domenica 5 gennaio 2014

Lotta di classe e illusioni post-operaiste. Una risposta a Benedetto Vecchi

La lunga recensione al mio ultimo libro, firmata da Benedetto Vecchi sulle pagine del “Manifesto”, mi offre l’opportunità di ribadire le critiche di metodo, prima ancora che di merito, che da qualche anno rivolgo alle teorie neo/post operaiste.
Tralascio tutta la prima parte dell’articolo, che contiene critiche marginali o idee simili alle mie, per concentrarmi sul finale laddove Vecchi, riferendosi all’importanza strategica da me attribuita alle lotte della classe operaia cinese e di altri Paesi in via di sviluppo, sostiene: 1) che le fabbriche cinesi sono molto più simili alle nostre di quanto io non pensi (nel senso che anche laggiù le tecnologie produttive fordiste sono affiancate/integrate da quelle postfordiste); 2) che l’esistenza di crescenti masse operaie nei Paesi emergenti non implica automaticamente lo sviluppo di una coscienza di classe antagonista; 3) che anche in quei Paesi ciò che più conta per il capitale è appropriarsi dei nuovi livelli di cooperazione sociale consentiti dalle tecnologie reticolari; 4) che il mio lavoro, nella misura in cui non tiene conto di quanto ai punti precedenti, approda a una rappresentazione statica dello sviluppo capitalistico.
Ignoro su quali elementi Vecchi fondi le critiche di cui ai punti 1) e 3), visto che nel mio libro si dice in più punti che nei processi produttivi dei Paesi in via di sviluppo il plusvalore assoluto e il plusvalore relativo convivono, fondandosi su un mix di vecchi e nuovi modelli organizzativi (aggiungendo, il che mi pare più importante, che la classe operaia di quei Paesi usa le nuove tecnologie anche per organizzare le proprie lotte!); così come si ripete fino alla nausea che i flussi finanziari e le tecnologie di rete operano come una macchina globale che si appropria delle nuove e differenti forme di cooperazione sociale che si sviluppano in tutto il mondo.
Quanto alla critica di cui al punto 2) mi pare che sfiori francamente il ridicolo: quella secondo cui non sono sufficienti le contraddizioni oggettive a far sorgere automaticamente una coscienza antagonista è appunto la tesi centrale del mio lavoro, tesi che oppongo all’immanentismo metafisico dei post operaisti i quali ritengono, al contrario, che l’antagonismo sia “consustanziale” ai rapporti di produzione postfordisti.
Ciò detto veniamo al nodo reale del dissenso. La ragione di fondo per cui valorizzo le lotte del proletariato dei Paesi in via di sviluppo – non solo quelle cinesi, ma anche quelle in America Latina, Sud Africa, Bangladesh fino alle recentissime rivolte operaie in Cambogia – consiste nel fatto che in questi Paesi esiste una concentrazione massiva di corpi messi al lavoro (realtà del tutto sparita in Occidente) a prescindere dalle tecnologie e dai modelli organizzativi con cui vengono sfruttati/disciplinati (si va dal lavoro servile a domicilio al post taylorismo).
Questa inedita concentrazione è condizione necessaria ancorché insufficiente per una coscienza antagonista che, a mio parere, per svilupparsi richiede adeguati livelli di organizzazione politica (condizione da tempo rimossa dalla cultura tardo operaista). Purtroppo la visione degli amici che restano appesi ai dogmi degli anni Settanta (a proposito di visione statica…) continua a privilegiare la composizione tecnica come unico criterio di giudizio per misurare le prospettive di ripresa della lotta di classe contro ogni evidenza empirica (dove sono le lotte dei lavoratori della conoscenza, esaltati come avanguardia “naturale”? Del resto questa idiosincrasia per l’analisi sociologica concreta di culture pratiche e comportamenti è un antico vizio che già Raniero Panzieri rimproverava ai “filosofi” Tronti e Negri).
Infine due parole sulla visione statica del capitalismo. Il discorso di Marx era una ontologia dell’essere sociale che coglieva la totalità delle determinazioni concrete (economiche, ideologiche, politiche, antropologiche) nel loro movimento dinamico, distinguendo fra elementi di continuità e discontinuità (senza ripetizione non esiste differenza). Viceversa la metafisica di Negri e allievi (che si ispira a Spinoza, Foucault e Deleuze, sicuramente non a Marx) ignora completamente la storicità dei processi, per cui appare immersa in un eterno presente in cui l’annuncio della fine del capitalismo è sempre attuale. Preferisco essere un ottimista della volontà, come mio definisce Vecchi, di un ottimista della grazia divina (cioè di un capitalismo che si autosupera per raggiunta maturità delle forze produttive).

Nessun commento:

Posta un commento

Di la tua