Che gli iscritti del Pd fossero in fuga dal Pd non occorreva la Sibilla cumana per saperlo. Pure che il gruppo dirigente democratico
avrebbe finito per scannarsi in preda a un’insofferenza collettiva
quasi fisica, era prevedibile. Bastava andare al cinema per capire anche
il perché. Il film si chiama Arance e martello, autore e protagonista Diego Bianchi, in arte Zoro, narratore embedded di quella sinistra romana che dà il cattivo esempio alla sinistra tutta.
Non
racconteremo la storia, ma gli epifenomeni che l’avvolgono come un
sudario funebre. La sezione di partito a conduzione familiare,
desertificata e adibita a location di calciobalilla e fancazzisti. La
canonica di raccolta di firme per ingannare il tempo. Pallosi dibattiti
sul nulla e microscissioni caratteriali. Si votano mozioni, ma non si
capisce mai chi ha vinto e chi ha perso. E poi i berluscones che
corteggiano i democratici fino al grand guignol del tutti contro tutti. Renzi
ancora non c’è, ma preannuncia lo spirito del nuovo tempo una
ricercatrice dalle belle gambe che vuole rottamare il mercato rionale
per farne un biomarket. “Non resta più niente, i militanti se ne vanno”,
osserva intristito l’ex tesoriere Sposetti che su Repubblica
lamenta la fine del partito-comunità che era “come una famiglia”. Ma poi
presenta il conto, rivelando che il Pd sta in milleottocento circoli di
proprietà dei Ds, “e non paga né Tarsu né Imu né
condominio”. Fatto è che quella roba da quel dì è stata distrutta pezzo
dopo pezzo con furia iconoclasta. Via le feste dell’Unità e poi via la stessa Unità, le vecchie sezioni liquidate dal partito liquido di Veltroni,
mentre della dolce “famiglia” sopravvivono i parenti-serpenti
dell’apparato sparsi nelle ex regioni rosse, che si spartiscono con le
tessere residuali rendite di posizione e tutto il sottogoverno
possibile.
La verità è che Renzi non poteva rottamare ciò che
già era stato raso al suolo, ma da furbo qual è ha fatto credere il
contrario, avendo bisogno di totem da abbattere mentre sgominava mummie e
statue di cera (salvo poi, con le primarie, accogliere tutti sul carro
del vincitore perché tutto fa brodo). Bersani che
piange sul “partito che muore” fa una certa tenerezza perché l’hanno
capito tutti che nel Pd la minoranza cerca soltanto un compromesso
onorevole e qualche candidatura alle prossime elezioni. E che la difesa
dell’art. 18 è il ridotto in Valtellina da cui la cosiddetta sinistra sta uscendo alla spicciolata con le mani alzate. No, nessuna nostalgia: e di cosa poi?
L’inciucio con Berlusconi, per dire, lo ha inventato D’Alema e sui piccoli e grandi cedimenti – dalla finta lotta alla corruzione alle amnesie sulle evasioni fiscali
– il governo Renzi appare in perfetta continuità con chi lo ha
preceduto. Non meravigli dunque che l’esaurimento del Pd coincida con il
trionfo del suo leader. Che sarà anche superficiale e inattendibile ma
che almeno saluta, sorride e distribuisce gli 80 euro a piene mani. Di lui l’accigliato Fassina, pensando di deriderlo, ha detto “è simpatico”. Di questi tempi agli italiani basta e avanza.
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