Dobbiamo
riflettere con attenzione sul rapporto che lega la crisi della politica
italiana e le vicende europee, sul nesso tra le scelte reazionarie
delle élite continentali e la dissoluzione e ricomposizione di tutti i
fronti politici, compreso il nostro. Lo spappolamento del Pdl e la crisi
di gestione e di consenso del Pd (malamente rattoppata da una
“vittoria” siciliana che prelude ad ulteriori guai) sono il risultato
diretto del commissariamento del Paese da parte di Monti. Il Professore
ha dato la spallata definitiva all’ansimante Berlusconi (peraltro già
defunto dal momento in cui Tremonti gli ha proibito, in ossequio alla
disciplina europea, anche solo di accennare alla riduzione delle tasse) e
ha privato il Pd di ogni parvenza di autonomia politica, debolmente
sostituita oggi da qualche frase pre-elettorale sulla “crescita” e sull’
“equità”. A ben vedere anche il brillio delle 5 stelle si mostra meno
smagliante di quello che sembra, se solo si considera che tutto il
programma grillino si concentra sulla lotta alla casta, eludendo il
problema del rapporto con l’Europa, o riproponendolo saltuariamente in
forma caricaturale e provocatoria. Il nuovo movimento appare quindi
destinato a crescere rapidamente, ma anche a dimostrare rapidamente la
propria inutilità, scomparendo o mutandosi in qualcosa che non sarà
necessariamente migliore. I tre casi mostrano, ciascuno a suo modo,
quanto l’accettazione acritica degli indirizzi europei distrugga la
possibilità stessa della libera scelta di massa e quindi della politica e
dei partiti, e quanto l’afasia delle classi dirigenti italiane e dei
loro aspiranti becchini condanni gli equilibri politici del Paese a
gravitare perennemente verso un centro montiano, o a frammentarsi
secondo logiche estemporanee ed avventuriste.
Ma anche nel nostro ben più piccolo campo si mostra la potenza quasi
incontrastata del monetarismo europeo: sia nella corsa verso il Pd di
alcuni di noi, sia nel modo ancora incerto ed inadeguato in cui ci si
prepara ad un’alternativa. La corsa verso il Pd è motivata quasi sempre
con argomenti talmente sorprendenti da lasciare interdetti: tale è
l’idea di chi, come Oliviero Diliberto, considera riconvertito alla
socialdemocrazia un Bersani appena reduce dall’aver inserito in
Costituzione, pur senza esservi costretto da nessun patto europeo,
l’obbligo al pareggio di bilancio, ovvero l’impossibilità di qualunque
politica socialdemocratica. Ma anche argomentazioni assai più
articolate, come quelle di Luigi Vinci, non colgono nel segno. Si
sostiene che il conflitto Hollande-Merkel, le innovazioni
nell’intervento della Bce e gli inviti alla “crescita” opposti da buona
parte delle élite europee all’intransigenza deflazionista di Berlino
siano in grado di aprire varchi, sia pur minimi, all’azione delle forze
di classe, e che lo stesso Pd sia preso da questa onda e costretto a
politiche pur timidamente pro-labour. Ma questi varchi non si vedono, né
il Pd sembra essere in grado, eventualmente, di poterli utilizzare.
Certo, l’applicazione rigida della linea Merkel avrebbe fatto esplodere
la società europea, e l’euro. Hollande e Draghi hanno quindi dovuto
contrastarla anche duramente (come peraltro ha fatto lo stesso Monti,
senza per questo dover mutare la sua scelta deflazionista), per
concedere una tregua alla moneta comune ed evitare di deprimere
ulteriormente gli investimenti. Sullo sfondo ha pesato, e molto, la
“moral suasion” degli Usa, preoccupati sia di una precipitazione della
crisi sia di un euro troppo forte. I contrasti ci sono, dunque: ma non
aprono varchi alla nostra azione perché tutte le tendenze in campo si
muovono sul presupposto indiscusso delle riforme del mercato del lavoro e
delle restrizioni di bilancio. Ben venga la crescita, dicono gli
“antitedeschi”, ma solo dopo che il lavoro è stato talmente indebolito
da non poter più approfittare dei nuovi investimenti per ribadire le
proprie pretese. Altro che laburismo timido: questo è liberismo astuto!
