lunedì 7 ottobre 2013

Carlo Lizzani: il mio cinema di Carlo Lizzani, da MicroMega 7/2006



La realtà storica e l’immaginario cinematografico si fondono nel racconto di uno dei nostri maggiori registi. La stagione del neorealismo, la vitalità di contenuti e mezzi espressivi della commedia all’italiana, le trasformazioni della nostra società segnata dalla dissipazione di un grande patrimonio culturale e politico. Ricordiamo uno dei nostri maggiori registi riproponendo questa sua testimonianza pubblicata nell'Almanacco del cinema di MicroMega.


Non bevo, non fumo, al cinema vado meno di una volta al mese ma il vizio di raccontare con le immagini non mi ha ancora abbandonato e proprio in questi giorni ho concluso l’ennesima avventura. Il montaggio, in sequenza cronologico-storica, di scene tratte dai miei tanti film su momenti e personaggi, grandi e «umili» del Novecento. Il mio Novecento. Un film di quasi tre ore. All’età di ottantotto anni, vivo ancora nel quartiere della mia giovinezza. A un passo dalla casa affacciata sul lungotevere, a Roma, tra i tigli e i palazzi umbertini dall’aspetto severo, così simili all’edificio in cui i miei genitori, tra il 1942 e il 1944, videro passare uno ad uno alcuni dei componenti del futuro Comitato di liberazione nazionale travestiti da registi, sceneggiatori o attori. Li vedo ancora perplessi, i miei vecchi, mentre Luigi Longo sostiene con relativa convinzione di aver appena scritto un soggetto che io, giovane talento, così promettente dovrò elaborare e Giorgio Amendola si presenta con il vocione alla porta recitando la formula concordata: «Sono un produttore cinematografico». L’espressione dubbiosa di mio padre Mario, il trattenuto contegno di mia madre, i loro sguardi. Era impossibile che ignorassero il senso dei discorsi che filtravano al di là della porta.

Quelle riunioni clandestine parlavano un linguaggio lontano dall’arte. Piani rivoluzionari, riepiloghi ossessivi delle vie di fuga, propositi di insurrezione. Ad architettarli, nel salone di casa mia, nomi e cognomi che nella loro vita avrebbero incontrato soltanto il set della Storia. E che io stesso udivo confabulare, da una stanza attigua, quando in tanti momenti delicati e ultrasegreti di quei dibattiti, venivo invitato ad allontanarmi. La casa di lungotevere dei Mellini non era stata scelta a caso dai resistenti. Era sconfinata, circolare, abbracciava due vie distinte e nel caso drammatico di improvvisa irruzione della polizia e più tardi dei tedeschi, esisteva l’estrema possibilità di saltare dalla finestra posta sul retro, salvarsi, darsi alla macchia. Dopo il 25 luglio del ’43 l’appartamento, ormai famoso, conobbe una sopravvalutazione non calcolata. In molti erano convinti che nascondesse un deposito di armi e io mi trovavo non di rado nel mezzo a tentare di spiegare ai ragazzi che si presentavano nel rione Prati alla ricerca di un fucile che no, doveva senz’altro trattarsi di un errore.

L’unica arma custodita tra le mura era l’entusiasmo. L’illusione di veder cadere il regime fascista, anche al Nord, dove i soldati di Hitler avevano spostato – dando vita all’esperimento di Salò – ciò che restava del dispositivo bellico. Assistetti da testimone oculare a eventi eccezionali. A decisioni che avrebbero reso il paese diverso. Meno di quanto avremmo voluto, più di quanto non fosse mai stato negli ultimi vent’anni. La febbre di quei giorni è una malattia che anche in seguito, nonostante i decenni trascorsi, ha faticato ad attenuarsi e che ha trovato spazio per esprimersi in oltre mezzo secolo di cinema.

Non sono stato al mondo per fare cinema, ma ne ho utilizzato la magia per vivere più a fondo ogni emozione. Per viaggiare coniugando la mia anima di studioso con quella di regista, per incontrare persone con le quali dividere pomeriggi fumosi alla ricerca di un’idea, di un lampo che giustificasse le tante parole messe in fila, non sempre con raziocinio, non sempre con costrutto.

Ho visto con i miei occhi la Cina di Mao, la Berlino devastata dell’immediato dopoguerra, la Cambogia alla vigilia delle stragi di Pol Pot, il Vietnam dilaniato da una lunga guerra per noi soltanto fredda e molto lacerante, tragica per l’intero Sud-Est asiatico (1). E poi l’India di Gandhi, l’Angola di Agostinho Neto, appena dopo la conquista dell’indipendenza. La New York di Scorsese e De Niro. Ho cenato, tra un film e l’altro, con Marlene Dietrich, Charlie Chaplin, Billy Wilder, Anna Bucharin, Mikhail Gorbac?ëv, De Sica, Jean Gabin e un altro Jean-Paul Sartre. Ho preso in prestito alcuni capolavori della letteratura e li ho messi in immagine, altre volte ho affrontato la storia reale: quella dei grandi e quella degli «umili». Sempre e comunque con partecipazione, inseguendo un contatto con il pubblico. Mi sono divertito godendo del privilegio di attraversare da inatteso protagonista la stagione più straordinaria del cinema italiano, il neorealismo. In Germania anno zero e Riso amaro e in tantissimi altri lavori, di artisti come Rossellini, De Santis e Visconti misi il fuoco vitale di chi, in un dopoguerra troppo breve da dimenticare, intuiva che la ricostruzione non potesse che partire dal racconto di ciò che eravamo stati, quasi come in un quel verso di Brecht, che commuove per sintesi: «Mio nonno viveva già nel futuro, mio figlio vivrà ancora nel passato».

Nel 1947, lavoravo con Luchino Visconti a un documentario siciliano. Mi spostai a Roma, invitato dal Partito comunista. Ad Antonello Trombadori, straordinario organizzatore culturale del Pci dell’epoca, mi legava un’amicizia profonda. Antonello mi conosceva benissimo. Pregi, difetti, pigrizie, vizi. Non ignorava nulla.

«Rossellini sta per girare un film importante. Gli parlerò, mi piacerebbe se lo affiancassi». Al momento opportuno lo ricordò a Roberto al quale ero legato da un rapporto di stima reciproca fin dai tempi in cui nella rivista Cinema, provavamo a disegnare le linee da cui ripartire artisticamente a conflitto concluso. Rossellini mi scelse, spontaneamente, nonostante siano poi fiorite leggende che mi vedevano alternativamente nel ruolo di spia per Botteghe Oscure o raccomandato di ferro promosso sul campo, al solo fine di convincere il regista a diventare comunista.

Balle. Al Partito forse non ripugnava che qualcuno stesse vicino a Rossellini, ma l’unica persona che riusciva veramente a orientare gli impulsi di Roberto, a scombussolarne metodo e orari era Anna Magnani.

Per me, poco più che ventenne, quella nuova partenza significò soprattutto rinascere. Dopo macerie, bombardamenti e caduta del regime, chi aveva annusato il cinema nei primi anni Quaranta, e io ero tra quelli, nuotava in un’euforia senza prospettive. Già alla liberazione di Roma, con le sale occupate, gli americani in città e le pellicole in lingua inglese, avvertimmo l’impossibilità di riprendere il filo della narrazione. Schiacciati dalla mancanza di strutture, nello iato tra l’intenzione e la sua realizzazione.

Un giorno incontrai Alessandro Blasetti. Un maestro. Tra il 1942 e il 1943 avremmo dovuto lavorare insieme a una riduzione dei Tre moschettieri che la mancanza di mezzi e le bombe derubricarono rapidamente a chimera. Lo salutai con rispetto. «Carlo, dammi del tu». Mi apparve in una veste nuova. Dimessa, confusa, rinunciataria. Antitetica al recente ieri. Mi recitò dal nulla uno stornello romanesco. Sentii un brivido. Se il più importante regista di quell’epoca aveva deciso di darsi alla poesia dialettale, la situazione non era grave ma tragica. Tanto disperata che per un certo periodo mi ero convinto a cambiare mestiere. Ligio, nella scia di Berlinguer, quasi persuaso a fare della politica l’orizzonte nuovo. Pensavo di arruolarmi come rivoluzionario di professione e cambiai idea dopo aver visto Enrico all’opera. Intuii che alla lunga quella costanza capace di trovare il compromesso per poi ripartire verso una nuova frontiera, la pazienza nel ripetere un concetto anche mille volte e la formazione dei nuovi quadri sarebbero stati per me abiti strettissimi. Rinunciai. E feci bene. L’operazione culturale nella quale mi trovai a operare era difficilmente codificabile. Un ibrido felice. Un esperimento senza rete che della ricchezza di spunti, inversamente proporzionale alla povertà di tasca, fece la sua forza.

Se da un lato il neorealismo sollevò il morale di un popolo, rappresentando anche la possibilità di raccontare finalmente gli italiani per quello che erano e non per mezzo di quelle figurine sgranate che il regime, osservando dall’alto, aveva potuto manovrare a proprio piacimento per oltre un ventennio, dall’altro, opere come Sciuscià, Paisà e Riso amaro riuscirono a descrivere uno scenario diverso e inatteso. Spiazzante. Più in là dell’aneddotica sterminata, in cui fondere vero e falso in un’indistinguibile somma, in quei campi occupati dalle mondine, tra le linee delle città o della periferia, nei mercati e nelle case popolari, batteva qualcosa di vero. Così plausibile, che distinguere il reale impatto sulla società di quelle immagini in bianco e nero divenne un’impresa. Si disse, favoleggiando, che l’apparire di Roma città aperta, la forza di quel racconto in presa diretta in cui le mediazioni recitavano da comprimarie, avesse alleggerito il nostro trattato di pace. Che, oltre ad aver mostrato il cuore della Resistenza, mettendo in evidenza l’umanità di un popolo che non poteva essere sospettato di aprioristiche complicità con il fascismo, Rossellini aveva salvato il destino dell’Italia imprimendo sulla pellicola un’impressionante solidarietà di base, utile a ridurre le sanzioni. Alla leggenda, si sovrappose l’ansia di classificazione. Si cominciò a sezionare, non senza maniacalità il corpus dell’opera. Prevalse l’idea che l’interesse suscitato oltrefrontiera poggiasse sull’inedita scoperta di una realtà italiana fino ad allora nascosta.

In realtà, con il passare del tempo mi sono reso conto che la più importante novità neorealista risiedeva nella rivoluzione del linguaggio. Fu proprio il linguaggio a fare da propellente ai nuovi contenuti. Tra teorici ci si accapigliava. Discussioni dure. Gli ortodossi identificavano il movimento con l’asciuttezza delle immagini. Un criterio anche giusto, con il difetto dell’unilateralità. Per cui di Paisà ad esempio si salvava solo l’ultimo episodio, quello in cui la drammaturgia anche minima scompariva dietro una classicità di ripresa che era una virtù, ma non poteva essere la sola. Chi evadeva da un decalogo marziale, come De Santis, era accusato addirittura di barocchismo. Sono sempre stato più generoso. Marchiare, incasellare, ingabbiare l’inventiva, mi pareva miope. Secondo me la chiave di lettura di un movimento così complesso non poteva essere esclusivamente stilistica, ridursi a un’inquadratura più o meno rigorosa. La sua grandezza, quella per cui il neorealismo seppe davvero parlare al mondo, consisteva proprio nell’abbracciare e far convivere personalità di segno opposto. La rivoluzione formale proposta dal neorealismo era un valore e il piano sequenza un’opportunità fornita allo spettatore per liberarsi e diventare protagonista. In questa nuova sintassi, il rapporto tra individuo e coro, agevolato da linee orizzontali ed esterni che stordivano senza ricorrere al folklore, cambiò per sempre la prospettiva. Il resto lo fecero l’esperienza acquisita sul campo e i tanti attimi fuggenti, che con coraggio e non senza fortuna fummo in grado di riconoscere e cogliere al momento giusto. Il copione del film, in certi casi, era stravolto dalle circostanze.

In Germania anno zero, ad esempio, finimmo per girare con diciassette sole pagine di sceneggiatura. Dopo settimane di dibattito serrato e disquisizioni teoriche con Treuberg e Colpet, i due geniali scrittori tedeschi che partecipavano all’avventura rosselliniana, lasciammo all’istinto e all’improvvisazione molto più spazio di quanto non avremmo mai osato prevedere al principio. Inizialmente il film avrebbe dovuto presentare anche il punto di vista di chi, nella Germania hitleriana, aveva saputo rischiare la pelle per propugnare un modello di società diverso e antirazzista. Però alla costruzione a tavolino di un apologo edificante, Rossellini preferì documentare il terremoto emotivo di un paese in ginocchio. I veleni della guerra, per Roberto erano molto più importanti di un’iniezione di manicheismo in un corpaccione, quello tedesco, che aveva bisogno soprattutto di fare i conti con i propri errori e con la miseria lasciata in eredità dalla guerra. Ebbi l’onore di filmare alcune sequenze, tra cui alcuni passaggi di quella conclusiva.

Rossellini aveva dovuto raggiungere Parigi, per mediare con la produzione francese che dopo il successo inaudito a Parigi di Roma città aperta e Paisà gli aveva dato carta bianca, sancendo alcuni accordi di fondo. Saltati quelli, i produttori, preoccupati non meno che furibondi dell’anomala piega narrativa che rispetto ai patti aveva preso il progetto, gli vollero parlare. Filmai la scena in cui con il cavallo morto steso per terra, la gente si accalca in strada per strappare un pezzo di carne dall’animale. Un’immagine cruda, asciutta, sintomatica della fame che c’era a quei tempi. Adesso, sessant’anni dopo, mi dedicano convegni e retrospettive e mi hanno consentito di creare Il mio Novecento. Roberto sognava che si viaggiasse nel suo cinema a partire da Socrate. Una gara immaginaria, un confronto impossibile. Lui ha dipinto una storia universale. Io mi sono concentrato soltanto sul Novecento, lasciando al secolo più di sessanta titoli. Film a soggetto e documentari attraverso i quali ho provato a raccontare il «secolo breve».

Anche quando all’affresco neorealista subentrò un’industria cinematografica che pretese e impose una struttura drammaturgica più complessa, la lezione del passato non fu rimossa. Io e Luchino Visconti, con Cronache di poveri amanti e Senso impostammo due film in cui il riflesso di ciò che avevamo introiettato era una presenza costante ed esigeva un continuo scambio di idee, tanti confronti. Dalla Resistenza, vissuta fino al giorno prima, alla Storia. Ripercorrere la strada a ritroso, era più forte di noi. Ma alimentare un cenacolo, e quello neorealista lo era, richiedeva costanza e desiderio di scambiare qualcosa con gli altri. Riunirsi a un tavolo per sceneggiare, impostare le pagine di una rivista o ragionare sui temi di un convegno era molto più di un lavoro. È questa attitudine conviviale, temo smarrita per sempre, che impedisce al cinema italiano contemporaneo di spiccare il volo. Il mio sogno è vedere insieme per discutere e anche divertirsi talenti come Moretti, Giordana, Garrone e Sorrentino. E aggregarsi in un movimento capace di produrre una visione d’insieme.

Oggi ogni opera rimane una voce isolata e la notizia, anche eclatante, un fatto episodico. Magari un grande successo che non può però lasciare tracce profonde. A volte mi sembra che i nostri autori, anche i più bravi, non se la godano. Noi abbiamo saputo farlo. Io incontravo menti vivaci, anche più della mia e le occasioni per stare insieme erano dei pretesti per raccontarsi la vita. E non solo tra cineasti, ma con i pittori, i musicisti e gli architetti. Si partiva sempre dal generale, dalle nostre osservazioni sul quotidiano, da ritagli di giornale apparentemente insignificanti. Poi con il tempo, senza angosce, divagando tra arte, politica e pittura, giungevamo a individuare dei capitoli di intervento, dei frammenti a cui legare personaggi, contesti, scenari. Ma il fermento intellettuale con l’obbligo di produrre non c’entrava nulla. Certo, avevamo i grandi romanzi della letteratura italiana a cui attingere, mentre oggi Gadda e Tomasi di Lampedusa, pur lasciando in cantina gli snobismi, non esistono più. Viaggiavamo alla ricerca di spiegazioni concrete su ciò che la politica, con altri mezzi, propagandava ogni giorno.

Girai con l’aiuto del sindacato un documentario alla fine degli anni Quaranta. Il titolo, Qualcosa nel Mezzogiorno è cambiato, inchiodava il senso comune a quanto in realtà ci fosse da mutare, fissando sulla pellicola l’allucinante condizione del Sud d’Italia a fascismo caduto.

Poi il cinema incontrò le resistenze dei nuovi padroni democristiani. Se da un lato i «messaggeri di Dio» in politica sostenevano il cinema molto più di quanto non avvenga oggi, dall’altro operavano una censura miope, che tra una lettera pubblica e l’ostracismo delle sale parrocchiali raggiunse il parossismo con Cronache di poveri amanti. La Dc mandò un alto burocrate al Festival di Cannes dove il film era in concorso per scongiurare Jean Cocteau, presidente della giuria, di non premiarlo con la Palma d’Oro. Il nemico non era tanto il film, quanto la cooperativa che, dopo aver finanziato Achtung! Banditi, lo aveva prodotto. Uccidere il cooperativismo era l’imperativo del maccartismo all’italiana, perché l’idea che altri registi si mettessero in proprio, provando a produrre e a far circolare idee non collimanti con l’ottica clericale, risultava intollerabile. Se è vero che non esiste una società che non possa essere criticata, è altrettanto vero che i governi hanno avuto (e sfruttano tutt’oggi) gli strumenti per complicare il percorso autoriale. Quella controspinta reazionaria depauperò il panorama e spinse al riflusso tanti autori.

Concentrandosi sul neorealismo e sulle sue derive obbligate, si rischia però il torto di offuscare un sole che illuminò gli anni Sessanta a giorno. La commedia all’italiana è stata una formidabile e mai più ripetuta, costante osservazione critica del costume nazionale. Se non rappresentò una rivoluzione in senso stretto, ebbe in comune con il neorealismo la coalizione degli artisti impegnata nel genere. Risi, Monicelli e Germi non avrebbero inciso così in profondità se fossero stati soli. Intorno a loro, in una congiuntura inaudita di numeri, idee e spunti, da Nanni Loy a Ettore Scola, passando per sceneggiatori come Age, Scarpelli, Amidei, Benvenuti, Vincenzoni, De Concini e De Bernardi, ballò mezzo cinema italiano. Uno specchio riflesso in cui il successo di un singolo aumentava la fama del gruppo. Non mi tirai indietro e come ai tempi in cui per confondere le acque e attenuare il controllo ossessivo della politica mi ero inventato Lo svitato, progenitore di molte commedie all’italiana, con un giovanissimo Dario Fo che anticipava temi come apparire a tutti i costi, la manipolazione della notizia, l’invenzione di un fatto al solo scopo di poterlo raccontare. Così, in condizioni del tutto differenti, portai nelle sale il libro rivelazione di un giovane giornalista toscano, Luciano Bianciardi. La vita agra, con Ugo Tognazzi nel ruolo dell’impiegato dinamitardo Luciano Bianchi, rimane ancora oggi un’attualissima satira sui rapporti di potere e sull’ineluttabilità dell’integrazione.

Mi chiedono spesso perché, pur non mancando elementi per una fotografia caustica del paese, film come quelli non si progettino più. E, quando me lo domandano, svio consapevolmente, perché credo che in fondo la ragione principale abbia a che fare da vicino con il fatto che quella stagione ha detto tutto persino sul presente, intravedendo con assoluta chiarezza nelle radici di un consumismo senza contrappesi, le possibili conseguenze del degrado. Confrontarsi con quel periodo è un esercizio crudele. La commedia all’italiana ci ha disarmati e preceduti. In La vita agra come in molti altri film dell’epoca, ci sono le veline, gli industriali, il potere, il ruolo manipolatorio dei media. E il film è del 1964. Il caimano, ad esempio, è un eccezionale manifesto politico, ma forse del berlusconismo si è già scritta ogni cosa e probabilmente, come suggeriva Antonioni in La notte: «Sappiamo cosa dire, ma non sappiamo come dirlo».

E anche se qualcuno lo sapesse, non è detto che quell’intuizione diventerebbe immagine. I produttori cinematografici di oggi, anche quelli bravi, sono pesantemente condizionati dalla distribuzione televisiva dell’opera. Se non c’è, il film non si fa. È scontato che un certo tipo di poetica alla Rai non interessi e così, tra un’autocensura preventiva e l’altra, il livellamento generale e la stagnazione cinematografica, non diversamente da molti altri ambiti della vita sociale del paese, ne soffrono. Quando mi è capitato di essere dall’altra parte della barricata, nel tentativo difficile di segnare un percorso per quattro anni alla guida del Festival di Venezia, in un delicato momento di passaggio tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, non ho dimenticato che ero lì per sperimentare. Arrivai nel 1979. La mostra attraversava da anni un impasse senza scosse. Io decisi di allargare e non di stringere, di offrire anziché negare. E fu un successo. Diedi ampio spazio ai cinephiles di ogni genia ed età da Malle a Wenders, spalancai le porte ai nuovi talenti, cancellai le formule permettendo al contempo il ritorno dei kolossal americani come I predatori dell’Arca perduta ed E.T. di Spielberg. Mischiai ogni genere, esaltai la vitalità. Berlin Alexanderplatz di Fassbinder, dodici ore, è un film come lo è un cortometraggio. È cinema. E nonostante gli scettici, sa bastare a se stesso.

A questa contemporaneità mancano osservatori della società come Pasolini, che commediografo non era, ma individuò delle linee di rottura molto personali, in letteratura come al cinema. Ho conosciuto Pier Paolo alla fine degli anni Cinquanta. Partecipò alla scrittura di Il gobbo nel 1960. Pasolini era allora alla vigilia della sua carriera registica, non era romano e senza ancore, da apolide quale è sempre stato, si tratteneva sul set per farsi le ossa come futuro regista. Aveva una vocina timida e una curiosità inesausta. Interrogava gli operatori sugli obiettivi, la segretaria di edizione sui segreti del programma, il fonico sui meccanismi alla base del sonoro perfetto. Sette anni dopo quell’esperienza quando era già famoso come regista, gli chiesi di partecipare a Requiescant. Un western atipico, cattivissimo, violento che Pasolini interpretò con entusiasmo eterodiretto e veicolato dalla presenza nel cast di amici come Davoli e Citti che gli rimarranno vicini fino all’ultimo giorno.

Pochi mesi dopo la sua morte, uscì San Babila ore 20, un delitto inutile. Una cruda fotografia di certe piazze milanesi in cui la violenza neofascista la faceva da padrona. Con un’aria greve, non troppo diversa da quella che aveva portato alla morte di Pier Paolo.

Da allora sono passati quasi quarant’anni. Mi hanno sempre contestato il fatto di essere un regista innamorato della cronaca. Ma io ho fatto sette film di cronaca e la mia produzione complessiva sfiora i settanta titoli. Nelle mie storie di cronaca in realtà c’è sempre lo specchio di una società in trasformazione che si traduce di volta in volta in un apologo sulle dinamiche di gruppo o sulle figure più o meno brigantesche di cui la letteratura, da Verga a Pratolini, aveva lasciato tracce profonde. Qualche volta, da adulto, ho reincontrato i banditi che vestendo panni diversi avevano segnato una parte del mio immaginario. Mafiosi, scassinatori, guerriglieri sardi di nome Graziano Mesina o solisti del mitra come Luciano Lutring che, in Svegliati e uccidi del 1966, avevo descritto come il prodotto di una criminalità quasi comune, demitizzandone la figura per contestualizzarla. L’ho rivisto tre anni fa. Mi venne a trovare a Meina, sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, dove ero impegnato per le riprese di Hotel Meina, storia di un eccidio nazista accaduto nelle ore concitate seguite all’armistizio. Si fece avanti: «Lizzani, sono anni che desideravo ringraziarla per Svegliati e uccidi. Lei mi ha dipinto come un “pirla” e quel film ha persuaso i giudici a essere clementi». Se mi guardo indietro, lo faccio con orgoglio.

Abbiamo rappresentato un’importante scuola di pensiero, addentrandoci nelle pieghe dell’Italia senza compromessi. Senza dimenticare che il cinema italiano ha offerto al mondo un altro patrimonio prezioso: la capacità quasi rinascimentale di inserirci in altre culture. Se un giorno ci fosse il Diluvio universale e venissero ritrovate alcune vecchie pizze di pellicola con targhette come La battaglia di Algeri e C’era una volta in America, chi potrebbe pensare che gli autori erano stati degli italiani?

Invece Pontecorvo e Leone erano proprio due eccelsi narratori italiani, capaci di trarre spunti dalle culture altre senza rinunciare alla propria identità. Indefinibili. Come siamo tutti noi. Qual è in fondo il nostro statuto? Il pittore stende i colori, il poeta le poesie, il romanziere i romanzi. Noi come ci chiamiamo? Autori, registi, cineasti, filmmaker? In che angolo del cielo ci collochiamo? Chi siamo davvero, in fondo?
(a cura di Malcom Pagani)

(1) Le occasioni per i soggiorni in Asia furono la conseguenza di un lungometraggio documentario girato nel 1957, dal titolo: La muraglia cinese. Nel 1972-73 fu la volta di I volti dell’Asia che cambia, sei puntate di un’ora per la Rai, tratte dal libro di Harrison Salisbury: The orbit of China adattato da Furio Colombo. Il soggiorno a New York, nel 1973 per la realizzazione di Crazy Joe. E infine in Africa, nel 1977, per il documentario Rai Africa nera, Africa rossa.

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