa nella categoria dei beni comuni dipende strettamente dal grado in cui si è affermata la pratica o la rivendicazione, di una sua gestione comune e condivisa; o, per lo meno, una diffusa convinzione che così deve essere. Ed è altresì chiaro che questa questione è il nocciolo duro di uno scontro in corso a livello planetario, che assume le forme più diverse nei diversi contesti; ma che vede ovunque contrapporsi, da un lato, l’approccio liberista, che vede nella privatizzazione del controllo e della gestione delle risorse le condizioni irrinunciabili di un loro uso efficiente e produttivo; e, dall’altro, le varie forme di resistenza a questo “pensiero unico”.
Queste ultime scartano come non decisiva la contrapposizione tra pubblico e privato, e tra Stato e mercato – anche sulla base delle esperienze negative che la mera “nazionalizzazione” o statalizzazione delle risorse e delle attività produttive ha dato di sé: sia nei paesi del blocco comunista a economia pianificata, che in molte esperienza realizzate nel corso del secolo scorso in Occidente – e vedono invece nella riappropriazione condivisa di una serie di risorse e di attività le condizioni essenziali di una gestione democratica tanto del potere che delle attività economiche fondamentali.
Beni comuni e bene comune
Per tutte queste ragioni occorre distinguere nettamente tra il concetto di “bene comune”, senza ulteriori determinazioni, e quello di “beni comuni”; che può anche essere declinato al singolare come bene comune, ma solo se riferito a entità specifiche e circoscritte, anche se globali e diffuse: come lo sono per esempio l’acqua, l’atmosfera, l’informazione, i saperi, la scuola, ecc. “Bene comune” rinvia a una concezione armonica e unitaria della società, dei suoi fini ultimi, dei suoi interessi, della convivenza. Il tema dei beni comuni rimanda invece al conflitto: contro l’appropriazione, o il tentativo di appropriarsi, di qualcosa che viene sottratto alla fruizione di una comunità di riferimento. Una comunità che non include mai tutti, perché si contrappone comunque a chi – singolo privato o articolazione dello Stato – da quel bene intende trarre vantaggi particolari, escludendone altri. In questa accezione il rapporto con i beni comuni comporta, sia nella rivendicazione che nell’esercizio di un diritto acquisito, forme di controllo diffuso e di partecipazione democratica alla loro gestione o ai relativi indirizzi che integrino le forme ormai sclerotizzate della democrazia rappresentativa.
Il concetto di “beni comuni” ha comunque relativamente poco a che fare con quello del “Comune” di cui scrivono Negri e Hardt. Questo “Comune” non è che l’ultima versione di una soggettivazione totalizzante del reale che nel corso del tempo ha attraversato, negli scritti di Negri, una successione di figure: Classe Operaia, “operaio massa”, “operaio sociale”, “moltitudine”, per approdare, per ora, al “Comune”. È un’entità autoreferenziale, che “gioca con se stessa”, producendo il proprio antagonista – la Classe Operaia “sviluppa” il Capitale; la moltitudine “crea” l’Impero, ecc. – per poi riassorbirlo in un movimento dialettico dall’esito precostituito. Le lotte per i beni comuni, invece, non hanno esiti certi e meno che mai predeterminati: anzi, il rischio a cui sono esposte – e insieme ad esse, coloro che se ne fanno protagonisti e l’umanità tutta – è di giorno in giorno maggiore.
La lotta contro l’appropriazione
Seguendo questo approccio, ci soffermeremo su alcuni nodi fondamentali che interessano tanto i processi di realizzazione quanto la rivendicazione di una gestione condivisa dei beni comuni:
1. La prima osservazione è questa: l’idea di una gestione condivisa dei beni comuni ha nel mondo contemporaneo una matrice libertaria, “di sinistra”, o addirittura di estrema sinistra. Ma la realizzazione della gestione condivisa non è né di destra né di sinistra: ad essa può partecipare chiunque, indipendentemente dai suoi orientamenti, e la gestione condivisa è per l’appunto un’arena dove le diverse ipotesi o soluzioni proposte si confrontano. Chi l’ha proposta e ha lottato per la sua affermazione può poi ritrovarsi in minoranza tra i soggetti che partecipano poi alla sua realizzazione;
2. A confronto avremo sempre e comunque una concezione processuale e una concezione statutaria del bene comune. La concezione statutaria punta a definire fin dall’inizio le regole della gestione e a promuovere sulla loro base la partecipazione; la concezione processuale punta invece innanzitutto al coinvolgimento di una platea quanto più ampia possibile dei soggetti potenzialmente interessati alla gestione del bene, con una particolare attenzione a dare voce ai soggetti esclusi o marginali, contando che le regole di funzionamento si possano definire – e correggere – in corso d’opera. Nessuno di questi due approcci è valido a priori; vanno commisurati al contesto operativo e combinati sulla base degli esiti del processo, facendo comunque attenzione a che la rigidità delle regole non soffochi il processo di coinvolgimento, che non avviene mai secondo moduli prestabiliti;
3. Possiamo scandire il processo del coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati alla gestione condivisa di un bene comune in tre stadi. L’ultimo, il più definito, è quello della democrazia deliberativa. Si decide secondo regole certe gli indirizzi da dare alla gestione del bene e questi, se il bene è formalmente di proprietà pubblica, devono essere fatti propri dall’autorità o dall’amministrazione competente, sotto il controllo dei soggetti che hanno preso parte alla deliberazione, e di altri che si possono aggiungere in seguito. Lo stadio intermedio è quello del confronto tra le diverse ipotesi e soluzioni proposte. La difficoltà è che non siamo abituali a farlo: secoli di espropriazione del potere deliberativo ci hanno resi intolleranti e incapaci di ricorrere all’arma della persuasione (la verifica più grottesca di questo dato sono, per chi ne ha esperienza, le assemblee condominiali). Da questo punto di vista la partecipazione a un processo di gestione condivisa di un bene – o anche solo della sua rivendicazione – è per tutti una scuola di democrazia e di tolleranza. Ma la prima fase è forse la più difficile: molti soggetti, improvvisamente coinvolti in un processo di partecipazione, e abituati a considerare la propria esclusione una condizione “naturale”, non riescono per un tempo più o meno lungo ad attenersi al tema: hanno bisogno di sfogarsi, di “vomitare” in pubblico le proprie frustrazioni, di sentirsi accolti e rispettati. Guai a considerare questa fase una perdita di tempo: è un prerequisito fondamentale della democrazia partecipativa;
4. La partecipazione di chi rivendica o cerca di attuare una gestione condivisa di un bene è, e nella società contemporanea resterà per lungo tempo, un processo conflittuale: uno scontro quotidiano e serrato contro chi aspira all’appropriazione privata o una gestione pubblica puramente amministrativa del bene, o la ha già realizzata, o la sostiene. I processi partecipativi sono per l’appunto il terreno dove si costruisce e si consolida la forza e l’organizzazione per opporsi a una gestione privata o escludente;
5. Nei processi partecipativi, e fino a che non è stato formalizzato e accettato un sistema di regole, non si vota: a partecipare non è mai la totalità dei soggetti interessati e chi partecipa non può pretendere di rappresentarli. Partecipa perché ha un’idea, un’esperienza, una competenza, un saper fare, da far valere e da mettere a disposizione degli altri. Se non si raggiunge il consenso di una larghissima maggioranza si dovrà riproporre il confronto a partire da una base più ampia: di carattere territoriale (coinvolgendo altri soggetti) o settoriale (introducendo nuove tematiche) in modo da scompaginare gli schieramenti precostituiti. Se l’accordo non viene comunque raggiunto si apre il conflitto: le diverse tesi in campo cercheranno di far valere le loro ragioni al di fuori del contesto partecipativo, fino a che la modificazione dei rapporti di forza non permetteranno di riaprire il confronto su basi diverse;
6. La democrazia partecipativa e la gestione condivisa dei beni comuni si costruiscono sui saperi (tecnici e sociali) diffusi tra la popolazione; ma sono al tempo stesso una scuola straordinaria per approfondire, promuovere e diffondere questi saperi;
7. La riappropriazione condivisa di un bene comune, anche del più generale e diffuso, come l’atmosfera – per preservarla dal sovraccarico di gas di serra – o la cultura – per renderla accessibile a tutti – è un processo che richiede e al tempo stesso promuove la “territorializzazione” dei processi; il riavvicinamento tra produzione e consumo, tra utenza e gestione. Certo questo processo non riguarda la mera informazione – i bit, che circolano liberamente su tutto il globo – ma riguarda gli atomi: la gestione concreta di risorse, impianti, strutture, istituzioni, spettacoli, ecc. La condivisione è tanto più forte quanto più è basata su rapporti diretti e relazioni di prossimità;
8. Al di là dell’acqua bene comune, oggi il terreno fondamentale dello scontro tra privatizzazione e gestione condivisa è costituita dai servizi pubblici locali. Costituire a livello territoriale (quartiere, circoscrizione, città, area vasta; ma anche condominio o compound) delle sedi dove gli indirizzi dei servizi pubblici locali vengano affrontati e discussi in una prospettiva di gestione condivisa è un’attività in cui tutti possono impegnarsi.
Fruizione e consumo condivisi
Le forme di fruizione condivisa di un bene comune, nella misura in cui riescono a imporsi come modalità organizzata di gestione dei beni e dei servizi prodotti, ribalta la gerarchia del comando, perché, attraverso la determinazione delle modalità di erogazione dei servizi e di fornitura dei beni, può arrivare a condizionare, in un processo di cooperazione allargato, anche le modalità in cui i beni e i servizi stessi vengono prodotti.
Fruizione condivisa è cosa del tutto differente da consumo di massa, che è quello attraverso cui una molteplicità – o una “moltitudine” – di individui viene coinvolta, ciascuno per conto suo, in forme di consumo esercitate congiuntamente. La motorizzazione di massa rappresenta forse il culmine del consumo individuale serializzato; il trasporto pubblico, soprattutto se personalizzato con servizi a domanda, o il car-sharing, sono invece forme di autorganizzazione dei consumatori che definiscono a loro volta le modalità di erogazione del servizio. Un concerto rock è una forma vistosa di consumo di massa; uno spettacolo teatrale costruito attraverso il coinvolgimento di attori, pubblico, personale tecnico, autori e registi, è una forma di cooperazione nella produzione che si traduce in consumo collettivo. La moda è la più evidente forma di consumo di massa nato dalla giustapposizione di scelte individuali imposte dall’esterno; i GAS, gruppi di acquisto solidale (o, in forma più mediata, il commercio equo e solidale) sono esempi importanti del recupero di una sovranità dei consumatori attraverso la cooperazione più o meno diretta con il mondo produttivo. Tendenzialmente, alcune di queste pratiche invertono i termini del problema: si produce quello che i consumatori chiedono, concordandolo tra loro e con i produttori, invece di consumare quello che produttori e distributori impongono.
Il consumo in forma condivisa ha costi di transazione molto elevati, perché richiede tempo e risorse, soprattutto cognitive, per raggiungere un punto di accordo tra i potenziali fruitori, e tra questi e uno, più, o tutti gli anelli della catena produttiva; ma si traduce per lo più in un risparmio di risorse, perché ne ottimizza l’uso ed esercita un controllo diretto per ridurre gli sprechi. Il consumo individuale ha costi di transazione apparentemente minori – il prodotto è lì, basta prenderlo e pagarlo – se non si includono tra questi i costi del marketing e della pubblicità, che fanno però parte del prodotto, perché concorrono alla definizione della sua immagine, della sua “aura”; così come il consumo condiviso definisce la natura di ciò che viene consumato – ma comporta la massimizzazione del consumo di risorse e degli sprechi per massimizzare le vendite e il profitto.
Questa osservazione confuta alla radice la tesi di Garrett Hardin sulla “Tragedia dei Commons” secondo cui solo la proprietà privata – le enclosures – ha potuto salvare qualità e fertilità dei suoli, così come di tutti gli altri beni, che sottoposti a un uso condiviso sarebbero invece andati in rovina per sovrasfruttamento. La visione di Hardin è basata su una gestione privatistica e competitiva dei beni comuni che è un ossimoro, perché un bene in tanto è comune in quanto la sua gestione è sottoposta a un insieme di regole condivise finalizzate innanzitutto a preservarne e a potenziarne la qualità. Per esempio, i suoli e i boschi dell’Inghilterra oggetto di enclosure nel processo di accumulazione primitiva del capitale erano stati fino ad allora gestiti in comune dalle comunità di villaggio secondo regole che per secoli non ne avevano pregiudicato la produttività. Soltanto con l’affermarsi e la generalizzazione di una gestione privatistica e mercantile delle risorse anche ciò che restava di non giuridicamente appropriato è stato apposto a forme di utilizzo competitive che ne hanno causato una più o meno intensa rovina.
L’accento sui costi di transazione, che si traduce soprattutto in maggior impegno del fattore tempo, ci mette di fronte a una questione molto importante. Il consumo condiviso ci introduce a un universo basato sulla riappropriazione del nostro tempo; se ne deve dedicare meno al lavoro e agli impegni cosiddetti “sociali”, perché abbiano bisogno di averne di più per noi: per affrontare consapevolmente e risolvere i problemi che nascono dalla necessità di trovare – di negoziare – un punto di equilibrio tra interessi e valori che possono essere contrastanti. La lentezza riprende così gradualmente il sopravvento sulla fretta.
Beni comuni e lotta di classe
Ma a che cosa dobbiamo la rilevanza che il tema dei beni comuni ha assunto e sta sempre più assumendo nel discorso e nella prassi politica degli ultimi tempi? Per oltre due secoli, e tanto più quanto più la produzione di massa richiedeva la concentrazione intorno agli stessi impianti di un numero altissimo di addetti, le fabbriche e le coalizioni dei produttori – intesi come i lavoratori impegnati nella fabbricazione di un bene o nella erogazione di un servizio – sono state la sede privilegiata delle scelte collettive, e della ricomposizione di una nuova comunanza, di lotta, ma anche di cultura e di vita, di fronte all’atomizzazione, alla dispersione e alla frantumazione delle comunità tradizionali indotte dai meccanismi di mercato.
Oggi forse non è più così: l’evoluzione degli assetti produttivi (imprese a rete, delocalizzazioni e precarizzazione del lavoro) spingono verso una crescente polverizzazione e frantumazione delle concentrazioni produttive – anche se la permanenza dei precedenti assetti continua a esercitare un ruolo di primaria importanza – mentre la rivalutazione dei “beni comuni” come forma di fruizione condivisa del territorio, dei servizi, ma anche di alcuni beni di consumo irriducibilmente “individuali” come l’alimentazione, il vestiario o l’abitare, indica in questa riscoperta una – se non “la” – sede privilegiata di una ricomposizione della solidarietà e di una vita ricca di legami sociali. Uno spostamento del centro dell’attenzione dalle sedi della cooperazione produttiva nei luoghi di lavoro alle modalità di una fruizione collettiva dei beni e dei servizi prodotti induce a una riconsiderazione del ruolo del consumo nelle forme in cui si struttura l’organizzazione della società e nella definizione dei conflitti che la animano e la plasmano.
Il consumatore individuale non è mai sovrano, perché soggiace al potere incondizionato che l’impresa esercita sul mercato; e questa sua debolezza intrinseca è la fonte e la condizione stesse del dominio che l’impresa esercita anche sul mondo della produzione, cioè sulle forme della cooperazione sociale in cui si concretizza l’organizzazione del lavoro. Che rapporto passa allora tra il conflitto sociale che ha una delle sue leve nelle mobilitazioni per i beni comuni e la lotta di classe tra lavoro e capitale? La lotta di classe, come ancora recentemente ha ben documentato Luciano Gallino (se mai ce ne fosse stato bisogno), è ben viva e oramai estesa su tutto il pianeta. È soprattutto la lotta contro i lavoratori sferrata dal capitale finanziario, commerciale e industriale, a cui la globalizzazione ha messo in mano, oltre alle forme tradizionali di sfruttamento dei lavoratori dalla testa alle braccia, anche l’arma delle delocalizzazioni: per poter tagliare, dalle gambe in su, loro l’erba sotto i piedi in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. È difficile anche solo immaginare che i lavoratori di tutto il mondo possano ricostituire in tempi adeguati collegamenti, organizzazioni o reti sufficientemente estese per contrastare, al suo stesso livello, questo attacco globale.
Da tempo le lotte dei lavoratori hanno per lo più una dimensione ristretta, aziendale o di categoria, quando non di reparto; raramente nazionale e mai transnazionale. E anche quando assumono forme offensive, il che non succede spesso, difficilmente riescono, soprattutto nei paesi di consolidata industrializzazione come il nostro, a spuntare risultati che non siano di mero contenimento dell’aggressione alle proprie condizioni di lavoro, di reddito e di vita. Quella corsa al ribasso che costituisce la sostanza e il motore della globalizzazione liberista può essere fermata solo sottraendo il lavoro – a pezzi e bocconi – ai diktat di una competizione senza limiti: con un processo, o una serie di processi, di conversione ecologica del sistema produttivo che rimetta al centro, insieme alla sopravvivenza del pianeta, produzioni orientate alla soddisfazione dei bisogni basilari e al miglioramento delle forme di convivenza delle comunità di riferimento: cioè i beni comuni. Per questo il conflitto sociale per i beni comuni costituisce il supporto e lo sbocco indispensabile di un ripresa offensiva della lotta contro lo sfruttamento del lavoro.
Il rapporto con il territorio
Certamente, molte volte, l’istanza della difesa dei beni comuni sconfina e sembra confondersi con una difesa particolaristica del proprio “cortile” con quello a cui politici e commentatori affibbiano sprezzantemente l’etichetta “nimby”. Ma quel “cortile” si fa in realtà sempre più grande; a volte, come nel caso dell’acqua o dell’atmosfera, di dimensioni planetarie; e le ragioni di chi lo difende si dimostrano ogni giorno – valgano per tutti, in Italia, casi come quelli delle lotte contro il TAV Torino-Lione, il Mose di Venezia, il Ponte sullo stretto di Messina, o la base Usa di Vicenza – più serie, documentate, approfondite di quelle dei loro avversari, che sono contraddittorie, autolesioniste e soprattutto superficiali: “primato del mercato”; “modernizzazione”; “difesa dell’Occidente”; “rapporto con l’Europa”, ecc. E che servono soprattutto per mascherare interessi e accordi speculativi eincinfessabili.
La democrazia dal basso e lo spazio pubblico che si sono sviluppati in contesti come questi sono invece basati su, e corroborati da, una conoscenza dei problemi, dei costi e dei benefici delle soluzioni proposte, da una fiducia reciproca nelle proprie forze e nel proprio impegno che hanno le loro basi in una varietà d saperi tecnici e gestionali diffusi nel territorio e disseminati tra la popolazione. Le nuove forme di partecipazione – o le nuove rivendicazioni di partecipare – ai processi decisionali sono indisgiungibili dal “bene comune” conoscenza.
La difesa dei beni comuni allude così, e conduce, a un rapporto con le cose, con il mondo degli oggetti, con l’ambiente fisico in cui viviamo, meno strumentale, meno cinico, meno finalizzato a un mero funzionalismo (quello per cui una cosa, qualsiasi cosa, vale solo finché e in quanto ci serve, e poi va gettata via), per includere una dimensione affettiva, emotiva, estetica: dalla difesa del paesaggio alla lotta contro gli OGM e i cibi adulterati, dalla salvaguardia dei prodotti, dell’alimentazione, dei saperi e del saper fare tipici o tradizionali ai gruppi di acquisto solidali, dal recupero dell’usato alla promozione del riciclaggio. E’ questa una dimensione che le regole del mercato e del profitto hanno largamente espunto dal mondo e che costituisce invece una componente essenziale della salvaguardia della salute, nostra e altrui, di questa come delle future generazioni.
Beni comuni e “spazio pubblico”
Queste dimensioni sono tanto più presenti e consapevoli quanto più le iniziative hanno o partono da una dimensione locale, che si basa su una conoscenza articolata del territorio e su una rete consolidata di relazioni sociali – una “risorsa cognitiva” che i grandi progetti ignorano per vocazione, ma che costituisce una componente irrinunciabile di una progettualità sostenibile: “Pensare globalmente e agire localmente”.
A loro volta, le iniziative che si sviluppano a partire da una dimensione locale sono la fonte principale di creazione e di consolidamento di nuovi e più forti legami sociali: di comunità costruite e legittimate non dalla consuetudine o dalla tradizione, ma dalla condivisione di obiettivi e prospettive comuni. La lotta lunghissima degli abitanti della Val di Susa è l’esempio migliore di questa dimensione comunitaria costruita attraverso la prassi. Legame sociale significa spazio pubblico – anche fisico, cioè strade, viali, piazze, giardini sottratti all’invasione delle automobili – a disposizione per l’incontro, per il confronto, e anche per il conflitto tra soggetti diversi per genere, età, cultura, tradizioni, abitudini, ricchezza, ruoli professionali e sociali, idee: la base indispensabile del rispetto reciproco, che è la sostanza dei diritti umani e il presupposto irrinunciabile di una democrazia che non sia solo parvenza; La democrazia rappresentativa e i suoi istituti non sono più sufficienti a offrire soluzioni ai problemi della società perché le rappresentanze istituzionali non rappresentano più nessuno e si sono sclerotizzate in apparati che ricordano da presso la cosiddetta “nomenclatura” dei paesi del fu impero sovietico.
Se le prospettive di un’autogestione dei produttori sono tramontate per sempre, perché coinvolgono programmaticamente una parte sempre più ristretta della società, ma soprattutto perché rischiano continuamente di riprodurre nei rapporti reciproci tra le diverse entità autogestite i rapporti di competizione tipici del mercato, un’integrazione e un arricchimento dei meccanismi propri della democrazia formale non possono realizzarsi che attraverso processi negoziali – che non escludono e, anzi, presuppongono il conflitto, ma anche la sua temporanea conciliazione e una sua sempre rinnovata riproposizione – in cui le singole componenti, i cosiddetti stakeholder, possano valorizzare e far valere il patrimonio di esperienza e di competenze di cui sono portatori. E’ un percorso in divenire che non ha un punto di approdo perché la democrazia vive attraverso la sua pratica.
C’erano una volta i beni comuni: l’aria, l’acqua, il bosco, il fiume, la spiaggia, i pascoli, e persino i campi, che venivano dissodati e arati congiuntamente dalle comunità di villaggio. Nell’era moderna, il processo della loro appropriazione – e della esclusione di chi ne traeva il proprio sostentamento – è cominciato molto presto con le recinzioni (enclosure) dei pascoli in Inghilterra, che Marx pone a fondamento del meccanismo di accumulazione primitiva del capitale. Ed è proseguito nel tempo: molte delle rivoluzioni borghesi in Europa hanno messo capo a un processo analogo, per non parlare della conquista del West in Nordamerica, a spese delle popolazioni indigene, o del colonialismo, che ha globalizzato questa pratica.
Gli ultimi decenni, con il trionfo del liberismo e del cosiddetto “pensiero unico”, si sono svolti all’insegna della privatizzazione di tutto l’esistente – persino dell’aria, con le quote di emissione – e della stigmatizzazione di tutto quanto è comune o condiviso. Ma la musica sta cambiando e deve cambiare. In ogni caso la difesa dei beni comuni, che oggi è il denominatore comune di tanti conflitti sociali, non si configura come un ritorno al passato, quando non tutto era ancora mercificato, e per questo “privatizzato” in nome di un progresso che identifica efficienza e profitto. Certo, in molti casi – i più tipici sono quelli dell’acqua o delle aree protette – la difesa dei beni comuni si presenta a prima vista come una lotta contro la “novità” della loro privatizzazione. Ma è fin da subito evidente che l’esito di una difesa del genere non può essere un ritorno alla situazione precedente. Il bene “comune” verrà salvaguardato come tale solo se per esso si riuscirà a sviluppare una forma di gestione completamente nuova; sotto il controllo, anche se parziale e condiviso, e proprio per questo soggetto a continue revisioni, di coloro che si sono battuti contro la sua appropriazione privata, o di coloro che hanno accettato di rinunciare ad essa. La soluzione non può essere ridotta a una trasferimento del bene sotto il controllo dello Stato. La proprietà “pubblica” di un bene comune, soprattutto se intesa come proprietà dello Stato o di una sua articolazione territoriale, non offre di per sé alcuna garanzia di partecipazione, di condivisione, di comunanza, tra coloro che dovrebbero esserne i beneficiari.
Sono le modalità di esercizio del potere su un bene, del controllo sul suo uso e sulla ripartizione, attuale e nel tempo, dei vantaggi che esso può procurare, a definire le forme, anche giuridiche, esplicite o sottintese, secondo cui si dispone di esso. Per questo la connotazione di una risorsa come bene comune è indissolubilmente legata a forme di democrazia partecipativa che lo sottraggano tanto alla disponibilità di un privato quanto a quella di un apparato statale o di una sua struttura particolare. Il degrado e la rapacità delle imprese di Stato, o delle società a partecipazione pubblica (dall’Iri a Finmeccanica, dalle Ferrovie dello Stato alle SpA ex municipalizzate), sottratte a qualsiasi forma di controllo popolare, dimostrano in modo inconfutabile la divaricazione tra pubblico, nel senso di statale, e comune. Peggio ancora se si pensa di affidare a poteri più centralizzati (Regione o Stato), il compito di rimediare ai guasti nella gestione di un servizio pubblico locale perpetrati dai livelli decentrati dell’amministrazione.
“Comune” non è dunque la stessa cosa di “pubblico”: soprattutto se per pubblico si intende “statuale”. Il che inevitabilmente succede se si ritiene che il rapporto degli umani con un bene non possa assumere altra forma che quella del diritto di proprietà. Ma questa concezione non ha alcun fondamento storico; risponde a un approccio giuridico tradizionale e sbarra la strada a qualsiasi percorso alternativo allo stato di cose presente. Per questo è necessario andare più a fondo nella concettualizzazione del termine.
La teoria dei beni comuni
I beni comuni non possono essere considerati una categoria merceologica, e nemmeno essere ridotti alle sole risorse naturali indispensabili alla vita, come l’acqua, l’aria, la biodiversità, ecc. Tuttavia, l’estensione del concetto va realizzata con cautela. Stefano Rodotà, che da tempo si occupa della materia, ha messo in guardia contro una recente tendenza a estendere la categoria di “bene comune” a cose che per loro natura non lo sono. Questa tendenza è riconducibile al tentativo di associare questioni che sono comunque al centro di una mobilitazione o di uno scontro politico a una battaglia che recentemente ha avuto il suo punto di forza nel risultato del referendum contro la privatizzazione dell’acqua. Tipico da questo punto di vista è la parola d’ordine lanciata dalla Fiom oltre due anni fa secondo cui “il lavoro è un bene comune”.
Propriamente parlando il bene comune è una risorsa dalla cui fruizione non può essere escluso nessuno, pena la privazione, per la persona esclusa, di una componente essenziale dei suoi diritti di uomo e di cittadino. Così, nel mondo moderno, accanto a risorse che sono condizioni essenziali della vita e della sua riproducibilità, come le già citate acqua e aria, si possono porre prodotti artificiali, come l’accesso all’energia elettrica, alla mobilità, ai servizi sanitari, o a manifestazioni delle facoltà superiori dell’uomo come l’informazione, la cultura, l’arte, ecc. Ma a garanzia di questa non esclusione dalla fruizione devono intervenire forme di gestione del bene incompatibili tanto con la proprietà privata – per lo meno fino aala soglia al di sotto della quale l’accesso al bene è un’esigenza vitale o un diritto irrinunciabile – quanto con la mera proprietà pubblica, intesa come proprietà dello Stato o di una sua articolazione. La quale riproduce, a un livello più alto, tutte le potenzialità di esclusione proprie della proprietà privata. La gestione dei beni comuni deve essere una gestione condivisa: nel senso che tutti i potenziali fruitori possono – non necessariamente devono – partecipare alle decisioni relative al modo in cui il bene viene utilizzato o fruito.
Le modalità di questa condivisione possono essere le più varie e differenziarsi tra loro: sia in base alle circostanze storiche – la riappropriazione collettiva di una risorsa come bene comune è sempre un work-in-progress, mai completamente compiuto – sia alle caratteristiche del bene e delle forme prevalenti della sua fruizione, sia al livello di competenza e di maturità sociale e culturale di quella parte della cittadinanza che ne rivendica l’esercizio.
Recenti studi, a partire da quello pionieristico de premio Nobel Elinor Ostrom, passando, in Italia, per i nomi di Stefano Rodotà, Ugo Mattei e Alberto Lucarelli, hanno cercato di dare fondamento e consistenza giuridica a questa forma di gestione che esclude – o mette in secondo piano – la proprietà; ma l’indagine storica, valgano per tutte quelle della Ostrom, “mirate” sul tema, dimostra che la gestione condivisa di un bene comune è una pratica antica e ben nota in una pluralità di comunità etniche e storiche e che essa, per l’appunto, varia nei modi e nelle regole, a seconda del contesto storico sociale e del bene in questione. Se accettiamo questo approccio, è chiaro che la categoria dei beni comuni non esclude a priori nessuna delle risorse materiali o spirituali che occupano il panorama della vita moderna; ma anche che l’inclusione di una risorsa nella categoria dei beni comuni dipende strettamente dal grado in cui si è affermata la pratica o la rivendicazione, di una sua gestione comune e condivisa; o, per lo meno, una diffusa convinzione che così deve essere. Ed è altresì chiaro che questa questione è il nocciolo duro di uno scontro in corso a livello planetario, che assume le forme più diverse nei diversi contesti; ma che vede ovunque contrapporsi, da un lato, l’approccio liberista, che vede nella privatizzazione del controllo e della gestione delle risorse le condizioni irrinunciabili di un loro uso efficiente e produttivo; e, dall’altro, le varie forme di resistenza a questo “pensiero unico”.
Queste ultime scartano come non decisiva la contrapposizione tra pubblico e privato, e tra Stato e mercato – anche sulla base delle esperienze negative che la mera “nazionalizzazione” o statalizzazione delle risorse e delle attività produttive ha dato di sé: sia nei paesi del blocco comunista a economia pianificata, che in molte esperienza realizzate nel corso del secolo scorso in Occidente – e vedono invece nella riappropriazione condivisa di una serie di risorse e di attività le condizioni essenziali di una gestione democratica tanto del potere che delle attività economiche fondamentali.
Beni comuni e bene comune
Per tutte queste ragioni occorre distinguere nettamente tra il concetto di “bene comune”, senza ulteriori determinazioni, e quello di “beni comuni”; che può anche essere declinato al singolare come bene comune, ma solo se riferito a entità specifiche e circoscritte, anche se globali e diffuse: come lo sono per esempio l’acqua, l’atmosfera, l’informazione, i saperi, la scuola, ecc. “Bene comune” rinvia a una concezione armonica e unitaria della società, dei suoi fini ultimi, dei suoi interessi, della convivenza. Il tema dei beni comuni rimanda invece al conflitto: contro l’appropriazione, o il tentativo di appropriarsi, di qualcosa che viene sottratto alla fruizione di una comunità di riferimento. Una comunità che non include mai tutti, perché si contrappone comunque a chi – singolo privato o articolazione dello Stato – da quel bene intende trarre vantaggi particolari, escludendone altri. In questa accezione il rapporto con i beni comuni comporta, sia nella rivendicazione che nell’esercizio di un diritto acquisito, forme di controllo diffuso e di partecipazione democratica alla loro gestione o ai relativi indirizzi che integrino le forme ormai sclerotizzate della democrazia rappresentativa.
Il concetto di “beni comuni” ha comunque relativamente poco a che fare con quello del “Comune” di cui scrivono Negri e Hardt. Questo “Comune” non è che l’ultima versione di una soggettivazione totalizzante del reale che nel corso del tempo ha attraversato, negli scritti di Negri, una successione di figure: Classe Operaia, “operaio massa”, “operaio sociale”, “moltitudine”, per approdare, per ora, al “Comune”. È un’entità autoreferenziale, che “gioca con se stessa”, producendo il proprio antagonista – la Classe Operaia “sviluppa” il Capitale; la moltitudine “crea” l’Impero, ecc. – per poi riassorbirlo in un movimento dialettico dall’esito precostituito. Le lotte per i beni comuni, invece, non hanno esiti certi e meno che mai predeterminati: anzi, il rischio a cui sono esposte – e insieme ad esse, coloro che se ne fanno protagonisti e l’umanità tutta – è di giorno in giorno maggiore.
La lotta contro l’appropriazione
Seguendo questo approccio, ci soffermeremo su alcuni nodi fondamentali che interessano tanto i processi di realizzazione quanto la rivendicazione di una gestione condivisa dei beni comuni:
1. La prima osservazione è questa: l’idea di una gestione condivisa dei beni comuni ha nel mondo contemporaneo una matrice libertaria, “di sinistra”, o addirittura di estrema sinistra. Ma la realizzazione della gestione condivisa non è né di destra né di sinistra: ad essa può partecipare chiunque, indipendentemente dai suoi orientamenti, e la gestione condivisa è per l’appunto un’arena dove le diverse ipotesi o soluzioni proposte si confrontano. Chi l’ha proposta e ha lottato per la sua affermazione può poi ritrovarsi in minoranza tra i soggetti che partecipano poi alla sua realizzazione;
2. A confronto avremo sempre e comunque una concezione processuale e una concezione statutaria del bene comune. La concezione statutaria punta a definire fin dall’inizio le regole della gestione e a promuovere sulla loro base la partecipazione; la concezione processuale punta invece innanzitutto al coinvolgimento di una platea quanto più ampia possibile dei soggetti potenzialmente interessati alla gestione del bene, con una particolare attenzione a dare voce ai soggetti esclusi o marginali, contando che le regole di funzionamento si possano definire – e correggere – in corso d’opera. Nessuno di questi due approcci è valido a priori; vanno commisurati al contesto operativo e combinati sulla base degli esiti del processo, facendo comunque attenzione a che la rigidità delle regole non soffochi il processo di coinvolgimento, che non avviene mai secondo moduli prestabiliti;
3. Possiamo scandire il processo del coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati alla gestione condivisa di un bene comune in tre stadi. L’ultimo, il più definito, è quello della democrazia deliberativa. Si decide secondo regole certe gli indirizzi da dare alla gestione del bene e questi, se il bene è formalmente di proprietà pubblica, devono essere fatti propri dall’autorità o dall’amministrazione competente, sotto il controllo dei soggetti che hanno preso parte alla deliberazione, e di altri che si possono aggiungere in seguito. Lo stadio intermedio è quello del confronto tra le diverse ipotesi e soluzioni proposte. La difficoltà è che non siamo abituali a farlo: secoli di espropriazione del potere deliberativo ci hanno resi intolleranti e incapaci di ricorrere all’arma della persuasione (la verifica più grottesca di questo dato sono, per chi ne ha esperienza, le assemblee condominiali). Da questo punto di vista la partecipazione a un processo di gestione condivisa di un bene – o anche solo della sua rivendicazione – è per tutti una scuola di democrazia e di tolleranza. Ma la prima fase è forse la più difficile: molti soggetti, improvvisamente coinvolti in un processo di partecipazione, e abituati a considerare la propria esclusione una condizione “naturale”, non riescono per un tempo più o meno lungo ad attenersi al tema: hanno bisogno di sfogarsi, di “vomitare” in pubblico le proprie frustrazioni, di sentirsi accolti e rispettati. Guai a considerare questa fase una perdita di tempo: è un prerequisito fondamentale della democrazia partecipativa;
4. La partecipazione di chi rivendica o cerca di attuare una gestione condivisa di un bene è, e nella società contemporanea resterà per lungo tempo, un processo conflittuale: uno scontro quotidiano e serrato contro chi aspira all’appropriazione privata o una gestione pubblica puramente amministrativa del bene, o la ha già realizzata, o la sostiene. I processi partecipativi sono per l’appunto il terreno dove si costruisce e si consolida la forza e l’organizzazione per opporsi a una gestione privata o escludente;
5. Nei processi partecipativi, e fino a che non è stato formalizzato e accettato un sistema di regole, non si vota: a partecipare non è mai la totalità dei soggetti interessati e chi partecipa non può pretendere di rappresentarli. Partecipa perché ha un’idea, un’esperienza, una competenza, un saper fare, da far valere e da mettere a disposizione degli altri. Se non si raggiunge il consenso di una larghissima maggioranza si dovrà riproporre il confronto a partire da una base più ampia: di carattere territoriale (coinvolgendo altri soggetti) o settoriale (introducendo nuove tematiche) in modo da scompaginare gli schieramenti precostituiti. Se l’accordo non viene comunque raggiunto si apre il conflitto: le diverse tesi in campo cercheranno di far valere le loro ragioni al di fuori del contesto partecipativo, fino a che la modificazione dei rapporti di forza non permetteranno di riaprire il confronto su basi diverse;
6. La democrazia partecipativa e la gestione condivisa dei beni comuni si costruiscono sui saperi (tecnici e sociali) diffusi tra la popolazione; ma sono al tempo stesso una scuola straordinaria per approfondire, promuovere e diffondere questi saperi;
7. La riappropriazione condivisa di un bene comune, anche del più generale e diffuso, come l’atmosfera – per preservarla dal sovraccarico di gas di serra – o la cultura – per renderla accessibile a tutti – è un processo che richiede e al tempo stesso promuove la “territorializzazione” dei processi; il riavvicinamento tra produzione e consumo, tra utenza e gestione. Certo questo processo non riguarda la mera informazione – i bit, che circolano liberamente su tutto il globo – ma riguarda gli atomi: la gestione concreta di risorse, impianti, strutture, istituzioni, spettacoli, ecc. La condivisione è tanto più forte quanto più è basata su rapporti diretti e relazioni di prossimità;
8. Al di là dell’acqua bene comune, oggi il terreno fondamentale dello scontro tra privatizzazione e gestione condivisa è costituita dai servizi pubblici locali. Costituire a livello territoriale (quartiere, circoscrizione, città, area vasta; ma anche condominio o compound) delle sedi dove gli indirizzi dei servizi pubblici locali vengano affrontati e discussi in una prospettiva di gestione condivisa è un’attività in cui tutti possono impegnarsi.
Fruizione e consumo condivisi
Le forme di fruizione condivisa di un bene comune, nella misura in cui riescono a imporsi come modalità organizzata di gestione dei beni e dei servizi prodotti, ribalta la gerarchia del comando, perché, attraverso la determinazione delle modalità di erogazione dei servizi e di fornitura dei beni, può arrivare a condizionare, in un processo di cooperazione allargato, anche le modalità in cui i beni e i servizi stessi vengono prodotti.
Fruizione condivisa è cosa del tutto differente da consumo di massa, che è quello attraverso cui una molteplicità – o una “moltitudine” – di individui viene coinvolta, ciascuno per conto suo, in forme di consumo esercitate congiuntamente. La motorizzazione di massa rappresenta forse il culmine del consumo individuale serializzato; il trasporto pubblico, soprattutto se personalizzato con servizi a domanda, o il car-sharing, sono invece forme di autorganizzazione dei consumatori che definiscono a loro volta le modalità di erogazione del servizio. Un concerto rock è una forma vistosa di consumo di massa; uno spettacolo teatrale costruito attraverso il coinvolgimento di attori, pubblico, personale tecnico, autori e registi, è una forma di cooperazione nella produzione che si traduce in consumo collettivo. La moda è la più evidente forma di consumo di massa nato dalla giustapposizione di scelte individuali imposte dall’esterno; i GAS, gruppi di acquisto solidale (o, in forma più mediata, il commercio equo e solidale) sono esempi importanti del recupero di una sovranità dei consumatori attraverso la cooperazione più o meno diretta con il mondo produttivo. Tendenzialmente, alcune di queste pratiche invertono i termini del problema: si produce quello che i consumatori chiedono, concordandolo tra loro e con i produttori, invece di consumare quello che produttori e distributori impongono.
Il consumo in forma condivisa ha costi di transazione molto elevati, perché richiede tempo e risorse, soprattutto cognitive, per raggiungere un punto di accordo tra i potenziali fruitori, e tra questi e uno, più, o tutti gli anelli della catena produttiva; ma si traduce per lo più in un risparmio di risorse, perché ne ottimizza l’uso ed esercita un controllo diretto per ridurre gli sprechi. Il consumo individuale ha costi di transazione apparentemente minori – il prodotto è lì, basta prenderlo e pagarlo – se non si includono tra questi i costi del marketing e della pubblicità, che fanno però parte del prodotto, perché concorrono alla definizione della sua immagine, della sua “aura”; così come il consumo condiviso definisce la natura di ciò che viene consumato – ma comporta la massimizzazione del consumo di risorse e degli sprechi per massimizzare le vendite e il profitto.
Questa osservazione confuta alla radice la tesi di Garrett Hardin sulla “Tragedia dei Commons” secondo cui solo la proprietà privata – le enclosures – ha potuto salvare qualità e fertilità dei suoli, così come di tutti gli altri beni, che sottoposti a un uso condiviso sarebbero invece andati in rovina per sovrasfruttamento. La visione di Hardin è basata su una gestione privatistica e competitiva dei beni comuni che è un ossimoro, perché un bene in tanto è comune in quanto la sua gestione è sottoposta a un insieme di regole condivise finalizzate innanzitutto a preservarne e a potenziarne la qualità. Per esempio, i suoli e i boschi dell’Inghilterra oggetto di enclosure nel processo di accumulazione primitiva del capitale erano stati fino ad allora gestiti in comune dalle comunità di villaggio secondo regole che per secoli non ne avevano pregiudicato la produttività. Soltanto con l’affermarsi e la generalizzazione di una gestione privatistica e mercantile delle risorse anche ciò che restava di non giuridicamente appropriato è stato apposto a forme di utilizzo competitive che ne hanno causato una più o meno intensa rovina.
L’accento sui costi di transazione, che si traduce soprattutto in maggior impegno del fattore tempo, ci mette di fronte a una questione molto importante. Il consumo condiviso ci introduce a un universo basato sulla riappropriazione del nostro tempo; se ne deve dedicare meno al lavoro e agli impegni cosiddetti “sociali”, perché abbiano bisogno di averne di più per noi: per affrontare consapevolmente e risolvere i problemi che nascono dalla necessità di trovare – di negoziare – un punto di equilibrio tra interessi e valori che possono essere contrastanti. La lentezza riprende così gradualmente il sopravvento sulla fretta.
Beni comuni e lotta di classe
Ma a che cosa dobbiamo la rilevanza che il tema dei beni comuni ha assunto e sta sempre più assumendo nel discorso e nella prassi politica degli ultimi tempi? Per oltre due secoli, e tanto più quanto più la produzione di massa richiedeva la concentrazione intorno agli stessi impianti di un numero altissimo di addetti, le fabbriche e le coalizioni dei produttori – intesi come i lavoratori impegnati nella fabbricazione di un bene o nella erogazione di un servizio – sono state la sede privilegiata delle scelte collettive, e della ricomposizione di una nuova comunanza, di lotta, ma anche di cultura e di vita, di fronte all’atomizzazione, alla dispersione e alla frantumazione delle comunità tradizionali indotte dai meccanismi di mercato.
Oggi forse non è più così: l’evoluzione degli assetti produttivi (imprese a rete, delocalizzazioni e precarizzazione del lavoro) spingono verso una crescente polverizzazione e frantumazione delle concentrazioni produttive – anche se la permanenza dei precedenti assetti continua a esercitare un ruolo di primaria importanza – mentre la rivalutazione dei “beni comuni” come forma di fruizione condivisa del territorio, dei servizi, ma anche di alcuni beni di consumo irriducibilmente “individuali” come l’alimentazione, il vestiario o l’abitare, indica in questa riscoperta una – se non “la” – sede privilegiata di una ricomposizione della solidarietà e di una vita ricca di legami sociali. Uno spostamento del centro dell’attenzione dalle sedi della cooperazione produttiva nei luoghi di lavoro alle modalità di una fruizione collettiva dei beni e dei servizi prodotti induce a una riconsiderazione del ruolo del consumo nelle forme in cui si struttura l’organizzazione della società e nella definizione dei conflitti che la animano e la plasmano.
Il consumatore individuale non è mai sovrano, perché soggiace al potere incondizionato che l’impresa esercita sul mercato; e questa sua debolezza intrinseca è la fonte e la condizione stesse del dominio che l’impresa esercita anche sul mondo della produzione, cioè sulle forme della cooperazione sociale in cui si concretizza l’organizzazione del lavoro. Che rapporto passa allora tra il conflitto sociale che ha una delle sue leve nelle mobilitazioni per i beni comuni e la lotta di classe tra lavoro e capitale? La lotta di classe, come ancora recentemente ha ben documentato Luciano Gallino (se mai ce ne fosse stato bisogno), è ben viva e oramai estesa su tutto il pianeta. È soprattutto la lotta contro i lavoratori sferrata dal capitale finanziario, commerciale e industriale, a cui la globalizzazione ha messo in mano, oltre alle forme tradizionali di sfruttamento dei lavoratori dalla testa alle braccia, anche l’arma delle delocalizzazioni: per poter tagliare, dalle gambe in su, loro l’erba sotto i piedi in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. È difficile anche solo immaginare che i lavoratori di tutto il mondo possano ricostituire in tempi adeguati collegamenti, organizzazioni o reti sufficientemente estese per contrastare, al suo stesso livello, questo attacco globale.
Da tempo le lotte dei lavoratori hanno per lo più una dimensione ristretta, aziendale o di categoria, quando non di reparto; raramente nazionale e mai transnazionale. E anche quando assumono forme offensive, il che non succede spesso, difficilmente riescono, soprattutto nei paesi di consolidata industrializzazione come il nostro, a spuntare risultati che non siano di mero contenimento dell’aggressione alle proprie condizioni di lavoro, di reddito e di vita. Quella corsa al ribasso che costituisce la sostanza e il motore della globalizzazione liberista può essere fermata solo sottraendo il lavoro – a pezzi e bocconi – ai diktat di una competizione senza limiti: con un processo, o una serie di processi, di conversione ecologica del sistema produttivo che rimetta al centro, insieme alla sopravvivenza del pianeta, produzioni orientate alla soddisfazione dei bisogni basilari e al miglioramento delle forme di convivenza delle comunità di riferimento: cioè i beni comuni. Per questo il conflitto sociale per i beni comuni costituisce il supporto e lo sbocco indispensabile di un ripresa offensiva della lotta contro lo sfruttamento del lavoro.
Il rapporto con il territorio
Certamente, molte volte, l’istanza della difesa dei beni comuni sconfina e sembra confondersi con una difesa particolaristica del proprio “cortile” con quello a cui politici e commentatori affibbiano sprezzantemente l’etichetta “nimby”. Ma quel “cortile” si fa in realtà sempre più grande; a volte, come nel caso dell’acqua o dell’atmosfera, di dimensioni planetarie; e le ragioni di chi lo difende si dimostrano ogni giorno – valgano per tutti, in Italia, casi come quelli delle lotte contro il TAV Torino-Lione, il Mose di Venezia, il Ponte sullo stretto di Messina, o la base Usa di Vicenza – più serie, documentate, approfondite di quelle dei loro avversari, che sono contraddittorie, autolesioniste e soprattutto superficiali: “primato del mercato”; “modernizzazione”; “difesa dell’Occidente”; “rapporto con l’Europa”, ecc. E che servono soprattutto per mascherare interessi e accordi speculativi eincinfessabili.
La democrazia dal basso e lo spazio pubblico che si sono sviluppati in contesti come questi sono invece basati su, e corroborati da, una conoscenza dei problemi, dei costi e dei benefici delle soluzioni proposte, da una fiducia reciproca nelle proprie forze e nel proprio impegno che hanno le loro basi in una varietà d saperi tecnici e gestionali diffusi nel territorio e disseminati tra la popolazione. Le nuove forme di partecipazione – o le nuove rivendicazioni di partecipare – ai processi decisionali sono indisgiungibili dal “bene comune” conoscenza.
La difesa dei beni comuni allude così, e conduce, a un rapporto con le cose, con il mondo degli oggetti, con l’ambiente fisico in cui viviamo, meno strumentale, meno cinico, meno finalizzato a un mero funzionalismo (quello per cui una cosa, qualsiasi cosa, vale solo finché e in quanto ci serve, e poi va gettata via), per includere una dimensione affettiva, emotiva, estetica: dalla difesa del paesaggio alla lotta contro gli OGM e i cibi adulterati, dalla salvaguardia dei prodotti, dell’alimentazione, dei saperi e del saper fare tipici o tradizionali ai gruppi di acquisto solidali, dal recupero dell’usato alla promozione del riciclaggio. E’ questa una dimensione che le regole del mercato e del profitto hanno largamente espunto dal mondo e che costituisce invece una componente essenziale della salvaguardia della salute, nostra e altrui, di questa come delle future generazioni.
Beni comuni e “spazio pubblico”
Queste dimensioni sono tanto più presenti e consapevoli quanto più le iniziative hanno o partono da una dimensione locale, che si basa su una conoscenza articolata del territorio e su una rete consolidata di relazioni sociali – una “risorsa cognitiva” che i grandi progetti ignorano per vocazione, ma che costituisce una componente irrinunciabile di una progettualità sostenibile: “Pensare globalmente e agire localmente”.
A loro volta, le iniziative che si sviluppano a partire da una dimensione locale sono la fonte principale di creazione e di consolidamento di nuovi e più forti legami sociali: di comunità costruite e legittimate non dalla consuetudine o dalla tradizione, ma dalla condivisione di obiettivi e prospettive comuni. La lotta lunghissima degli abitanti della Val di Susa è l’esempio migliore di questa dimensione comunitaria costruita attraverso la prassi. Legame sociale significa spazio pubblico – anche fisico, cioè strade, viali, piazze, giardini sottratti all’invasione delle automobili – a disposizione per l’incontro, per il confronto, e anche per il conflitto tra soggetti diversi per genere, età, cultura, tradizioni, abitudini, ricchezza, ruoli professionali e sociali, idee: la base indispensabile del rispetto reciproco, che è la sostanza dei diritti umani e il presupposto irrinunciabile di una democrazia che non sia solo parvenza; La democrazia rappresentativa e i suoi istituti non sono più sufficienti a offrire soluzioni ai problemi della società perché le rappresentanze istituzionali non rappresentano più nessuno e si sono sclerotizzate in apparati che ricordano da presso la cosiddetta “nomenclatura” dei paesi del fu impero sovietico.
Se le prospettive di un’autogestione dei produttori sono tramontate per sempre, perché coinvolgono programmaticamente una parte sempre più ristretta della società, ma soprattutto perché rischiano continuamente di riprodurre nei rapporti reciproci tra le diverse entità autogestite i rapporti di competizione tipici del mercato, un’integrazione e un arricchimento dei meccanismi propri della democrazia formale non possono realizzarsi che attraverso processi negoziali – che non escludono e, anzi, presuppongono il conflitto, ma anche la sua temporanea conciliazione e una sua sempre rinnovata riproposizione – in cui le singole componenti, i cosiddetti stakeholder, possano valorizzare e far valere il patrimonio di esperienza e di competenze di cui sono portatori. E’ un percorso in divenire che non ha un punto di approdo perché la democrazia vive attraverso la sua pratica.
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