L’intuizione di riunire il popolo della sinistra è l’unica che può
dare consistenza ed efficacia alla vasta ma dispersa opposizione sociale
contro il neoliberismo e al montismo. Mentre Vendola ha portato acqua
al mulino del centrosinistra, la Federazione della sinistra è in preda a
una pulsione autodistruttiva e l’Italia vive in una situazione di
«equilibrio catastrofico»
Insegnava il vecchio Hegel che l’apparenza differisce dalla realtà, e che fidarsi della prima è pericoloso. Hegel era un metafisico, ma anche Marx la pensava così: se l’apparenza coincidesse con l’essenza, che bisogno avremmo della scienza? Le apparenze ingannano. Il problema è come leggerle in trasparenza, per cogliere la realtà che esse dissimulano. Dove guardare? Quale metodo usare?
Se in questione sono le tendenze politiche destinate a manifestarsi nelle prossime elezioni (le regionali in Lazio e Lombardia e soprattutto le politiche di primavera), buona cosa sarebbe riflettere con cura sui più recenti risultati elettorali. Le analisi e le inchieste giornalistiche servono. È giusto anche dar peso ai sondaggi, per quanto interessati siano. Ma il responso delle urne è un riscontro obiettivo, un dato di fatto con il quale si dovrebbero fare attentamente i conti. Per questo sembra opportuno tornare, a mente fredda, sul voto siciliano di fine ottobre: un voto dirompente, inquietante e molto istruttivo. Archiviato – forse proprio per questo – con eccessiva precipitazione.
Come si ricorderà, i risultati si riassumono in quattro dati: la vittoria del centrosinistra (che ha eletto il nuovo presidente); l’exploit del Movimento 5 Stelle (primo partito, col 18,1%); il record dell’astensionismo (52,58%); la débâcle della sinistra (Fds, Sel e Verdi fuori dall’Assemblea regionale, al pari dell’Idv). Un antico adagio dice che la Sicilia, con tutte le sue peculiarità, è un laboratorio della politica nazionale: chiediamoci, allora, quali lezioni è possibile trarre da questi risultati.
Cominciamo dai «vincitori». Il voto siciliano la dice lunga su quanto, sulla scena nazionale, cova sotto la brace del «governo tecnico». Come si ricorderà, il segretario del Pd ha brindato alla «svolta storica» per l’elezione di Crocetta, incurante dell’emorragia dei consensi (quasi la metà dei voti persi rispetto alle precedenti regionali nell’isola) e, soprattutto, del fatto che il neo-presidente rappresenta meno del 15% del corpo elettorale e controlla meno della metà dei seggi. Ma questo è un aspetto cruciale, che, mutatis mutandis, si riprodurrà anche su scala nazionale.
In Sicilia Crocetta non potrà muovere un passo senza l’appoggio di qualche avversario, e vedremo presto come risolverà l’enigma, se alleandosi con i grillini o accogliendo le profferte di Micciché, cioè ponendosi in continuità con la stagione di Lombardo e Cuffaro, alla quale, peraltro, la sua coalizione è tutt’altro che estranea. E nel resto del paese? Come si muoverà il vincitore delle primarie del centrosinistra, sempre che alle prossime politiche la sua coalizione prevarrà sugli avversari? Anche in questo caso – ferma restando l’incertezza sulla nuova legge elettorale – la parola-chiave sembra essere continuità.
In vista del ballottaggio Bersani ha consolidato l’intesa con Vendola, ma i fatti parlano chiaro. Parla chiaro la legge di stabilità votata in parlamento, come sanno bene sindaci e studenti, dipendenti pubblici e disabili. E parla chiaro l’accordo sulla produttività firmato da Cisl e Uil (e dall’Ugl), che perfeziona l’attacco al contratto nazionale sferrato da Sacconi con il famigerato art. 8. Il paese può pure manifestare dissenso con la protesta di piazza e gli scioperi, con il voto e il non-voto: ma nulla sembra turbare le certezze del gruppo dirigente democratico e del suo segretario, orgoglioso dello «spezzatino» delle imprese pubbliche attuato dai governi Prodi, e allineato all’oltranzismo monetarista del presidente della Repubblica.
A proposito di protesta e di non-voto, i fatti più rilevanti nelle elezioni siciliane sono senz’altro il risultato delle 5 Stelle (questa sì una svolta storica) e l’esplosione dell’astensionismo. Ha ragione Alfio Mastropaolo quando, su queste pagine, osserva che nulla di tutto ciò dovrebbe destare scandalo. Chi si stupisce, dove ha vissuto in questi anni, da quando la politica italiana è narrata come un romanzo criminale popolato da mariuoli, puttane e avventurieri? Da mesi il partito dell’astensione è il più grosso in tutto il paese e Grillo fa proseliti ovunque. Ora ci si spaventa di quanto si è scoperto in Sicilia, e indubbiamente il fatto di rappresentare a malapena un terzo dell’elettorato è motivo di allarme rosso per i partiti tradizionali. Ma, date le premesse, non era difficile prevedere che si sarebbe arrivati a questo punto. Di chi è la colpa? E che cosa si profila per il prossimo futuro?
La politica ha indubbiamente responsabilità enormi, ma non è la sola. Giornali e televisioni hanno puntato tutto su una martellante propaganda antipolitica, facendo di tutt’erbe un fascio e alimentando un’endemica propensione qualunquistica. Lo stesso Grillo dimostra quanto pesi il fattore mediatico. Nulla di tutto ciò è casuale. Demonizzare, ridicolizzare, irridere è un modo come un altro per rottamare un intero sistema politico e procedere a vele spiegate verso la «terza repubblica», dopo che la «seconda» ha fatto strame dei diritti sociali e delle conquiste del lavoro. L’attacco alla casta politica nel nome del «rigore» e del «merito» spiana la strada alle caste economiche (finanzieri, imprenditori, manager), alla nuova (o riciclata) nomenklatura dell’oligarchia post-democratica.
Sta di fatto che il paese è come sospeso sull’orlo di un precipizio. Trionfa il malcontento disorientato, il disorientamento risentito, come nelle situazioni che Gramsci definisce di «equilibrio catastrofico». Dire che può succedere di tutto quando la gente non vota più o vota per chi urla più forte e aizza allo sfascismo non è che una constatazione. È un film che si ripete da un secolo in Italia, con la buona borghesia a proprio agio nei panni dell’apprendista stregone. Così veniamo all’ultima questione che il voto siciliano ci consegna, speriamo non fuori tempo massimo.
In Sicilia la sinistra ha subito l’ennesima bruciante sconfitta. Ragionevolezza vorrebbe che quest’ennesima batosta determinasse un pur tardivo risveglio. Il mancato superamento dello sbarramento è la prova provata del fatto che, per evitare la definitiva sparizione della sinistra politica dalle istituzioni di questo paese, occorre ripensare a fondo le scelte compiute in questi quattro anni: rovesciare la pratica della frammentazione e riunire le opposizioni di sinistra a Monti. Capiterà? Non si può esserne certi, anche se qualcosa di nuovo, per fortuna, sta accadendo.
Vendola ha preso parte alle primarie del centrosinistra, ignorando i caveat di quanti, anche all’interno del suo partito, osservano che essersi impegnati a rispettare l’orientamento prevalente nella coalizione impedirà a Sel il perseguimento dei propri obiettivi programmatici. La pulsione autodistruttiva sembra dominare anche nella Federazione della sinistra, costretta ad «autosospendersi» al cospetto delle scelte divergenti delle sue componenti. Com’era prevedibile, molti, a sinistra, hanno dedotto dalla sconfitta siciliana che unirsi non serve. Come se un accordo estemporaneo, contrastante a tutto ciò che si è detto e fatto per anni sul piano nazionale, potesse risolvere problemi di lungo periodo. Il disastro siciliano ha dato fiato a chi teorizza l’appartenenza organica della sinistra al centrosinistra, propugnandone l’inclusione di fatto nel Pd, in linea con la formula centrista della santa alleanza tra «progressisti e moderati». Per fortuna, però, non tutti la pensano così.
L’appello «Cambiare si può» e l’assemblea romana di sabato scorso con De Magistris e Ingroia rappresentano un primo passo verso la costruzione di una lista di sinistra autonoma dal centrosinistra e distante dalla protesta grillina. Certo, resta qualche problema, eredità di questi tempi difficili. Permangono accenti minoritari e, qua e là, una indiscriminata avversione per «i partiti», che testimonia la pervasività di pulsioni antipolitiche. Ma l’intuizione di fondo – l’intenzione di riunire il popolo della sinistra, che ha votato per la difesa dei beni comuni e contro privatizzazioni e nucleare – è quella giusta: l’unica in grado di dare consistenza ed efficacia alla vastissima ma dispersa opposizione sociale al neoliberismo e al montismo. Insomma, è soltanto un inizio, ma è un buon inizio. C’è ancora molto lavoro da fare, ma finalmente qualcosa si è messo in movimento.
Ps. Qualche mese fa, nell’indifferenza generale, il manifesto ha denunciato la sistematica disinformazione sulle cause della crisi e sugli effetti perversi della politica economica del governo. Dopo un anno di dittatura dei «tecnici» siamo, come si dice, «alla frutta». Il Pil è in caduta libera (-2,3%); disoccupazione (all’11,4%) e povertà dilagano; il debito pubblico continua a crescere (ha superato il 126%), mentre ombre sinistre si allungano sulla sanità pubblica. Che per i signori dell’informazione Monti resti «SuperMario» la dice lunga sullo stato di salute della democrazia italiana. E non è certo un’attenuante che non ci sia più la censura, come ai vecchi tempi del Min.Cul.Pop.
Insegnava il vecchio Hegel che l’apparenza differisce dalla realtà, e che fidarsi della prima è pericoloso. Hegel era un metafisico, ma anche Marx la pensava così: se l’apparenza coincidesse con l’essenza, che bisogno avremmo della scienza? Le apparenze ingannano. Il problema è come leggerle in trasparenza, per cogliere la realtà che esse dissimulano. Dove guardare? Quale metodo usare?
Se in questione sono le tendenze politiche destinate a manifestarsi nelle prossime elezioni (le regionali in Lazio e Lombardia e soprattutto le politiche di primavera), buona cosa sarebbe riflettere con cura sui più recenti risultati elettorali. Le analisi e le inchieste giornalistiche servono. È giusto anche dar peso ai sondaggi, per quanto interessati siano. Ma il responso delle urne è un riscontro obiettivo, un dato di fatto con il quale si dovrebbero fare attentamente i conti. Per questo sembra opportuno tornare, a mente fredda, sul voto siciliano di fine ottobre: un voto dirompente, inquietante e molto istruttivo. Archiviato – forse proprio per questo – con eccessiva precipitazione.
Come si ricorderà, i risultati si riassumono in quattro dati: la vittoria del centrosinistra (che ha eletto il nuovo presidente); l’exploit del Movimento 5 Stelle (primo partito, col 18,1%); il record dell’astensionismo (52,58%); la débâcle della sinistra (Fds, Sel e Verdi fuori dall’Assemblea regionale, al pari dell’Idv). Un antico adagio dice che la Sicilia, con tutte le sue peculiarità, è un laboratorio della politica nazionale: chiediamoci, allora, quali lezioni è possibile trarre da questi risultati.
Cominciamo dai «vincitori». Il voto siciliano la dice lunga su quanto, sulla scena nazionale, cova sotto la brace del «governo tecnico». Come si ricorderà, il segretario del Pd ha brindato alla «svolta storica» per l’elezione di Crocetta, incurante dell’emorragia dei consensi (quasi la metà dei voti persi rispetto alle precedenti regionali nell’isola) e, soprattutto, del fatto che il neo-presidente rappresenta meno del 15% del corpo elettorale e controlla meno della metà dei seggi. Ma questo è un aspetto cruciale, che, mutatis mutandis, si riprodurrà anche su scala nazionale.
In Sicilia Crocetta non potrà muovere un passo senza l’appoggio di qualche avversario, e vedremo presto come risolverà l’enigma, se alleandosi con i grillini o accogliendo le profferte di Micciché, cioè ponendosi in continuità con la stagione di Lombardo e Cuffaro, alla quale, peraltro, la sua coalizione è tutt’altro che estranea. E nel resto del paese? Come si muoverà il vincitore delle primarie del centrosinistra, sempre che alle prossime politiche la sua coalizione prevarrà sugli avversari? Anche in questo caso – ferma restando l’incertezza sulla nuova legge elettorale – la parola-chiave sembra essere continuità.
In vista del ballottaggio Bersani ha consolidato l’intesa con Vendola, ma i fatti parlano chiaro. Parla chiaro la legge di stabilità votata in parlamento, come sanno bene sindaci e studenti, dipendenti pubblici e disabili. E parla chiaro l’accordo sulla produttività firmato da Cisl e Uil (e dall’Ugl), che perfeziona l’attacco al contratto nazionale sferrato da Sacconi con il famigerato art. 8. Il paese può pure manifestare dissenso con la protesta di piazza e gli scioperi, con il voto e il non-voto: ma nulla sembra turbare le certezze del gruppo dirigente democratico e del suo segretario, orgoglioso dello «spezzatino» delle imprese pubbliche attuato dai governi Prodi, e allineato all’oltranzismo monetarista del presidente della Repubblica.
A proposito di protesta e di non-voto, i fatti più rilevanti nelle elezioni siciliane sono senz’altro il risultato delle 5 Stelle (questa sì una svolta storica) e l’esplosione dell’astensionismo. Ha ragione Alfio Mastropaolo quando, su queste pagine, osserva che nulla di tutto ciò dovrebbe destare scandalo. Chi si stupisce, dove ha vissuto in questi anni, da quando la politica italiana è narrata come un romanzo criminale popolato da mariuoli, puttane e avventurieri? Da mesi il partito dell’astensione è il più grosso in tutto il paese e Grillo fa proseliti ovunque. Ora ci si spaventa di quanto si è scoperto in Sicilia, e indubbiamente il fatto di rappresentare a malapena un terzo dell’elettorato è motivo di allarme rosso per i partiti tradizionali. Ma, date le premesse, non era difficile prevedere che si sarebbe arrivati a questo punto. Di chi è la colpa? E che cosa si profila per il prossimo futuro?
