Pierluigi Bersani ha dimostrato di avere una idea chiara e di avere
altrettanto chiaro il come metterla in pratica. Non solo ha vinto le
primarie ma sta andando assai vicino a due imprese storiche. Andare al
governo con una coalizione, quale che sarà alla fine, imperniata sul suo
partito e guidata direttamente da lui. E rendere il PD il grande
contenitore che molti hanno ambito a realizzare prima di lui, senza
averne la capacità. Onore dunque all’uomo che sta riuscendo in ciò che
altri, che apparivano più titolati, non hanno saputo concretizzare.
Naturalmente ciò è anche frutto dei tempi che sono cambiati.
Cambiati, per le aspettative di leadership che sono maturate nel corpo
sociale e che sono più inclini alla “ normalità bersaniana “. Cambiati
per la grande crisi delle destre. Cambiati per il venir meno di una
sinistra autonoma capace di costituire una contraddizione attiva nella
realizzazione della egemonia piddina.
Ma è indubbio che Bersani ha saputo però svolgere bene la sua parte,
occupando in modo intelligente lo spazio che gli si apriva. Prendiamo
proprio lo svolgimento delle primarie. Il segretario ha saputo
governarle strategicamente, occupandone l’intero campo e,
contemporaneamente, riuscendo a giocare anche in contropiede. Le ha
assunte lui direttamente, rispetto allo stesso Vendola che ne aveva
fatta la ragione di esistenza del suo progetto politico. Le ha aperte
lui a Renzi che, anche lui, le aveva concepite come terreno della
rottamazione. Ha saputo valersi della spinta di Renzi per fare
contestualmente due operazioni. La prima, avvalersene per portare avanti
un progetto di autoriforma indispensabile sia alla crescita dell’idea
del grande PD, sia alla sua stessa leadership personale.
Contemporaneamente ha collocato Renzi nel ruolo di colui che voleva
snaturare il carattere “ progressista “ del PD stesso e della
coalizione, colui che guardava a destra e da destra, rendendolo dunque
una sorta di “ minaccia “ contro cui combattere.
E contro cui far combattere gli altri. Non c’è dubbio infatti che
Vendola abbia finito per fare una campagna assai più contro Renzi che
per la sua propria vittoria. Non so quanto ciò sia stato consapevole
nelle scelte del leader di SEL e cioè se avesse dismesso ormai l’idea
che potesse essere lui a vincere il confronto. Certo quella era
l’ambizione originaria in nome della quale era stata motivata la scelta
di aderire sempre più strettamente al campo delineato dal PD.
Sicuramente gli altri elementi messi via via in essere dal Presidente
pugliese, e cioè la assoluta centralità del governo e l’inesistenza di
alcun terreno agibile fuori da quello del centrosinistra, hanno ancor
più ridotto i suoi margini di manovra rispetto appunto alla copertura di
quello spazio da parte di Bersani. Forse nei calcoli tattici c’era
l’idea di potersi giocare le carte al secondo turno una volta sconfitto
il “ comune nemico “, Renzi. Ma questo non lo sapremo mai perché i
materiali immessi da Vendola nel cimento delle primarie sono stati
inadeguati a portarcelo.
Il tema però del se a quella vittoria Vendola credesse e se essa
fosse ad un certo punto della sua parabola politica, cioè qualche tempo
fa, possibile è però comunque un tema politico. Perché ci fa ragionare,
attraverso queste domande, sull’oggi e cioè sul dopo primarie. Visto dal
punto di collocazione di Bersani il suo successo è il più classico dei
collocarsi al centro, evocando due ali a sinistra e a destra, Renzi e
Vendola. Siamo nei manuali di scuola del vecchio Pci. E altrettanto
classico è il fatto che quel collocarsi al centro preveda una evoluzione
del proprio posizionamento sussumendo, e non assumendo, quello delle
ali equilibratrici che, proprio in quanto tali devono restare allineate.
Se vediamo alla direzione di volo che Bersani sta prendendo viene in
mente un altro classico e cioè quello del rinnovamento nella continuità.
Ma cosa sono questi elementi classici propri di un’altra storia,
quella del PCI, riferiti invece all’oggi e cioè al PD e a questo periodo
storico incarnato dalla crisi democratica e dell’edificazione
dell’Europa post compromesso sociale? Questa è la domanda chiave che
bisogna porsi perché guarda a come un’antica cassetta degli attrezzi
viene agita in un contesto del tutto modificato e da un soggetto
altrettanto modificato, e cioè il PD che non è e non sarà mai un nuovo
PCI.
Per questo guardo ai punti di vista di Vendola e di Renzi ancora una
volta dal punto di vista di Bersani, il vincitore. Quei punti di vista
non potevano vincere perché avrebbero deprivato il PD di ciò che il PD
ha voluto essere e cioè un corpo che trasformava la sua vecchia natura
concepita per il cambio di società in un altro che ne manteneva alcuni
connotati, a partire dalla capacità di selezionare le proprie scelte
seconde gerarchie segnate dal “ primato della politica “, ma vocandoli
al governo. Il governo per quello che oggi è rispetto ad un quadro che
non è più modificabile nelle linee di fondo.
Per questo Vendola e Renzi sono sussunti assai più che assunti. Per
questo l’assetto di volo di Bersani è il suo e non è piegato né verso la
rottamazione né verso una svolta a sinistra. Basta vedere subito
l’atteggiamento sulla questione TAV per capire che questa è la realtà.
Realtà dura perché riguarda le ragioni stesse del successo del PD.
Queste primarie hanno goduto di una campagna dei mass media senza
precedenti. Al punto da non far riflettere sul fatto che pure in
presenza di un grande successo di partecipazione questa sia stata
abbastanza inferiore a quella di altre primarie della vecchia Unione. E
anche sulla perdita di 300 mila votanti tra il primo e il secondo turno
che pure dovrebbe far riflettere anche chi rivendica il contributo dei “
suoi “ al ballottaggio vincente di Bersani. Questa straordinaria
copertura è certamente dovuta alla caratteristica democratica
dell’evento ma non può sfuggire che con essa c’entra sicuramente anche
con ciò che da quel corpo lì ci si attende da parte di molti e cioè che
sappia governare per quello che l’Europa vuole e prevede. Cosa che del
resto i socialisti europei fanno arrivando a votare a favore del Fiscal
Compact anche dall’opposizione, come la SPD.
Non è dunque un caso che proprio il rispetto dei Trattati e delle
scelte europee sia stato il cardine della carta d’intenti e che questo
abbia delimitato il campo e la natura della alleanza al punto da rendere
non credibili vittorie altre da quella di chi quel campo lo incarna e
cioè il PD con il suo segretario. Che per altro giustamente ricorda che
l’altra regola che rende diversa questa coalizione è che si voterà a
maggioranza.
Mi restano poche righe che dedico a un breve pensiero di chi, come
me, di quel campo non si sente parte e pensa che possa rappresentare più
che la soluzione, il permanere del problema. Sono ancor più convinto
oggi che una nuova sinistra in Italia possa nascere solo da un processo
profondo di rimessa in discussione delle vecchie categorie a partire da
quelle del “primato della politica “ che se hanno aiutato una storia
antica oggi impediscono una storia nuova. Una nuova sinistra rinasce se
saprà da un lato opporsi all’imposizione dell’ordine esistente e alla
richiesta di esserne parte nella sua gestione, se saprà far centro sulla
dimensione europea e se saprà ricostruire nel cambiamento sociale e
democratico posto dai movimenti la sua ragion d’essere. Allora si che si
potrà dire che cambiare si può.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua