La persona che rientra nella
categoria del “ceto politico” ha alcune caratteristiche psicologiche e,
potremmo dire, antropologiche specifiche, particolari, che lo distinguono da
tutti gli altri ceti.
Provo ad individuarne alcune:
-
è una persona di solito piuttosto chiusa ai rapporti
con persone che non fanno parte del suo stesso ceto, che tende a parlare, a
“comunicare” solo con le persone del suo stesso ceto o, addirittura, solo con
quelli del suo cerchio ristretto, della sua “componente” o “corrente”; che
guarda gli “altri” (cioè quelli che non fanno parte del ceto politico) come se
appartenessero ad un altra “specie” animale; con una vaga puzza sotto al naso,
con un certo senso di superiorità; anche quando questo senso di superiorità non
poggia su niente di concreto, su nessuna qualità speciale; in effetti il senso
di superiorità le deriva evidentemente dal fatto di appartenere ad un ceto che
lei considera di per sé superiore; non è un caso allora che a questo ceto è
stato affibbiato negli ultimi tempi il termine “casta”;
-
la chiusura diventa addirittura diffidenza e
sospettosità di fronte a chi si avvicina all’organizzazione da neofita e prova
a dare un contributo di idee e di azioni concrete all’organizzazione di cui il
ceto politico è quadro militante e in alcuni casi dirigente; evidentemente la
partecipazione (anche quando è del tutto priva di “secondi fini”, ma è dettata
solo dalla passione politica, anzi, forse, proprio perché è dettata solo dalla
passione politica) viene vissuta come una minaccia al ruolo acquisito, al
piccolo o grande potere raggiunto da chi è “ceto politico”; per cui tale
partecipazione, lungi dall’essere incoraggiata, viene in molti casi
scoraggiata, se non proprio osteggiata;
-
la chiusura o la diffidenza abituali dell’appartenente
al ceto politico si sciolgono, però, improvvisamente, come di incanto, se chi
si avvicina ad un’organizzazione politica è disposto ad accettare subito
gerarchie di ruoli, se non di potere, già consolidate; la chiusura e la
diffidenza abituali si trasformano anzi in vere e proprie manifestazioni di
accoglienza e di interessamento alla tua persona (telefonate, inviti a
riunioni, anche conviviali…), in occasione di scadenze elettorali, quando il
ceto politico è impegnato a ricercare il voto per sé (direttamente) o per
qualcuno a cui è collegato in qualche cordata (oggi io appoggio te, domani tu
appoggerai me);
-
la persona che fa parte del ceto politico spesso non ha
un lavoro; e in molti casi non lo cerca e non lo ha mai cercato; perché ha
sempre “lavorato”, fin da giovane, in ruoli politici (nell’apparato tecnico
dell’organizzazione, come funzionario di partito, in qualche carica elettiva);
ha fatto (potremmo dire) un investimento nella carriera politica; ritiene perciò
di avere diritto a dei riconoscimenti, dal momento che da anni fa “lavoro
politico”; ha maturato, si dice con un linguaggio tipico; “legittime
ambizioni”; che devono trovare col tempo soddisfazioni sempre più elevate;
altrimenti il “politico” scalpita, sgomita, fa “lotta politica”; ma mica per
qualche nobile causa, a favore e per conto dei cittadini di cui è
rappresentante o anche solo del partito di cui è “ceto”; no, la sua “lotta
politica” mira a salire qualche altro gradino della scala degli onori, che è il
suo vero e principale (se non unico) obiettivo;
-
chi entra a far parte del “ceto politico”, in genere,
non si è mai posta la domanda: ma ne ho la predisposizione? ne ho le qualità e
le competenze? sarò in grado di corrispondere alla domanda che implicitamente i
cittadini (che non fanno parte del ceto politico) ripongono in chi di quel ceto
fa parte? No, chi entra a far parte del ceto politico lo fa a partire da una
sua ambizione personale, che in genere non ha mai confrontato (per averne
conferma o meno) con i cittadini, che pur dice di voler rappresentare; di
solito la legittimazione gli viene da coloro che già da prima di lui fanno
parte del ceto politico, cioè i “chierici” o i “presbiteri” della politica; è
come i preti, che affermano di avere la vocazione, senza aver mai avuto alcuna
legittimazione, alcuna “nomina”, dalla comunità di cui sono chiamati a
diventare “pastori”;
-
colui che fa parte del ceto politico, in genere, non si
espone mai troppo in un dibattito, in una discussione, quando si tratta di
prendere una determinata decisione; sta sempre ben attento, prima di parlare e
di assumere una posizione, a quello che dice o fa il suo capo cordata, colui
che lo precede nella gerarchia dell’organizzazione politica e a cui si è
“legato” col progetto di seguirne le orme, di essere tirato su nell’ascesa
politica, come si fa in montagna da chi sta più su di noi con la corda; per cui
non sviluppa, in genere, un grande acume politico; le sue affermazioni il più
delle volte sono banali, opache,quasi sempre scontate, non dicono mai nulla di
nuovo e di originale;
-
spesso il personale politico è apatico, amorfo, non
coltiva grandi passioni ed entusiasmi, fa politica per mestiere e il mestiere
dopo un po’ stanca, toglie energia, vitalità, smalto e freschezza; il “politico”
spesso è un “burocrate”; dovrebbe incoraggiare gli altri (quelli che “politici”
non sono), dare loro motivi e ragioni di impegno, ma spesso non riesce a
motivare neanche se stesso, figuriamoci se riesce a farlo con gli altri
-
siccome i suoi destini economici sono legati alla
professione politica è disposto in genere a qualsiasi compromesso, pur di
conservare la posizione acquisita; per cui spesso, alla mancanza di entusiasmo
e di passione, si unisce anche un certo buon grado di cinismo e di spregiudicatezza;
assume o approva, ad esempio, posizioni e scelte che non condivide, ma fa finta
di condividere, per non “mettersi contro” quelli che contano più di lui e che
gli garantiscono il “posto” e gli “promettono” la agognata carriera; (anche
qui) ricorda quei preti che hanno perso la “vocazione” (ammesso che l’abbiano
mai avuta) e che continuano a fare i preti, perché, non avendo “né arte né
parte”, non saprebbero dove andare a “sbattere” per sbarcare il lunario;
-
per concludere, il ceto che forma l’apparato di una
organizzazione politica si trova a incarnare, in genere, questo paradosso:
dovrebbe essere il cuore pulsante dell’organizzazione, funzionale alla sua
efficienza, alla sua vitalità, alla sua crescita , mentre, invece, il più delle
volte ne è un freno, un appesantimento, una zavorra.
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