La politica ha indubbiamente responsabilità enormi, ma non è la sola. Giornali e televisioni hanno puntato tutto su una martellante propaganda antipolitica, facendo di tutt’erbe un fascio e alimentando un’endemica propensione qualunquistica. Lo stesso Grillo dimostra quanto pesi il fattore mediatico. Nulla di tutto ciò è casuale. Demonizzare, ridicolizzare, irridere è un modo come un altro per rottamare un intero sistema politico e procedere a vele spiegate verso la «terza repubblica», dopo che la «seconda» ha fatto strame dei diritti sociali e delle conquiste del lavoro. L’attacco alla casta politica nel nome del «rigore» e del «merito» spiana la strada alle caste economiche (finanzieri, imprenditori, manager), alla nuova (o riciclata) nomenklatura dell’oligarchia post-democratica.
Sta di fatto che il paese è come sospeso sull’orlo di un precipizio. Trionfa il malcontento disorientato, il disorientamento risentito, come nelle situazioni che Gramsci definisce di «equilibrio catastrofico». Dire che può succedere di tutto quando la gente non vota più o vota per chi urla più forte e aizza allo sfascismo non è che una constatazione. È un film che si ripete da un secolo in Italia, con la buona borghesia a proprio agio nei panni dell’apprendista stregone. Così veniamo all’ultima questione che il voto siciliano ci consegna, speriamo non fuori tempo massimo.
In Sicilia la sinistra ha subito l’ennesima bruciante sconfitta. Ragionevolezza vorrebbe che quest’ennesima batosta determinasse un pur tardivo risveglio. Il mancato superamento dello sbarramento è la prova provata del fatto che, per evitare la definitiva sparizione della sinistra politica dalle istituzioni di questo paese, occorre ripensare a fondo le scelte compiute in questi quattro anni: rovesciare la pratica della frammentazione e riunire le opposizioni di sinistra a Monti. Capiterà? Non si può esserne certi, anche se qualcosa di nuovo, per fortuna, sta accadendo.
Vendola ha preso parte alle primarie del centrosinistra, ignorando i caveat di quanti, anche all’interno del suo partito, osservano che essersi impegnati a rispettare l’orientamento prevalente nella coalizione impedirà a Sel il perseguimento dei propri obiettivi programmatici. La pulsione autodistruttiva sembra dominare anche nella Federazione della sinistra, costretta ad «autosospendersi» al cospetto delle scelte divergenti delle sue componenti. Com’era prevedibile, molti, a sinistra, hanno dedotto dalla sconfitta siciliana che unirsi non serve. Come se un accordo estemporaneo, contrastante a tutto ciò che si è detto e fatto per anni sul piano nazionale, potesse risolvere problemi di lungo periodo. Il disastro siciliano ha dato fiato a chi teorizza l’appartenenza organica della sinistra al centrosinistra, propugnandone l’inclusione di fatto nel Pd, in linea con la formula centrista della santa alleanza tra «progressisti e moderati». Per fortuna, però, non tutti la pensano così.
L’appello «Cambiare si può» e l’assemblea romana di sabato scorso con De Magistris e Ingroia rappresentano un primo passo verso la costruzione di una lista di sinistra autonoma dal centrosinistra e distante dalla protesta grillina. Certo, resta qualche problema, eredità di questi tempi difficili. Permangono accenti minoritari e, qua e là, una indiscriminata avversione per «i partiti», che testimonia la pervasività di pulsioni antipolitiche. Ma l’intuizione di fondo – l’intenzione di riunire il popolo della sinistra, che ha votato per la difesa dei beni comuni e contro privatizzazioni e nucleare – è quella giusta: l’unica in grado di dare consistenza ed efficacia alla vastissima ma dispersa opposizione sociale al neoliberismo e al montismo. Insomma, è soltanto un inizio, ma è un buon inizio. C’è ancora molto lavoro da fare, ma finalmente qualcosa si è messo in movimento.
Ps. Qualche mese fa, nell’indifferenza generale, il manifesto ha denunciato la sistematica disinformazione sulle cause della crisi e sugli effetti perversi della politica economica del governo. Dopo un anno di dittatura dei «tecnici» siamo, come si dice, «alla frutta». Il Pil è in caduta libera (-2,3%); disoccupazione (all’11,4%) e povertà dilagano; il debito pubblico continua a crescere (ha superato il 126%), mentre ombre sinistre si allungano sulla sanità pubblica. Che per i signori dell’informazione Monti resti «SuperMario» la dice lunga sullo stato di salute della democrazia italiana. E non è certo un’attenuante che non ci sia più la censura, come ai vecchi tempi del Min.Cul.Pop.
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