Ma, obietta Vinci, le cose non devono essere lette in maniera univoca
perché l’Europa non è uno Stato dotato di una politica coerente e
continuativa, bensì il risultato mutevole di accordi intergovernativi, e
l’attuale disaccordo tra Francia e Germania, se opportunamente
alimentato da un intervento italiano, potrebbe condurre ad una diversa
interpretazione delle regole fiscali, come si è sempre fatto in passato
quando tornava comodo agli Stati più forti. Il punto, però, è proprio
questo: proprio il carattere intergovernativo dell’Unione ci condanna ad
essere alla fine in balìa degli Stati che contano, Francia e Germania. E
l’attuale posizione della Francia non si spinge fino all’essenziale,
ossia fino a contestare il fiscal compact semplicemente perché Hollande,
più francese che socialista, non lo ritiene così dannoso per il proprio
Paese come invece lo è per il nostro e per gli altri “Pigs”. Chi si
illude sulla possibilità di seri sconti fiscali guardi ad Atene, ascolti
ciò che dicono ancora oggi Draghi e gli altri eurocrati sui “compiti a
casa” da fare al più presto: gli esami, per l’Italia, non finiranno mai,
perché l’indebolimento del paese serve a coloro di cui siamo divenuti
“terzisti”. A meno che i contrasti tra potenze europee non vengano
acuiti dall’azione di un governo italiano che ascolti quanto suggerito,
in tempi diversi, anche da persone misurate ed attente come Vladimiro
Giacchè ed Alfonso Gianni, e si mostri quindi disposto, pur di recidere
il cappio fiscale, anche a far “saltare il banco” dell’euro e dello
stesso mercato comune. Ma questo il Pd non lo farà mai, come mostra una
carta d’intenti chiarissima nell’imporre l’accettazione degli accordi
internazionali e l’acquiescenza a tutte le scelte che un governo dovesse
compiere per difendere l’euro. E non lo farà mai perché, come lo stesso
Vinci ci ha insegnato con analisi puntuali, esso è parte di quelle
classi dirigenti che da decenni hanno scelto di usare il vincolo esterno
come mezzo per imporre la disciplina interna. In queste condizioni
allearsi col Pd significa accettare il nocciolo duro, l’elemento
invariante delle politiche europee di questa fase: l’indebolimento
strutturale del lavoro e dello Stato e la marginalizzazione dei Paesi
del sud come precondizione di qualunque futura strategia di crescita.
Anche la corsa verso il Pd, dunque, è alimentata da quella
subordinazione esplicita o implicita alle logiche europee che è la causa
principale della morte della politica nel nostro Paese. Ma ciò conferma
che una rinascita della politica in Italia dipende dalla capacità di
costruire progressivamente le condizioni di una scelta autonoma rispetto
all’Europa. Capacità che non è ancora veramente maturata nemmeno nel
campo che ha dato vita all’importante manifestazione del 27 ottobre ed
all’altrettanto importante appello “Cambiare si può!”: non in chi
continua generosamente a parlare di “Europa sociale” senza chiarire se
questa possa essere semplicemente aggiunta all’ “Europa economica” o non
comporti piuttosto un ripensamento in merito all’euro, ma nemmeno in
chi propone un’uscita dall’euro in base ad un semplice ragionamento
economico, giusto in sé, ma elusivo rispetto ai complessi nodi
culturali, istituzionali e geopolitici sottesi ad una rottura di questo
tipo. Giacché rompere con l’euro significa rompere non solo con l’Europa
attuale, ma anche con la stessa storia nazionale come è stata finora,
con la cultura politica del Paese, con la forma del suo Stato e con le
particolari alleanze di classe che l’hanno costruito.
Una possibile ed auspicabile coalizione alternativa, basata sulla
“piazza del 27” e sull’assemblea del prossimo primo dicembre non può
avere successo se non affronta da subito questi nodi, se non usa il
pluralismo e la capacità dialogica per far sedimentare ipotesi via via
più precise, in particolare sulla collocazione geopolitica del Paese e
sullo Stato che dobbiamo (ri)costruire. Se non trova un punto d’incontro
tra europeismo critico e sovranismo, tra autonomia del sociale e
necessità del politico.
E il punto d’incontro può essere trovato. Ad esempio tutti possiamo
convenire sul fatto che il fiscal compact vada respinto: ma allora tutti
(anche i più europeisti tra noi) devono sapere che questa scelta non
può essere sostenuta se non si mette in conto una rottura dell’euro e
della stessa Unione. E tutti possiamo convenire sul fatto che quella
continentale è la dimensione ottimale per un’efficace azione popolare.
Ma l’Europa sociale è possibile solo sulla base di un’Europa politica, e
quindi sulla base di un nuovo processo di unificazione che non faccia
più dell’euro (moneta uguale per economie disuguali e quindi strumento
di divisione più che di unità) il suo legame fondamentale e trovi la
propria ragion d’essere, piuttosto, nella costruzione di un polo
geopolitico euromediterraneo capace di svolgere una funzione di pace e
di equilibrio nei prossimi sconvolgimenti mondiali. Questo processo deve
prevedere un recupero della sovranità nazionale, che sia però
immediatamente finalizzato alla costruzione di nuove alleanze tra Stati
economicamente affini ed abbia pur sempre l’obiettivo dell’edificazione
di un vero Stato confederale europeo.
Infine è chiaro che questo processo è possibile solo se coincide con
una riduzione del potere di quelle classi che lucrano sull’attuale
configurazione dell’Europa: ma anche i più antistatalisti tra noi
dovranno pragmaticamente convenire sul fatto che ciò implica la
riedificazione di un Stato che, modificando i rapporti di proprietà,
consenta di nuovo, ed in particolare sul terreno economico, l’efficacia
dell’azione pubblica, la tutela delle classi subalterne e, anche per
questa via, la rinascita della politica. Non si deve temere di
riprodurre lo statalismo e l’industrialismo: oggi si può governare una
parte dell’economia con strumenti che garantiscono sia un indirizzo
coerente sia un costante controllo da parte dei cittadini, e si può
accoppiare l’inevitabile presenza delle grandi imprese col fiorire delle
economie locali, delle “reti corte” e delle produzioni postindustriali.
Abbiamo ormai gli strumenti culturali per dar vita ad un governo
popolare che unisca queste due prospettive: l’autonomia sociale può
fornire nuovi gruppi dirigenti allo Stato e lo Stato può fornire le
risorse di base che sostengono l’autonomia sociale, il controllo della
politica sull’economia può coincidere col controllo dei cittadini sulla
politica. Nell’Italia di oggi, chi vuol ridurre il potere degli apparati
verticali del comando statale deve prima ricostruire il funzionamento
elementare degli apparati pubblici orizzontali di mediazione sociale,
distrutti dal federalismo e dalla sussidiarietà liberista.
Sulla base di idee come queste è possibile inserirsi con successo
nell’attuale caos della politica italiana e nella volatilità
dell’elettorato, e così rendere meno remota di quanto non sembri la
prospettiva di un governo popolare. A ben vedere, una delle ragioni
della nostra incapacità di costruire un’alternativa al Pd è il fatto di
esserci rivolti di preferenza alla medesima base elettorale del Pd
(lavoratori pubblici, lavoratori privati sindacalizzati, ceto medio
colto) offrendo ad essa più o meno lo stesso prodotto offerto da quel
partito, ossia la “democratizzazione dell’euro” (una variante della
“globalizzazione democratica”): sulla base dell’indiscussa accettazione
dell’euro, ci si divideva sul quantum di democrazia sociale possibile.
Ma se si offre lo stesso prodotto dei concorrenti, in una versione più
“pura”, ma anche più costosa e di qualità meno certa, si può avere un
relativo successo solo quando i consumatori sono in vena di spese,
mentre nei momenti di crisi si è destinati a soccombere. Si può avere un
discreto successo elettorale solo se ci si presenta come ala sinistra
del centro sinistra, solo se non c’è Annibale alle porte e se non c’è la
crisi, non quando ci si presenta da soli. Oggi, invece, una offerta
politica decisamente diversa può sia rappresentare un’alternativa
effettiva per il nostro elettorato tradizionale, migrato altrove, sia
consentirci di interloquire, finalmente, con il vasto mondo
dell’astensionismo di sinistra. E può anche farci parlare con una parte
dei ceti popolari già orientati a destra, soprattutto se sapremo
distinguere la necessaria lotta per una fortissima patrimoniale
dall’altrettanto necessaria riduzione delle sanzioni per la piccola
evasione, e se sapremo immaginare una ripresa del Paese che non si basi
solo (come vorrebbero Monti ed il Pd) sul recupero dell’evasione
fiscale, ma anche sulla nazionalizzazione delle grandi banche, su un uso
razionale della Cassa depositi e prestiti, su un uso innovativo del
patrimonio demaniale come base dell’emissione di titoli per finanziare
lo sviluppo.
Superamento dell’euro, sovranità nazionale, Europa politica, governo
popolare per la democrazia sociale: se la politica italiana muore nella
subalternità all’Europa monetarista essa può risorgere nella rottura di
questa subalternità. E con essa può risorgere la politica di classe e
popolare, e la sinistra che la organizza.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua