Ecco un pezzo (un post, come dite voi) che non avrei mai voluto scrivere. Però, che cazzo, può succedere. E ora succede.
E io me ne vado dal manifesto, che per quasi quindici anni è stata la mia casa. Una casa calda e comunista, una cosa di cui poter dire con orgoglio: è il mio giornale. Provate voi ‘sto brivido: oggi – ma anche ieri – scrivere per un giornale che avreste anche comprato da lettore è un privilegio non da poco. Per più di dieci anni ho avuto in quella casa la mia stanzetta domenicale in prima pagina: trenta righe per ridere del mondo cattivo. Consolatorio, forse, a volte amaro, un po’ feroce comme il faut (è la satira, bellezza), ma sempre vero. Quella casa oggi non c’è (quasi) più. Il mio tinello marron, era sgarruppato e spartano, ma era mio. Ora un po’ di muri sono venuti giù, il camino non tira, la cena è fredda, Rossanda se n’è andata, alcuni sono stati trattati peggio di quel che meritavano, ed era gente che meritava il meglio (penso a Marco d’Eramo e ad altri). Ma non è questo. Non è solo questo. E’ anche – gli elenchi non mi piacciono e non ne farò – una progressiva irrilevanza, un lento disossarsi, un costa
nte assottigliarsi di senso. La sensazione è che sul manifesto di oggi potresti annunciare la terza guerra mondiale e nessuno ne terrebbe conto. Facciamo notizia, noi del manifesto, solo quando ce ne andiamo sbattendo la porta.
Quando ho letto l’annuncio che Rossana se ne andava con eleganza, quella meravigliosa ragazza del ‘900, la notizia era su tutti i siti di tutti i giornali. Su quello del manifesto no. Per dire. Nemmeno sulle nostre vite siamo rilevanti. E quel titolo “Noi siamo qui” che ne ha dato notizia il giorno dopo sul quotidiano era lo stesso che si fece dopo una bomba fascista alla sede del giornale. Insomma, un po’ troppo (segue ritiro delle firme di alcuni… uff!… giornalisti… non sono cattivi, è che li disegnano così).
So perfettamente che i compagni che fanno il giornale sono assediati. Che hanno i creditori alla porta, il curatore fallimentare in casa, come in una canzone di Paolo Conte. E che fanno quello che possono, un po’ con la sindrome di chi sta in trincea, di cui non si può fargli una colpa. Non è per loro che me ne vado, anche se dopo tante letture non so bene ancora cosa possa capitare al manifesto. E non è furore o rabbia, non è sbattere la porta, non mi va di farlo a casa mia, e non ne ho motivo.
E’ solo la grande tristezza di dover traslocare da un posto che ti piaceva perché non è più tuo, e questo lo capiranno tutti quelli che dormono in letti in prestito o che cercano un posto dove stare. Tutti vogliamo cose che non abbiamo più. Io ne rivorrei tante, e tra queste rivorrei anche il mio manifesto come l’ho avuto per anni. Ma so che non si può. E quindi. Non facciamola lunga.
Ho un vantaggio rispetto a tanti compagni che stanno lì, che ne sono usciti da poco o da tanto: io ero fuori dalla mischia. Milanese e corsivista, lontano dalle dinamiche del gruppo, all’oscuro (volutamente) dei giochi interni, distante dai personalismi e dalle paturnie che ogni collettivo, inevitabilmente, contiene. Dunque, si capirà che non sono iscritto a una fazione o a quell’altra (sì, mi dicono dell’esistenza di fazioni…) e non me ne frega niente. Nessuno, in più di dieci anni di corsivi cattivi, incazzosi, ridanciani e assurdi mi ha mai toccato nemmeno una virgola. Di questo (e di altro) ringrazio tutti i direttori che ho incontrato e avuto al giornale. Nessuno mi ha detto “è meglio non scriverlo”, nessuno mi ha ricordato una linea da seguire. E’ un privilegio immenso, che non posso scordare. Una bella cosa: da un lato stempera la rabbia, e dall’altro aumenta la tristezza.
Io spero vivamente che il manifesto viva e che abbia una buona vita futura. Mi dicono che è assai difficile, ma gli auguri, sapete, non devono mica essere in discesa. Mi piace pensare che lo leggerò e comprerò ancora, magari con quella nostalgia di chi passa davanti a un palazzo e dice: io una volta abitavo qua. Lo spero, per loro e per quelli che lo leggono. Il Fatto Quotidiano mi offre ospitalità. Avrò lì una mia stanzetta, sarà ugualmente libera e ugualmente (spero) divertente. Come dire: non vado su Saturno, non sparisco. Resto qua. Solo, trasloco. E’ triste, ma succede. Ciao.
E io me ne vado dal manifesto, che per quasi quindici anni è stata la mia casa. Una casa calda e comunista, una cosa di cui poter dire con orgoglio: è il mio giornale. Provate voi ‘sto brivido: oggi – ma anche ieri – scrivere per un giornale che avreste anche comprato da lettore è un privilegio non da poco. Per più di dieci anni ho avuto in quella casa la mia stanzetta domenicale in prima pagina: trenta righe per ridere del mondo cattivo. Consolatorio, forse, a volte amaro, un po’ feroce comme il faut (è la satira, bellezza), ma sempre vero. Quella casa oggi non c’è (quasi) più. Il mio tinello marron, era sgarruppato e spartano, ma era mio. Ora un po’ di muri sono venuti giù, il camino non tira, la cena è fredda, Rossanda se n’è andata, alcuni sono stati trattati peggio di quel che meritavano, ed era gente che meritava il meglio (penso a Marco d’Eramo e ad altri). Ma non è questo. Non è solo questo. E’ anche – gli elenchi non mi piacciono e non ne farò – una progressiva irrilevanza, un lento disossarsi, un costa
nte assottigliarsi di senso. La sensazione è che sul manifesto di oggi potresti annunciare la terza guerra mondiale e nessuno ne terrebbe conto. Facciamo notizia, noi del manifesto, solo quando ce ne andiamo sbattendo la porta.
Quando ho letto l’annuncio che Rossana se ne andava con eleganza, quella meravigliosa ragazza del ‘900, la notizia era su tutti i siti di tutti i giornali. Su quello del manifesto no. Per dire. Nemmeno sulle nostre vite siamo rilevanti. E quel titolo “Noi siamo qui” che ne ha dato notizia il giorno dopo sul quotidiano era lo stesso che si fece dopo una bomba fascista alla sede del giornale. Insomma, un po’ troppo (segue ritiro delle firme di alcuni… uff!… giornalisti… non sono cattivi, è che li disegnano così).
So perfettamente che i compagni che fanno il giornale sono assediati. Che hanno i creditori alla porta, il curatore fallimentare in casa, come in una canzone di Paolo Conte. E che fanno quello che possono, un po’ con la sindrome di chi sta in trincea, di cui non si può fargli una colpa. Non è per loro che me ne vado, anche se dopo tante letture non so bene ancora cosa possa capitare al manifesto. E non è furore o rabbia, non è sbattere la porta, non mi va di farlo a casa mia, e non ne ho motivo.
E’ solo la grande tristezza di dover traslocare da un posto che ti piaceva perché non è più tuo, e questo lo capiranno tutti quelli che dormono in letti in prestito o che cercano un posto dove stare. Tutti vogliamo cose che non abbiamo più. Io ne rivorrei tante, e tra queste rivorrei anche il mio manifesto come l’ho avuto per anni. Ma so che non si può. E quindi. Non facciamola lunga.
Ho un vantaggio rispetto a tanti compagni che stanno lì, che ne sono usciti da poco o da tanto: io ero fuori dalla mischia. Milanese e corsivista, lontano dalle dinamiche del gruppo, all’oscuro (volutamente) dei giochi interni, distante dai personalismi e dalle paturnie che ogni collettivo, inevitabilmente, contiene. Dunque, si capirà che non sono iscritto a una fazione o a quell’altra (sì, mi dicono dell’esistenza di fazioni…) e non me ne frega niente. Nessuno, in più di dieci anni di corsivi cattivi, incazzosi, ridanciani e assurdi mi ha mai toccato nemmeno una virgola. Di questo (e di altro) ringrazio tutti i direttori che ho incontrato e avuto al giornale. Nessuno mi ha detto “è meglio non scriverlo”, nessuno mi ha ricordato una linea da seguire. E’ un privilegio immenso, che non posso scordare. Una bella cosa: da un lato stempera la rabbia, e dall’altro aumenta la tristezza.
Io spero vivamente che il manifesto viva e che abbia una buona vita futura. Mi dicono che è assai difficile, ma gli auguri, sapete, non devono mica essere in discesa. Mi piace pensare che lo leggerò e comprerò ancora, magari con quella nostalgia di chi passa davanti a un palazzo e dice: io una volta abitavo qua. Lo spero, per loro e per quelli che lo leggono. Il Fatto Quotidiano mi offre ospitalità. Avrò lì una mia stanzetta, sarà ugualmente libera e ugualmente (spero) divertente. Come dire: non vado su Saturno, non sparisco. Resto qua. Solo, trasloco. E’ triste, ma succede. Ciao.
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